Vecchio ritaglio con la
vecchia recensione di un vecchio libro. Nel frattempo anche noi siamo
diventati più vecchi e la situazione non è migliorata. Anzi …
(S.L.L.)
Distinguere i buoni-veri
dai buoni-finti è, oggi come oggi, molto difficile. Più facile è
distinguere tra i libri buoni e quelli che toccano i problemi
fondamentali con la superficialità dei piccoli profittatori
opportunisti. Il dovere di chi segue la produzione libraria e in
generale artistica e culturale è quello di segnalare il meglio,
soprattutto tra i saggi che parlano dell’Italia e dei suoi
problemi, e per fortuna ce ne sono diversi che non sono né
pretestuosi né ruffiani, perché nonostante tutto l’università
continua ad avere, in alcune sacche e in alcuni anfratti, molte teste
pensanti e riesce ancora a produrre molti giovani di talento che non
fuggono dall’Italia appena possibile (ma se lo fanno, hanno tutte
le ragioni per farlo) e che sono interessati a una conoscenza attiva
e propositiva, a confrontarsi con la realtà. Lo fa l’università,
non lo fanno i media, quasi sempre micidiali.
Dei tanti libri inutili
che narrano le pene dell’Italia odierna l’elenco di quelli brutti
sarebbe interminabile, ma è piuttosto lungo anche quello dei buoni,
e uno in particolare dovrebbe sollecitare l’attenzione dei lettori,
Italia sperduta di Carlo Donolo (Donzelli). Donolo è un
sociologo serio, seriamente preoccupato di capire l’Italia, le
ragioni del nostro declino e anche i pochi motivi di speranza,
l’indicazione pur generica di qualche strada possibile, di qualche
accidentato sentiero per uscirne. Il suo è anzitutto un libro di
analisi e constatazione e non indulge ai toni lamentosi o altisonanti
dei più, e cioè alla retorica. Se si vuole uscire dalla melma in
cui ci siamo ridotti e abituati a vivere, bisogna capire come e
perché ci siamo finiti. Con parole certamente diverse da quelle di
Donolo, ricavo dalla sua analisi: la grande miseria intellettuale e
morale dei ceti dirigenti (anche di sinistra) e il risultato della
loro incapacità o delle loro truffe: “illegalità e corruzione,
criminalità organizzata, inefficienza delle istituzioni, crisi
fiscale, bassa produttività, disoccupazione”; il populismo che
trionfa e che ha la sua base in una piccola borghesia amorale e
aggressiva, familista e lobbista, stupida e frastornata, che è
divenuta la forza maggiore e decisiva nel paese, sostanzialmente
amorale essa cerca di mantenere i suoi standard anche in una
situazione di sviluppo bloccato e si lascia incantare e manipolare
dalla sua parte più ricca e più cinica; un sistema elettorale
decisamente antidemocratico; l’incertezza e lo sconcerto dei più
giovani di fronte a modelli piuttosto ignobili (e che, comunque,
anche quando sembrano migliori, non hanno la vista lunga e le gambe
solide, la mente aperta e il cuore al posto giusto, e non sembrano
tenere in alcun conto valori come la sincerità e l’interesse
pubblico).
La nostra classe
dirigente, insiste Donolo, è “socio-culturalmente omogeneizzata
per stile di vita e ambizioni, abituata a un tenore di vita
stravagantemente più elevato di quello della popolazione
lavoratrice, auto-referenziale nel lessico, nei gesti, nelle
condotte, e occupata in maniera preponderante dalle questioni
interne. Poca capacità di rispondere alle esigenze sociali e poco
senso di responsabilità, poca cultura europea, poca fantasia” e
una “costante dipendenza da cattive abitudini”. E a sinistra? “Un
riformismo che si potrebbe dire mai nato, fragile, poco convinto,
attratto dal moderatismo, poco incline a dire la verità”. Il
risultato è una società senza conoscenza e senza morale,
un’identità già fragile ma mai così tanto, per non parlare
della perdita di senso della politica che è diventata casta e
mestiere, mai vocazione alta alla responsabilità verso la “res
publica”. Eppure le potenzialità ci sarebbero, ma anche Donolo è
costretto a constatare senza mezzi termini sia la presenza di una
gran quantità di “buoni” che la loro debolezza e l’incapacità
di collegarsi e farsi politica.
Queste forze ci sono “in
ogni settore e in ogni territorio: ma sono frammentarie, divise,
spesso isolate, e non hanno ancora elaborato un lessico comune, per
quanto sotto molti aspetti ne esistano ormai tutte le precondizioni.
Molti dei migliori italiani tacciono: per la sorpresa dell’essere
andati così avanti nel degrado, per lo choc di constatare la
fragilità degli anticorpi, per la sofferenza della solitudine e
della mancanza di prospettive”. La nota finale è decisamente
malinconica e, per quel che mi riguarda, condivisibile: “Quelli
della mia generazione che, come si dice, hanno fatto il ’68,
chiudono un ciclo di vita tra rassegnazione, indignazione e
frustrazione, con il rimorso di lasciare ai giovani una società
intimamente corrosa e un patrimonio di beni comuni pericolante”.
“l’Unità” 27 marzo
2011
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