Valeri Magrelli |
«Un tempo c’era una
distinzione, una capacità critica che oggi è sparita. Quando apro i
giornali nazionali, vedo le pubblicità della Feltrinelli e il
consiglio “leggete questo libro” è firmato da un comico o
addirittura da un lettore; quando compro un libro di poesia e la
prefazione è scritta da un conduttore televisivo, vuol dire che la
bussola è impazzita. Non esistono più punti di riferimento».
Nell’era dei social media, della fine degli esperti e dell’uno
vale uno, la critica letteraria non fa eccezione. «Un tempo
potevi costruirti una fama di critico e il giornale ti chiamava, ora
è il contrario: prendono uno qualsiasi, lo fanno scrivere di libri
ed eccolo diventato critico».
A parlare è Valerio
Magrelli, poeta, scrittore, professore di letteratura francese
all’Università di Cassino. Lo incontriamo nel salotto della sua
casa romana, a due passi da Piazza del Popolo. Argomento: la fine
degli esperti in letteratura.
«Attenzione», ci tiene
a precisare al riguardo, «nelle riviste, in moltissimi siti, ci
stanno fior fior di ragazzi studiosi, critici, come forse non ce
n’erano prima. Ma il mercato, grazie alla compiacenza di chi poteva
frenarlo, ha voluto confondere tutto. Ecco perché sentiamo il
cantautore che si presenta come professore universitario, quando non
lo è; ecco perché sentiamo un giudizio critico espresso da un
cantante, un romanzo scritto da un attore televisivo, e vediamo in
classifica i libri da passatempo (sacrosanto e dignitosissimo), ma
spacciati per letteratura».
Ce l’ha con i critici
di professione Magrelli? «Piuttosto, con i non-critici. Ce ne fu uno
che diventò famoso perché su un giornale nazionale pubblicò una
copertina con il titolo “Giorgio Faletti, il più grande scrittore
italiano”. Se scrivi su un giornale nazionale una cosa del genere,
sei responsabile di migliaia di ragazzi che, fidandosi dell’autorità
del quotidiano, crederanno a una sparata del genere. Non penseranno
che magari possa essere un Tabucchi, uno Zanzotto; no, Faletti,
contro il quale io non ho nulla. È stato un bravo comico, magari
avrà scritto un buon libro, ma questo titolo è come il napalm.
Distrugge tutto, fa il deserto. Chi perderà più tempo a leggere
Gianni Celati?»
Secondo Magrelli, è
ancora necessario distinguere tra letteratura di ricerca e
letteratura di consumo, o meglio, precisa, «fra letteratura di
interrogazione e letteratura di intrattenimento. Per questo parlo di
una cultura in dialisi. Questa è l’immagine che ho avuto: la
dialisi è quella cura che si mette in opera quando i reni non
funzionano più, non filtrano più. Ecco, per me i reni della cultura
erano le pagine culturali. Quando propongo un articolo su Céline, e
mi dicono che andrà nella pagina successiva perché nella prima c’è
un’intervista a Ombretta Colli, vuol dire che i reni sono da
buttare. Ombretta Colli che sta nella prima pagina di uno dei più
importanti giornali culturali è come una bandiera bianca. Ci
arrendiamo. È finita. In Italia io ho visto tutto ciò dall’inizio.
Ricordo il “responsabile” (lo dico scherzando): Antonio Ghirelli.
Un giornalista che scrisse del calcio come cultura. L’imbroglio era
nato».
Per l’autore degli
Esercizi di tiptologia (Mondadori, 1992) tutto dipende da cosa
si intende per cultura. L’equivoco nasce da qui.
«Una cosa è la cultura
in senso antropologico, lì possiamo parlare del seppellimento dei
morti, delle feci o del modo di cucinare (è cultura in senso lato);
altro è parlare di cultura in senso stretto. Lo scambio tra queste
due sfere ha fatto sì che adesso i rettori diano la laurea honoris
causa a sarti, cuochi e motociclisti. Mi spiace, su questo non
transigo. Detesto la celebrazione dell’ordinario. Tu non puoi fare
un corso sulla Storia della televisione e metterlo sullo stesso piano
di un corso sulla Storia dell’Illuminismo».
Per Magrelli il discusso
Nobel per la letteratura a Bob Dylan è l’esempio paradigmatico di
questo cortocircuito. «Non c’è niente da fare, non è
dietrologia, io vedo da vent’anni in qua, un sistematico attacco
portato contro la scuola pubblica e contro il concetto di cultura
come pensiero critico. Adesso l’alternanza scuola-lavoro è il
colpo di grazia. Certo, esiste ancora chi legge i classici. Io vedo
dei ragazzi preparatissimi, per fortuna. Ma questi sforzi sono
offuscati dalla glorificazione dell’esistente. Ricordo, ebbi una
lite violenta perché a una seduta di laurea uno studente aveva
portato una tesi triennale su Amleto e un altro sulle parole di De
Andrè. Al momento della valutazione, volevano dare il massimo a
tutt’e due. Io dissi: “Passerete sul mio corpo: non sia mai che
un testo di tale complessità venga messo sullo stesso piano delle
parole (si badi: non “parole e musica”) di De Andrè”».
Secondo il poeta non è
questione di alto o basso, ma di coefficiente di difficoltà. «Come
nei tuffi: tu mi fai un tuffo a bomba impeccabile, l’altro mi fa un
triplo carpiato. Ecco, le parole di De Andrè (attenzione, ripeto,
non parlo della musica) sono un tuffo a bomba. È fatto bene, certo,
ma ammetterete che comunque ci voleva meno che scrivere l’Amleto.
O no? Andando via, domandai: “Alla magistrale, tesi sui Fratelli
Righeira? (che peraltro hanno scritto canzoni di rara intelligenza,
vedi L’estate sta finendo)”».
E se dovesse essere
Valerio Magrelli a consigliare ai lettori di pagina99 degli autori
italiani contemporanei di qualità, chi sceglierebbe?
«Nella narrativa, che in
realtà seguo poco, ho letto recentemente uno dei primi romanzi di
Michele Mari. Ho visto degli spettacoli teatrali di Vitaliano
Trevisan, molto belli. Mi piacciono Michela Murgia o Mauro Covacich.
Ma è difficilissimo immaginare quello che può interessare al
pubblico. Per me è una sfida impossibile, mi sono arreso. Nel 2010
scrissi Addio al calcio, in cui credevo molto: andò
malissimo. Mi dissi: a questo punto scrivo un libro che potremo
leggere solo io e mia sorella, e scelgo pure un titolo insolito,
Geologia di un padre; me ne frego di tutto. Inutile dire che è
il mio volume andato meglio. Anche con i miei figli era lo stesso:
quando erano piccoli mi divertivo a consigliare loro dei libri e li
sbagliavo tutti. Indovinare è impossibile. Una volta, ad esempio,
mia figlia liceale prende dalla mia scrivania Finzioni di
Borges, un testo difficilissimo. Tempo dopo mi dice: “Era questo
che mi dovevi far leggere, non gli altri”. Oppure mio figlio con
Lolita di Nabokov. Mi disse: “Ma perché mi hai consigliato
tante stupidaggini al posto di questo?”».
“Pagina 99”, 3
novembre 2017
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