Rivoluzioni
Un
batterio artificiale dotato di un genoma minimo manipolabile a
piacimento. Creato lo scorso anno dal guru della genetica Craig
Venter, l’organismo permetterà presto di produrre quasi dal nulla
farmaci, biocarburanti, nuovi materiali, tessuti
Craig Venter |
Entia non sunt
multiplicanda praeter necessitatem. Seguendo l’imperativo
categorico del “rasoio” che nel 1324 portò il frate francescano
Guglielmo da Occam alla condanna per eresia, lo scorso anno gli
scienziati dell’Istituto di ricerca genomica californiano J. Craig
Venter hanno annunciato la sintesi di Syn 3.0, un organismo che vanta
il genoma più piccolo e meno ridondante noto sulla terra. Tale
genoma è stato interamente assemblato ex-novo: a partire cioè da
531.560 nucleotidi (i mattoni del Dna) uniti singolarmente uno in
fila all’altro in un unico cromosoma circolare batterico di 473
geni. Pubblicato su “Science” è stato definito “minimo”, in
quanto composto dal minor numero di geni noto per consentire la
replicazione dell’organismo. Rappresenta dunque una nuova specie,
interamente artificiale dal punto di vista genetico. L’impresa ha
richiesto 15 anni di lavoro, il culmine di oltre sette secoli di
agenda scientifica riduzionista. Lungi dal poter dire di aver creato
la vita, che richiederebbe di assemblare ex abrupto tutti i
componenti (Dna, proteine, lipidi) in grado di far funzionare la
“macchina”, è il più grande risultato in biologia sintetica
della storia. E intenzionalmente il più piccolo. «Anche se non
pensiamo sia il genoma minimo definitivo, è sicuramente il nuovo
campione mondiale di peso piuma», ha detto Craig Venter. Sulla base
di questi risultati a marzo scorso un gruppo di scienziati guidati da
Joel Bader dell’università John Hopkins a Baltimora è riuscito a
produrre non un semplice batterio bensì 6 dei 16 cromosomi di un
vero eucariota – il dominio a cui appartengono piante e animali –
unicellulare: il lievito di birra. Oltre alle implicazioni
filosofiche, quelle immediate per il progresso tecnologico sono
enormi.
Una nuova era per
gli Ogm
Dagli anni ’90 è
possibile incanalare e dunque in linea di principio sfruttare la
corrente elettrica prodotta dal metabolismo dei batteri. È anche
noto che molte piante, insetti e batteri sono in grado di produrre
naturalmente piccole quantità di alcani e alcheni, i principali
costituenti dei combustibili fossili. Già nel 2010 la biotech LS9 di
San Francisco è riuscita a ingegnerizzare il batterio intestinale E.
coli per secernere carburante diesel puro, sfruttando due geni
presi in prestito da un’altra specie batterica. La scorsa estate la
Synthethic Genomycs, fondata da Vender, mediante l’editing genetico
è riuscita a bioingegnerizzare una micro-alga per produrre grandi
quantità di lipidi facilmente trasformabili in biodiesel. E ai primi
di ottobre anche l’Istituto di ricerca guidato da Venter ha
ricevuto dal Dipartimento dell’Energia Usa un finanziamento di 10,7
milioni di dollari per portare avanti un analogo progetto per fornire
biocarburanti e prodotti sintetici.
La possibilità di
produrre nuove forme di vita batteriche quasi dal nulla pone una
nuova pietra miliare sulla strada degli organismi geneticamente
modificati. Un organismo minimo riduce le risorse energetiche
richieste per il suo funzionamento e i relativi prodotti di scarto.
Consente inoltre un disegno preciso delle caratteristiche
dell’organismo stesso, che possono essere orientate verso qualsiasi
funzione interessi. La produzione di farmaci (dall’insulina agli
antibiotici), di prodotti chimici e carburanti, la rimozione di
tossine dall’ambiente, la neosintesi di cellule immunitarie in
grado di attaccare selettivamente cellule cancerose, nuovi
biomateriali e tessuti. Il limite è solo quello della nostra
immaginazione.
