27.3.18

«Soffiando la polvere». Sull’attualità di Franco Fortini (Francesco Diaco)

Quando mi sono avvicinato a Fortini per la prima volta partivo – come accade quasi sempre – da un bagaglio di pregiudizi, da un’immagine scolastica dell’autore, da un ritratto che, per esigenze didattiche, non poteva che essere monolitico e semplificato. Fortini mi appariva, dunque, come un amante della mediazione e del gelo, della vecchiaia e del Superego, della norma metrica e della lingua borghese. In seguito, approfondendo la conoscenza del corpus fortiniano, mi sono reso conto che nelle sue scritture è sempre possibile riscontrare almeno due proposte, due poli opposti eppure dialetticamente intrecciati. In altre parole, l’immagine che avevo scorto prima della lettura diretta era sostanzialmente corretta ma trascurava l’esistenza di alcune necessarie e feconde coppie antinomiche: Fortini è insieme poeta della vecchiaia e della giovinezza, della mediazione e dell’immediatezza, della pazienza e dell’impazienza.
Ma Fortini non è solo un poeta, anzi è un esponente di una generazione di intellettuali completi, capaci di essere insieme romanzieri, lirici, giornalisti, polemisti, traduttori, insegnanti, copywriter, sceneggiatori, recensori, ideologi. Ecco allora il primo punto di forza e ricchezza di opere come Asia Maggiore, I Cani del Sinai, L’ospite ingrato, Un giorno o l’altro: si tratta di scritture ibride, il cui genere è incerto e sfuggente. Il più classicista tra gli autori del secondo Novecento conduce, sotterraneamente, un’ardita sperimentazione e propone delle spiazzanti contaminazioni. I suoi testi sono un incrocio tra memorialistica, diario, autobiografia, critica letteraria, trattato storiografico, pamphlet, reportage. La cifra unificante è quella del saggismo come saggezza distinta tanto dall’arbitrio idiosincratico quanto dalla certezza positivistica. La sua proposta, forse, conserva una sua validità; il suo modello può essere ripreso e continuato.
Di conseguenza, una prima ineliminabile duplicità – che è fortiniana solo perché è di ciascuno di noi – è quella tra io e mondo. Da una parte, Fortini rivendica le istanze di emancipazione soggettiva, reclama il valore della felicità qui-e-ora, non dimentica la sfera dei sentimenti, dell’amicizia, dell’amore, ma anche della morte, della follia, della malattia. Dall’altra, la sua analisi ha sempre la spietata lucidità di chi ricerca la posizione oggettiva occupata dal singolo in un campo di forze che lo trascende e lo determina. Una tensione simile innerva il rapporto tra morale e politica. Da una parte, abbiamo il dovere assoluto di dire la verità e di perseguire il proprio fine utopico, di affrontare la scelta frontale della tragedia e di non scendere mai a comodi compromessi. Dall’altra, c’è la necessità di valutare i risultati delle proprie azioni, c’è l’orizzontalità degli organismi collettivi, c’è l’incarnazione nelle istituzioni e nei partiti.
Anche il metodo con cui l’intellettuale fiorentino guarda all’alterità rispecchia una duplicità di atteggiamenti. Infatti, Fortini compie due operazioni antitetiche e complementari: da un lato storicizza, legge la lettera, precisa il contenuto di fatto; dall’altra attualizza, costruisce l’allegoria, compie lo scatto ermeneutico indispensabile alla scoperta del contenuto di verità. Per esempio, il suo guardare alla Cina al fine di cambiare l’Italia e di criticare lo stalinismo non lo esimeva dal compito di comprenderne a fondo la cultura e le trasformazioni. Un paese allegorico non perde la propria realtà drammatica: per comprenderlo è necessario incontrare persone, visitare luoghi, leggere documenti, studiare economia, diritto, agronomia. Lo stesso accade con i testi letterari del passato: dalla parafrasi e dalla minuziosa ricostruzione delle varianti manzoniane della Pentecoste esce – potente e inaspettata – l’immagine rivoluzionaria del «bellico coltivator d’Haiti».
