Recupero un ampio
stralcio di un articolo vecchio di due anni, ma sempre attuale – a
me pare – nonostante il diffondersi e il crescere della xenofobia.
Concretamente mostra che esiste la possibilità, con l'immaginazione
e l'iniziativa politica, di governare in una sua parte significativa
l'immigrazione e di renderla - più che un problema (o un dramma) -
una risorsa. (S.L.L.)
Dani non aveva mai visto
la neve. Una vita di spostamenti l’ha catapultato dall’Africa
equatoriale alle cime imbiancate del Trentino. In fuga dalla povertà
e dalle guerre, ha trovato tra i boschi di abeti e pini la sua nuova
heimat, una seconda piccola patria. Dani, protagonista del film La
prima neve di Andrea Segre, è un personaggio inventato ma
decisamente reale. Gli immigrati stanno riscrivendo la demografia
delle montagne italiane, abbandonate in massa dagli autoctoni, e si
stanno rivelando come il più efficace vaccino contro la
desertificazione e la scomparsa di intere comunità.
***
Uno straniero su cinque
in Italia vive e lavora nelle zone montane. Circa 890 mila persone
(sul totale di poco più di 5 milioni che abitano nel Paese) hanno
scelto di stabilirsi nelle aree interne, che rappresentano il 60% del
territorio nazionale e circa 4 mila Comuni. Secondo i dati elaborati
dalla Fondazione montagne Italia, gli stranieri nelle aree montane
rappresentano il 6,23% della popolazione, una quota inferiore alla
media nazionale, pari all’8,25%.
La distribuzione è molto
disomogenea. A livello quantitativo la Lombardia è la regione con
più stranieri nei Comuni montani, circa 103 mila persone, ma se si
considera l’incidenza sui residenti i picchi si registrano in
Umbria (10,45%), Marche (10,12%), Emilia-Romagna (9,94%) e Trentino
(9,11%). Tra le province spicca Grosseto, nei cui Comuni montani c’è
una media di immigrati del 13,33%.
Lo squilibrio è dato
dalla bassissima penetrazione degli stranieri nelle montagne del Sud:
l’incidenza in Sardegna, Basilicata e Puglia si attesta a meno del
3% della popolazione. Il Meridione che soffre di uno spopolamento
cronico – oltre 450 mila giovani se ne sono andati negli ultimi 10
anni – ha anche un tasso di immigrazione molto inferiore al resto
d’Italia.
I dati nazionali dicono
che, tra il 1951 e il 2001, sono 2.283 i Comuni italiani che hanno
perso “potenziale insediativo”, ovvero la capacità di attrarre
nuovi abitanti. Di questi, 1.678 sono montani. Se la tenuta
complessiva della popolazione nelle aree interne sta reggendo è solo
grazie agli immigrati. Mentre il tasso di natalità complessivo in
montagna non raggiunge l’8 per mille, tra gli stranieri supera il
14. Ma nonostante il boom, questi numeri sono destinati a mutare
ancora.
Enrico Borghi, deputato
Pd e presidente nazionale dell’Uncem (Unione dei Comuni e degli
Enti montani), è convinto che se si incentivasse l’integrazione
con azioni concrete, gli immigrati potrebbero rivelarsi una
straordinaria risorsa per questi territori in costante spopolamento.
Il ragionamento di base è semplice: se la percentuale di stranieri
in montagna crescesse in linea con la media nazionale, ci sarebbero
circa 280 mila persone in più da impiegare nella cura dei luoghi,
nell’ospitalità e nei lavori agricoli.
«L’assorbimento di
stranieri nei territori montani è inferiore del 2% rispetto alle
aree metropolitane», spiega Borghi a “pagina99£. «I dati dicono
che siamo ben lontani dall’idea di invasione. Ci sono ottimi esempi
di integrazione: gli immigrati stanno rimpiazzando la manodopera
autoctona che non svolge più determinati mestieri. Si sono integrati
nelle filiere agroalimentari, come i sikh nell’Appennino emiliano
che si occupano della produzione di parmigiano reggiano. Sono
fondamentali nelle manutenzioni ambientali e l’afflusso demografico
ha permesso di mantenere o ripristinare servizi alla comunità, per
esempio le scuole tenute aperte grazie all’arrivo dei figli di
immigrati».