Certo, l’altra faccia
della medaglia è che non si può escludere un uso improprio di
queste tecnologie, con danni più o meno intenzionali all’ambiente
e/o alle persone. La conoscenza dell’esatta sequenza genomica di
organismi patogeni e la capacità di assemblarli in laboratorio dà
la possibilità di costruire armi biologiche. Nel 1975, subito dopo
che – sotto il nome di Dna ricombinante – divennero disponibili
le prime tecniche di ingegneria genetica, molti scienziati si
riunirono ad Asilomar in California e proposero una moratoria
internazionale per paura che un uso sconsiderato della nuova
tecnologia si dimostrasse deleterio. Tuttavia i timori si rivelarono
infondati. O, perlomeno, le precauzioni adottate furono sufficienti,
non vi fu alcun uso nocivo e anzi fu il primo, fondamentale passo
verso Syn 3.0.
Fai la cosa più
semplice che funzioni
Per decenni questo adagio
è stato appannaggio di informatici e ingegneri. Di converso,
l’evoluzione della vita sulla terra non ha mai seguito un percorso
lineare e così facendo ha prodotto risultati largamente subottimali
e ridondanti in termini di contenuto e organizzazione del genoma. Non
solo molto del Dna non ha apparentemente alcuna funzione, ma anche la
maggior parte dei geni non codifica per funzioni essenziali
all’organismo, è presente in copie plurime, e addirittura geni
diversi possono svolgere una funzione molto simile. Questa ridondanza
protegge il genoma dagli accidenti dell’evoluzione, le mutazioni,
che in un individuo possono inattivare una copia di un gene
importante ma possono difficilmente agire su tutte, specie se
sparpagliate in punti diversi del genoma. La sola dimensione del
genoma, quindi, non predice la complessità di un organismo, come
dimostra il fiore giapponese Paris japonica, con un genoma di oltre
50 volte più grande di quello umano e 282.000 volte più grande
rispetto a Syn 3.0.
Un genoma plug and
play
Quello di Venter è anche
il primo genoma costruito seguendo principi di design e progettazione
tipicamente umani. Normalmente i geni che concorrono a una specifica
funzione nel ciclo vitale di un organismo si trovano sparpagliati in
modo relativamente casuale nel genoma in virtù dei continui
riarrangiamenti che interessano la sua evoluzione. Ciò è possibile
in quanto solitamente non è necessario che geni che concorrono alla
stessa funzione (ad esempio quelli che formano una via metabolica che
porta alla produzione di un particolare zucchero) siano anche
fisicamente contigui. Nel genoma di Venter, invece, i geni sono tutti
strettamente ordinati secondo gruppi-funzione. Ad esempio, tutti i
geni che servono alla riparazione del Dna si trovano in prossimità
nella stessa regione: tale organizzazione modulare consente rimozioni
e inserimenti rapidi e puntuali di interi elementi funzionali, come
si trattasse di un genoma plug and play.
Che cos’è la
vita?
Sul finire della II
guerra mondiale, con queste poche parole il fisico teorico Erwin
Schrödinger inaugurava un dibattito durato decenni ma che oggi
potrebbe avviarsi a una conclusione, almeno se è vero anche
l’inverso di quanto un altro fisico del calibro di Richard Feynman
soleva sostenere: «Ciò che non so creare, non sono in grado di
capire». Nel 1984, per rispondere alla domanda di Schrödinger, uno
dei massimi studiosi delle origini della vita, Harold Morowitz,
propose di partire dal piccolo genoma del batterio Mycoplasma
genitalium, una specie parassita che ha ridotto notevolmente la
lunghezza del suo genoma perdendo tutti i geni necessari alla vita
libera. Seguendo il suggerimento di Morowitz, già nel 1995 Venter
decise di determinare l’esatta sequenza dei suoi 525 geni. Da quel
momento e per i quattro anni successivi tentò di comprendere quanti
di tali geni fossero essenziali per la vita, accendendoli e
spegnendoli uno alla volta e concludendo che almeno 375 dovevano
essere indispensabili. Raggiungere un tale risultato all’epoca fu
sensazionale. Solo oggi si sono rese disponibili forbici molecolari
in grado di tagliare e inattivare geni specifici, mentre la
tecnologia di sintesi del Dna allora muoveva solo i primi passi. Il
team di Venter dovette ricorrere all’ingegnoso sistema dei
retrotrasposoni, la scoperta dei quali valse il premio Nobel alla
scienziata Barbara McClintock nel 1983. I retrotrasposoni sono
elementi genetici in grado di viaggiare attraverso il genoma e
inserirsi casualmente all’interno dei geni, inattivadoli. Attendere
l’inattivazione casuale di tutti i 525 geni richiese molto tempo e
altrettanto lavoro. Il primo genoma sintetico non fu batterico ma
bensì virale: quello dell’epatite C, assemblato nel 2000. Simili
nel comportamento a M.genitalium, i virus richiedono le
cellule dell’ospite e in particolare la sua macchina replicativa
per riprodursi. Possono pertanto permettersi di essere estremamente
semplici, arrivando ad avere anche soli quattro geni (è il caso del
virus dei batteri MS2). Solo nel 2008 arrivò, sempre a opera di
Venter e colleghi, la sintesi di M. genitalium seguita a stretto giro
nel 2010 dalla sintesi di M. capricolum, una specie simile ma dal
genoma ancora più grande.