Come in Benjamin, perciò, il passato non è un archivio sicuro, un possesso tranquillo e garantito per l’eternità: Fortini ha visto le biblioteche bruciare e crollare. Inoltre, il patrimonio culturale è quello dei vincitori, l’arte è splendore e orrore allo stesso tempo. Di conseguenza, la storia deve essere passata a contropelo e deve essere scritta nel momento di massimo pericolo, nell’urgenza di quell’istante in cui si scardina il continuum socialdemocratico del tempo, la successione meccanica delle ere verso il progresso. Sono fondamentali, allora, le tecniche dello straniamento, della citazione e, soprattutto, del montaggio.
Prima di tutto, il montaggio è un procedimento stilistico, dato dai bianchi tipografici, dai silenzi, dagli stacchi, dal non-detto: cioè da quella scrittura “difficile” che richiede al lettore uno sforzo e un impegno costanti. Fortini non parla a tutti; il suo è un pubblico parziale, selezionato non da un privilegio di casta ma da una comunanza di intenti. Il montaggio, però, risiede soprattutto nelle macrostrutture e nella prospettiva mondiale adottata: esso coincide con la capacità di spezzare quanto è falsamente unito dall’ideologia dominante e di collegare quanto è falsamente separato. Siamo di fronte a un’operazione che è insieme razionale – perché in grado di svelare le leggi, le costanti economico-politiche dei fenomeni – ed emotiva – perché mirante a un coinvolgimento passionale del fruitore. Per Fortini, il Congo, l’Angola, Cuba, il Vietnam, Reggio Emilia, l’Algeria non erano che episodi di un’unica guerra, manifestazioni di un conflitto di fondo che è l’ultimo per visibilità in quanto primo per importanza: quello di classe. Se la sua attenzione si rivolge all’Asia, all’Africa e all’America latina è perché ogni ipotesi socialista attuale deve porsi in una dimensione globale, deve saldare la precarizzazione e la proletarizzazione di ogni attività – anche quelle intellettuali e del terziario – allo sfruttamento brutale e occultato dei veri dannati della terra. Lo sguardo è rivolto al futuro, non a un terzomondismo romantico e regressivo.
Negli anni Settanta, contro l’“oblio indotto” promosso dal sistema, contro la fluidità indistinta del Surrealismo di massa, contro la perdita dei nessi spazio-temporali diffusa da televisione, pubblicità e stupefacenti, Fortini conduce una vigorosa campagna per la memoria. La sua memoria, però, è sempre orientata verso una meta, è sempre partigiana e selettiva. Quando Troia è in fiamme, Enea deve decidere cosa salvare. La selezione avviene sulla base di una scala di valori e di un’assiologia gerarchica. Nulla di più distante dal supermarket postmoderno in cui ogni elemento del passato è una merce, un prodotto appiattito su uno scaffale privo di profondità diacronica, ugualmente disponibile all’io-consumatore della società dello spettacolo. Per Fortini, chi sceglie una tradizione sceglie una discendenza: la vertiginosa sequenza dei predecessori, i millenni alle nostre spalle, si ribaltano nella pulsione verso un avvenire messianico, nella speranza di nipoti capaci di superare, e inverare, i propri nonni. «Proteggete le nostre verità» non è, ovviamente, un invito alla conservazione, ma è una preghiera di cambiamento completo, di trasformazione radicale dello stato di cose presente. Tuttavia, la difficoltà dei trapassi e delle eredità, della comunicazione intergenerazionale, delle traduzioni e degli aggiornamenti, è enorme. Fortini lo sapeva. Se la distinzione brutale e brechtiana tra chi sta in alto e chi sta in basso è sempre valida, se i classici del marxismo continuano a descrivere l’oggi, è però necessario capire volta per volta cosa bisogna riformulare, che nuove analisi bisogna svolgere, che dati raccogliere, che sintesi elaborare. Se il tempo lungo della modernità, probabilmente, non è finito, la creazione di un mercato unico, il problema ecologico, il neocapitalismo finanziario, la deriva neoliberista delle sinistre ci pongono degli interrogativi e invocano un faticoso processo di verifica dei poteri e delle teorie.