***
Borghi è in prima linea
nell’intergruppo parlamentare per lo Sviluppo della montagna, che
si è dato l’obiettivo di individuare politiche specifiche e
incentivi per facilitare la presenza dei migranti nei territori
montani.
Una prima mappatura
parziale della situazione è stata presentata alcuni mesi fa in una
conferenza a Montecitorio. I casi positivi di integrazione vanno
dalle Alpi agli Appennini. A Ceres, tra le valli piemontesi di Lanzo,
sono nate una squadra di calcio e un coro composti da richiedenti
asilo provenienti dall’Africa occidentale che cantano in dialetto
piemontese. A Maresca, sui monti del pistoiese, i profughi sono
impiegati in progetti sportivi, mentre a Malegno, in quella Val
Camonica ribattezzata “la valle accogliente”, si dedicano ai
lavori socialmente utili. Qui, nonostante alcuni episodi di razzismo,
sono stati avviati diversi progetti che hanno visto i richiedenti
asilo trasformarsi da presunto problema a risorsa. «In fondo, la
storia stessa dei montanari è fatta di migrazioni, di scambi, di
integrazione», spiega Marco Bussone di Uncem.
Altri esempi arrivano
dall’associazione Dislivelli, che riunisce ricercatori e
giornalisti specializzati nel settore della montagna. Nella loro
analisi il fenomeno migratorio in corso viene definito dei “montanari
per forza”, per riprendere una definizione di Enrico Camanni. Solo
attraverso politiche mirate d’inserimento comunitario, la necessità
lavorativa si trasformerà in passione. Facendoli diventare
“montanari per scelta”. Come i boscaioli serbi nell’appennino
piacentino o i cinesi nelle Alpi. Nelle vallate toscane ci sono
insediamenti di albanesi che da ormai più di dieci anni hanno
trovato lì casa e lavoro. Nelle foreste del Casentino, territorio di
Arezzo, si sono invece radicati in modo particolare i romeni
provenienti dal distretto di Bacau. La loro terra d’origine è una
zona rurale che ha incredibili similitudini con quella in cui si sono
stabiliti in Italia. Tanti di loro sono impiegati nel settore
forestale e le loro competenze in materia, che derivano proprio dalla
somiglianza naturalistica tra i due luoghi, sono molto apprezzate. I
loro figli rappresentano circa il 20% degli alunni nelle scuole
locali.
«La sfida
dell’integrazione la vinciamo se i migranti possono contribuire
allo sviluppo del Paese», spiega Borghi. «Se tutti gli stranieri
rimanessero in città si verrebbero a creare delle banlieue,
mentre i territori abbandonati rischierebbero anche conseguenze
idrogeologiche».
Questo scenario si sta
concretizzando rapidamente. Se nel 1961 il 90% del territorio verde
era in mano ad aziende agricole, oggi siamo scesi al 57%. La perdita
è addirittura drammatica in zone come la Liguria, dove il 75% del
territorio è stato abbandonato. Non va molto meglio in Lombardia, le
cui montagne hanno visto aumentare gli stranieri residenti dai 40
mila del 2002 agli oltre 100 mila di oggi. La maggior parte vive tra
le Prealpi bresciane e la zona dei laghi bergamaschi.
Lo spopolamento e il
ricambio generazionale sono impietosi, soprattutto in ambiti
lavorativi come la pastorizia. Nel nord Italia il 70% dei pastori è
straniero, proprio perché gli autoctoni hanno lasciato il settore.
Sarà per questo che alcune settimane fa la Regione (attraverso
l’Ersaf, l’azienda pubblica che si occupa dei servizi per
l’agricoltura) ha annunciato un bando per offrire la gestione di 32
malghe. Un’opportunità di lavoro destinata soprattutto agli under
30 affinché si trasferiscano nei vari alpeggi sparsi tra Sondrio e
l’area bergamasca. [...]
Pagina 99, 26 marzo 2016
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