29.3.18

Decadenze. L’Italia si perde e trascina i Medici (Matteo Strukul)

Maria d' Medici nel ritratto di Pieter Paul Rubens

E' con l’inizio del Seicento che comincia, inesorabile, la decadenza della dinastia medicea. Di un simile progressivo crepuscolo della famiglia, Maria – cugina di Caterina e figlia di Francesco I, granduca di Toscana – sembra essere, suo malgrado, la figura più rappresentativa. Lei che aveva sposato Enrico IV, re di Francia, e che però, alla morte di quest’ultimo, avvenuta per mano del fanatico Ravaillac (che lo uccise con due coltellate), si ritrovò reggente prima e poi regina esiliata da Parigi per ben due volte. Lei, osteggiata dal duca di Luynes nel 1617 e dal cardinale di Richelieu nel 1630, lei allontanata dal proprio figlio Luigi e morta sola e in povertà a Colonia, dopo che Rubens, il celebre pittore fiammingo, l’aveva ospitata presso una sua piccola casa d’Anversa.
C’è, nella parabola di Maria, tutta la caduta dei Medici, quel ripido precipitare che porta una grande dinastia a contare sempre meno, sia per la stagnazione dei commerci e una perduta capacità di guardare oltreconfine, sia per la peste nera del 1630 che scaraventa l’Europa intera nel suo periodo più buio, e non da ultimo per le figure particolarmente incolori che si susseguono a Firenze: su tutte il povero Cosimo II, granduca di Toscana, disperatamente alla ricerca di un’impresa che lo faccia passare alla storia e che invece incappa in una serie di episodi donchisciotteschi che gli precludono qualsiasi successo politico. Si pensi alla tentata crociata fuori tempo massimo per la liberazione di Gerusalemme che a nulla porterà, o alla successiva auspicata sollevazione dei popoli d’Oriente contro l’impero ottomano grazie a una sua bizzarra amicizia con Fakhr ad-din, sedicente principe dei Drusi, che si rivelerà, invece, impostore e ciarlatano.
Ma è anche il mutare dei tempi a decretare la lenta e ineluttabile caduta della dinastia medicea. Quel secolo di ferro, come venne definito il Seicento, si rivelò per l’Italia a dir poco fatale: le corporazioni d’arti e mestieri, lungi dal rappresentare un fattore di progresso com’era avvenuto trecento anni prima, sono ora piccole consorterie di potere che impediscono l’innovazione e l’applicazione delle nuove tecniche di produzione, condannando l’esportazione italiana di manifatture. Se si combina questa prima sciagura con la dominazione spagnola che instilla nelle classi più abbienti una mentalità ancor più aristocratica e di totale disprezzo verso qualsiasi attività lavorativa e imprenditoriale, e si aggiunge la tragedia della peste che dimezza la popolazione, risulta evidente quanto Firenze, Venezia, Roma e Milano vengano consegnate al provincialismo e all’arretratezza.
Firenze, centro di quel Rinascimento generato dallo spirito d’iniziativa, dall’intuizione mercantile, dalla precisa strategia commerciale, che rifluivano come una marea spumeggiante nell’amore per l’arte, la bellezza e la cultura, è ora solo l’ombra di se stessa. Quell’infinita schiera d’artisti e letterati che avevano gravitato nell’orbita della corte medicea ora vengono improvvisamente a mancare e se è vero che il Seicento è il secolo di uno dei più grandi pittori di sempre, Caravaggio, è però indicativo che quest’ultimo, come Bernini, Parmigianino o Guido Reni, operi presso ben altre corti. Tra i maggiori studiosi dell’arte italiana vi è proprio quel Pieter Paul Rubens che Maria de’ Medici chiamerà alla propria corte, commissionandogli un ciclo d’opere. Verranno disposte nel Palazzo del Lussemburgo, costruito secondo i canoni fiorentini da un formidabile architetto francese: Salomon de Brosse. L’Italia e i Medici sembrano dunque sopravvivere in un ultimo sospiro d’arte, catturato però da artisti che italiani non sono.

La lettura – Corriere della sera, 29 ottobre 2017

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