Gli ospiti (da Questo muro)
I presupposti da cui moviamo non sono arbitrari.
La sola cosa che importa è
il movimento reale che abolisce
lo stato di cose presente.

Tutto è divenuto gravemente oscuro.
Nulla che prima non sia perduto ci serve.
La verità cade fuori della coscienza.
Non sapremo se avremo avuto ragione.
Ma guarda come già stendono le loro stuoie
attraverso la tua stanza.

Come distribuiscono le loro masserizie,
come spartiscono il loro bene, come
fra poco mangeranno la nostra verità!
Di noi spiriti curiosi in ascolto
prima del sonno parleranno.

Volendo tirare le fila, cosa può insegnarci Fortini oggi? Il nucleo della sua lezione sta nella delicata dialettica tra tattica e strategia, nell’articolazione tra tempi brevi e tempi lunghi. Al versante apocalittico, agonistico, profetico, egli seppe affiancare un impegno concreto e diuturno, un servizio umile e paradossalmente riformista.
Come ha recentemente sostenuto Daniele Balicco – nel primo incontro del ciclo Memorie per dopodomani – la lettura di Fortini ha, poi, una funzione di ecologia politica, di pulizia della mente. In altre parole, le sue pagine consentono di affrancarsi dai luoghi comuni, dalla persuasione occulta, dall’indottrinamento subdolo divulgati dai mass media. Le sue semplificazioni provocatorie distruggono il mito di una incomprensibile complessità del mondo; la sua ricerca di una ideologia unitaria si oppone allo specialismo come frantumazione elitaria del sapere. Tutto ciò non implica, però, un mero riduzionismo della sovrastruttura alla struttura – per usare termini desueti; né un elogio dell’improvvisazione e dell’ignoranza. La sua parzialità non è settarismo. In opposizione all’“informazione inutile” della televisione – che equipara gli eccidi e le guerre alle eruzioni e ai terremoti –, Fortini interpreta il presente come un processo, sottraendo la storia a una mistificatoria naturalizzazione. Le caratteristiche ambientali, certo, spiegano gli individui; le scienze sociali sono dunque fondamentali per comprendere appieno il potere delle circostanze. Eppure, il loro carattere descrittivo non deve divenire segretamente apologetico. Il donde deve sempre connettersi al dove, a una prospettiva di lukácsiana memoria: a Fortini e Sartre non interessa cosa è stato fatto all’uomo, ma cosa egli sa fare di ciò che ha subito. Contro ogni determinismo biologico e ogni storicismo volgare, Fortini rivendica sempre un margine di libero arbitrio e di responsabilità individuali.
Fortini ci rammenta che ogni liberazione affrettata del soggetto priva di una trasformazione della società si risolve in narcisismo edonistico. Parimenti, egli sostiene che la contemplazione elegiaca di un’utopia perfetta rischia di sfociare in un nobile ma innocuo tragicismo o in un quietismo attendista. Pertanto, occorre rifiutare sia il rinvio perpetuo a un domani inverificabile sia la promessa di una soluzione facile e immediata.

La gioia avvenire (da Foglio di via)
Ma prima di giungervi
Prima la miseria profonda come la lebbra
E le maledizioni imbrogliate e la vera morte
Tu che credi dimenticare vanitoso
O mascherato di rivoluzione
La scuola della gioia è piena di pianto e sangue
Ma anche di eternità
E dalle bocche sparite dei santi
Come le siepi del marzo brillano le verità.

In conclusione, se le parole d’ordine e lo strumentario retorico di Fortini possono suonare, a qualche orecchio odierno, lontani e datati come l’eloquenza del Risorgimento, tuttavia il conflitto, le diseguaglianze, gli sfruttamenti esistono ancora e anzi continuano a inasprirsi. E se siamo tutti succubi delle manipolazioni mediatiche, tuttavia bisogna distinguere ostinatamente tra produttori e vittime, tra venditori e consumatori di un universo simbolico demoralizzante e depoliticizzato. Fortini ci insegna che dal presente c’è sempre una via d’uscita, che qualunque situazione può essere mutata, che il futuro – nonostante l’impressione sempre più forte di impotenza e frustrazione – rimane affidato nelle nostre mani. «Il combattimento per il comunismo è il comunismo. È la possibilità (scelta e rischio, in nome di valori non dimostrabili) che il maggior numero possibile di esseri umani viva in una contraddizione diversa da quella odierna». Ai propri amici piacentini, egli ricordava che il socialismo non è inevitabile. A noi ripete che, nonostante tutto, non è impossibile.

La gronda (da Una volta per sempre)
Scopro dalla finestra lo spigolo d’una gronda,
in una casa invecchiata, ch’è di legno corroso
e piegato da strati di tegoli. Rondini vi sostano
qualche volta. Qua e là, sul tetto, sui giunti
e lungo i tubi, gore di catrame, calcine
di misere riparazioni. Ma vento e neve,
se stancano il piombo delle docce, la trave marcita
non la spezzano ancora.

Penso con qualche gioia
che un giorno, e non importa
se non ci sarò io, basterà che una rondine
si posi un attimo lì perché tutto nel vuoto precipiti
irreparabilmente, quella volando via.

Il lavoro culturale, 6/12/2014

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