Fiat lux et lux fit
Venter e il suo team si
sentivano a un passo dalla meta ma erano troppo ottimisti: la sintesi
di Syn 3.0 avrebbe richiesto ancora anni. Lo confessa oggi lo stesso
Venter quando dice che per produrre Syn 3.0 il suo team aveva provato
a seguire due approcci diversi. Il primo fu di tipo bottom-up,
partendo cioè dalla nostra conoscenza su quali siano i geni
essenziali alla vita per assemblarli in un unico genoma. È come
assemblare un’auto avendo a disposizione le istruzioni di
montaggio, ma senza includere alcun accessorio. Due team indipendenti
fallirono nel tentativo. «È chiaro che la nostra attuale conoscenza
della biologia non è sufficiente per disegnare a tavolino un
organismo vivente», concluse Venter, «tutti gli studi degli ultimi
20 anni hanno sottostimato il numero di geni essenziali alla vita».
L’alternativa rimasta sul tavolo era l’approccio top-down usato
già anni prima per la comprensione dei geni essenziali di M.
genitalium: significava partire dalla sequenza di un genoma batterico
e rimuovere per tentativi i geni, uno alla volta, al fine di ridurre
le dimensioni del genoma ai minimi storici. Adesso era possibile
perché la tecnologia di sintesi del Dna aveva fatto considerevoli
passi in avanti. Tanto che, invece che minimizzare il genoma già
piccolo di M. genitalium, il team di Venter decise di partire dai 901
geni di M. mycoides, una specie a crescita più rapida dov’era
quindi possibile effettuare esperimenti molto velocemente. Sulla base
delle informazioni ottenute, nel 2016 il team di Venter è stato
infine in grado di costruire 8 grandi segmenti di Dna, che combinati
insieme hanno dato alla luce Syn 3.0. «Un risultato storico», ha
dichiarato Venter, «ma tuttora non conosciamo il significato di un
terzo di ciò che è essenziale alla vita». Infatti, dei 473 geni
presenti ben 149 hanno funzione ignota. Ma, nonostante queste
incognite, sappiamo che 438 codificano per proteine e solo 35
codificano per Rna. Sappiamo anche che il 41% dei geni è
responsabile dell’espressione genica, il 18% per elementi
strutturali e funzionali della membrana batterica, il 17% per il
metabolismo e il 7% per la sintesi e la riparazione del genoma
stesso.
La ricerca della
verità
Nel 1939 in un documento
provocatoriamente intitolato L’utilità della conoscenza inutile
Abraham Flexner, fondatore dell’Istituto di Studi Avanzati di
Princeton (il più famoso centro di ricerca teorica del mondo),
rimarcava l’importanza della ricerca di base per il progresso
materiale. Come furono essenziali le ricerche in fisica teorica del
Cern di Ginevra per la nascita di Internet, così un risultato
scientifico quale la produzione del genoma minimo ha prodotto en
passant un avanzamento enorme di tutte le tecnologie legate alla
manipolazione del Dna. Ma l’importanza di questo risultato va ben
oltre il progresso tecnologico momentaneo. Negli ultimi 50 anni sono
state oltre 2.000 le pubblicazioni che hanno suggerito come il
possesso di una cellula minima avrebbe consentito di fare passi
avanti da gigante nella comprensione dei principi della biologia.
Attraverso gli sforzi di costruire nuove forme di vita i biologi sono
in grado di capire cosa funziona e cosa no, ponendosi la domanda
“perché?”. Mentre la razza umana sta devastando l’ambiente,
così facendo qualcuno di noi ha deciso di dare un contributo
opposto, aprendo nuovi, imprevedibili sentieri lungo la via
dell’evoluzione.
Pagina 99, 20 ottobre 2017
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