«Nebbia sulla Manica: il
Continente è isolato». La storiella non gode più di molto credito
ma serve ancora oggi per avere un’idea di quel che gli inglesi
pensavano di se stessi ai tempi della regina Vittoria. Londra
ombelico del mondo, e la Gran Bretagna centro di un Impero che, nel
’700, aveva assunto come esplicito modello l’organizzazione
dell’antica Roma. Era una forma di superiority complex che
tradiva la convinzione di rappresentare il volere del Padreterno
sulla Terra. Una sindrome che è comune a tutti popoli, almeno in
potenza, e che dura finché durano le forze.
Non era stato sempre
così. All’inizio del ’500 l’Inghilterra era ancora un regno
periferico sfiorato appena dall’ondata di modernità che stava
attraversando l’Europa, ed è proprio a partire da quel momento che
ha fatto un balzo in avanti senza precedenti e che non avrebbe più
avuto l’eguale. Seppero migliorarsi, gli inglesi, prima ancora di
eccellere, perché vollero essere in grado di “fare una bella
figura”.
È appena uscito negli
Stati Uniti un libro, Elizabeth I’s Italian Letters, a cura
di Carlo M. Bajetta dell’Università della Valle d’Aosta, il cui
titolo, almeno sulle prime, quasi sorprende. Al punto di indurre il
lettore poco addentro alle faccende cancelleresche a chiedersi se non
si tratti di uno di quei romanzi che hanno come protagonista un vip o
una vip del passato – amori proibiti, preferibilmente –, con
tanto di carteggio inedito e l’allettante prospettiva di essere
trasformato in un film di Hollywood.
Si tratta invece di un
lavoro di altissimo valore, in cui sono tradotte per la prima volta
in inglese le lettere, per lo più di carattere diplomatico, che la
regina Elisabetta ebbe a scrivere in italiano nel corso della sua
vita. Sono 29 in tutto – più una trentesima, indirizzata «al
molto Potente et Inuincibile Emperadore de Cathaya», ovvero della
Cina, che la dice lunga sulla portata delle sue ambizioni – e,
prima ancora che il nostro sprovveduto lettore abbia aperto il libro,
sono passibili della domanda delle cento pistole. E, cioè: «Come
mai le lettere non sono scritte in inglese?».
La risposta sta nel fatto
che l’inglese era una lingua conosciuta da pochi e che
evidentemente non godeva di molto prestigio. Non era chic. Era sì
stata portata alle stelle, in quegli anni, dal genio di Marlowe e di
Shakespeare, di Spenser e di John Donne; ma costoro, per quanto
importanti in patria, non erano figure che dessero lustro e prestigio
al Paese fuori dai suoi confini. Non come i poeti o le rockstar dei
nostri tempi.
Marlowe e Shakespeare
erano infatti semplici teatranti: gente che, per non essere
considerata alla stregua dei vagabondi, veniva iscritta come facente
parte della servitù nel registro di casa di qualche nobile
protettore. John Donne, da parte sua, era notissimo come predicatore
ma certamente non come uomo di lettere, e la sua fama, fino all’epoca
romantica et ultra, non arrivò mai al di là del Tamigi. Infine,
Edmund Spenser, autore di un monumentale poema, La regina della
fate, che ambiva a essere riconosciuto un giorno all’altezza
dell’Eneide e della Gerusalemme liberata ma che era stato pensato e
scritto in Irlanda, un Paese che era allora lontano dal mondo delle
Corti europee come il Mar Nero del povero Ovidio.
Insomma, gli inglesi –
così come l’inglese – si accingevano a imporsi nel mondo;
stavano per diventare potenti, di qua e di là dell’Oceano; avevano
sconfitto la Invincibile Armata degli spagnoli nella battaglia di
Gravelines (1588); ma, come succede ai parvenu, erano anche
consapevoli che i soldi non bastano. Ricchi lo erano certamente, gli
inglesi, perché prima di Elisabetta – e prima di suo padre Enrico
VIII –, il nonno Enrico VII, fondatore della dinastia Tudor, aveva
promosso una politica che favoriva l’esportazione dei manufatti in
Francia e nelle Fiandre; e aveva stipulato in Italia un vantaggioso
accordo con la Repubblica fiorentina governata dai Medici.
Dopo Enrico VIII e la
decisiva separazione dalla Chiesa di Roma, la giovane Bessy, salita
al trono nel 1558, aveva provveduto a far alleggerire i galeoni
spagnoli carichi d’oro e d’argento che arrivavano dall’America,
e aveva poi insignito del titolo di cavaliere il corsaro Francis
Drake, futuro comandante in seconda della flotta di Sua Maestà e
successivo eversore della città di Cadice, saccheggiata dagli
inglesi nel 1596.
Non fu però soltanto per
darsi un tono che il grande conte di Essex, spintosi l’anno
seguente a Faro in territorio portoghese, ripulì la preziosa
biblioteca del vescovo Osorio, per donarla in seguito all’umanista
e bibliofilo Thomas Bodley che ne fece tesoro rifondando la vecchia
biblioteca di Oxford (1602), oggi nota come Bodleian Library.
L’interesse per la cultura e la sete di sapere era genuina negli
inglesi – nel ceto dirigente inglese – del XVI secolo. La Riforma
protestante che, con Enrico VIII si era limitata a uno scisma, aveva
sensibilmente aumentato il numero di coloro che avevano imparato a
leggere e scrivere. E non fu solo la Bibbia a essere tradotta.
Dall’italiano, in prosa
e in versi, gli inglesi tradussero di tutto. Boccaccio e Bandello,
Ariosto e Tasso; il Cortegiano di Baldassarre Castiglione, che
diventò il libro d’ore dei gentiluomini a Corte; gli Ecatommiti
di Giraldi Cinzio, saccheggiati da Shakespeare; il Machiavelli
dell’Arte della guerra e persino l’esecrato Principe,
che però poté circolare – mammamia, che rischio! – solamente in
forma di manoscritto.
Di Petrarca non mette
conto parlare perché nel ’500 era sul tavolo di poeti e cavalieri
che si compiacevano di singhiozzare sul tema dell’amore infelice.
Era una sorta di must per chi volesse mostrarsi all’altezza,
e fare la necessaria bella figura. La prova sta nel fatto che lo si
leggeva in italiano, Petrarca, e la nostra era una lingua che godeva
di grande prestigio e dava un tono – come oggi, a parti capovolte,
l’inglese – quando, con uno scambietto o un inchino, un dotto o
una dama se ne serviva, a voce o per iscritto.
Elisabetta l’italiano
lo sapeva e lo parlava piuttosto bene. E aveva sempre voluto che le
damigelle del seguito, nonché i componenti la ristretta cerchia dei
collaboratori, fossero in grado di masticarlo. Nelle lettere se ne
servì in luogo del latino, che pure continuava a essere la lingua
della diplomazia, in circostanze in cui fosse utile mostrare un
sentimento di amicizia o di devozione nei confronti
dell’interlocutore; il quale, uomo o donna che fosse, non
rispondeva però mai – e ci sono le prove in archivio – nella
grossolana lingua di Elisabetta; i cui svolazzi nelle varie firme
rappresentano una sorta di correlativo oggettivo, non dico di baci ed
abbracci – impensabili e inappropriati nel comportamento di una
sovrana –, ma di una affabilità aggraziata e tuttavia circospetta.
Come spiega il professor
Bajetta nel suo sagace commento, è possibile vedere nei ghirigori
della scaltrissima regina non solo una decorazione e un omaggio
personale a dogi e granduchi, marchesi e imperatori, ma anche il
sintomo di qualche indugio. Come se nel momento decisivo, Elisabetta
volesse prendere tempo e riflettere sul contenuto della missiva che
stava per licenziare.
Elizabeth I’s
Italian Letters è un libro per topi di biblioteca che, insieme
alla trascrizione e traduzione dei testi – alcuni olografi, altri
di mano diversa da quella della regina, ma tutti quanti, quando non
si tratta di brogliacci o minute, recanti la sua firma – rivela al
lettore profano l’insospettabile mondo in cui si muovono paleografi
e codicologi (si chiamano così!), filologi e archivisti. Gente che,
anche se non sembra, fa in realtà parte del jet set: oggi qui, il
prossimo mese Londra, poi Washington e Chicago; e, sulla via del
ritorno, Vienna, prima di tornare a riseppellirsi in una delle nostre
biblioteche. I manoscritti sparsi nel mondo sono frammenti di una
storia infinita, e i nostri valorosi studiosi vanno e vengono, in
cravatta e doppiopetto, al modo in cui si muovono le spie.
"Il Sole 24 ore Domenica", 27 febbraio 2018
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