Una lettura provocatoria,
discutibile, ma di sicuro stimolante, della colonna sonora del
“movimento” americano e del Sessantotto europeo. Da leggere.
(S.L.L.)
Gli MC5 |
«Non c’è bisogno del
meteorologo, per sapere da che parte tira il vento» (Bob Dylan
n.d.r.), cantava una ventina di anni fa un poeta-guerriero non ancora
ad domesticato. A prevedere le metamorfosi del tempo, c’era allora
la musica. Perché negli anni Sessanta la musica ha saputo esprimere
forse per l'ultima volta — quella funzione di presagio, di
premonizione dei mutamenti, che è la sua stessa ragione di vita.
Mentre Marshall McLuhan annuncia l’avvento di un'epoca di cultura
globale, la musica si propone per istinto genetico come la prima
lingua davvero planetria. A scandire il ritmo dei movimenti di
ribellione, è in ogni parte del mondo la stessa colonna sonora. Che
anzi ai movimenti non fa soltanto da sfondo, ma da scintilla: perché
è innanzitutto intorno alla musica che avvampano quella calda
temperatura e quello spirito di ribellione che alimenteranno poi
l’immaginario politico e culturale dei movimenti
Ma attenzione: questa
musica non è una sola, ma la momentanea e irripetibile congiunzione
di costellazioni culturali, emotive e sonore tutt’altro che
omologhe. La linea di massa (con i Beatles in testa) enfatizza
euforici ammodernamenti del costume e del gusto, o tutt’al più (da
Elvis Presley ai Rolling Stones) infrange sfrontatamente le
superstizioni del più provinciale senso comune. Ci sono poi
arrabbiati cantori nella tradizione della beat generation (Bob
Dylan), bande radicali di una poetica dell’estremismo più
incondizionato (dagli MC5 ai Fugs), ma anche pacifisti di quel rock
più moderato che celebrerà a Woodstock la sua ultima illusione.
Surfers di solare energia (Beach Boys) convivono con profeti del
vizio e dell’eccesso (Velvet Underground) e con esploratori di
vibrazioni spaziali (Pink Floyd). La stessa, irresistibile
sensibilità vitale della black music si divide fra gioiose
spensieratezze (Supremes, Temptations), passioni e tormenti
dell’anima (Otis Redding), vampate incendiarie di un jazz
libertario (John Coltrane, Albert Ayler). Fino all’avventurosa
imprudenza di un rock politico e psichedelico, verso l'allargamento
della percezione e delle coscienze (dai Jefferson Airplane, fino allo
stesso Jimi Hendrix).
Finché la temperatura
ideale tiene alto il calore dell’epoca, tutto questo concentra in
sé una sintesi energetica che è vera e propria rivoluzione
culturale. Fra radicalismo musicale e movimenti di liberazione la
sintonia è ormai elettiva, e quando Ginsberg, Leary e Rubin chiamano
a raccolta tutte le tribù della cultura alternativa, sono Jefferson
Airplane e Grateful Dead a dar corpo al suono di questo assalto al
cielo. Ma appena la temperatura si affievolisce, ecco che la musica
continua sì ad agire come presagio, solo che stavolta è il presagio
di un declino. Nessun tradimento, ma piuttosto un respiro corto del
linguaggio che viene impietosamente a galla quando l’alta marea
dell’immaginario collettivo si ritira. Gran parte di queste musiche
cominciano a sopravvivere a se stesse ripetendo formule sempre più
prevedibili, e a chi vuol vivere all’altezza del mito la scena
musicale di fine anni Sessanta sembra non offrire che la crudele
chance della morte (quella fisica per Hendrix, Coltrane,
Redding, Jim Morrison, Brian Jones, e quella artistica per chi
sceglie di scomparire piuttosto che dar spettacolo della propria
paralisi inventiva). Si apre un’epoca di grande freddo, con le
tribù musicali impegnate a conservare la propria identità
autorizzata. Le avanguardie imboccano testardamente il vicolo cieco
di una rivoluzione puramente grammaticale. Il rock, come tutti i
linguaggi trasgressivi, è costretto dalla sua stessa natura a
ripetere per sopravvivere: ripetere, spostato di volta in volta il
limite da trasgredire, la formula sempre più rituale della
trasgressione, fino a disinnescarla a luogo comune. Dal «vogliamo il
mondo e lo vogliamo adesso» dei Doors si arriva agli Stones
addomesticati di «è solo rock&roll ma mi piace». Per dire che
troppo spesso le dichiarazioni trasgressive non sono che
l’estemporaneo aggettivo di una qualità poetica troppo fragile per
aprire orizzonti davvero autonomi, al di là dell’orbita del reale.
Se alziamo lo sguardo
oltre il terreno della storia, appare chiaro che i soli progetti
musicali degli anni Sessanta che non si esauriscono in quella breve
stagione sono quelli che sperimentano più profondi mutamenti del
linguaggio e che azzardano poetiche più globali. Miles Davis
innanzitutto, che all’immaginario della metamorfosi regala intorno
al '68 la folgorante visione di una sintesi analogica dove la
metropoli si fonde con la giungla, la lingua nera con l’elettronica,
il piacere ritmico con la raffinatezza estetica. E gli stessi
Jefferson Airplane, che prima di scivolare nelle sabbie mobili
dell’abitudine catturano la luminosa intuizione di un rock
trasfigurato e surrealistico, proiettato verso più grandi orizzonti
mentali ed emotivi. È il reale come punto di riferimento che viene
lasciato alle spalle, con una premonizione che arriva al cuore non
soltanto della musica, ma dello stesso movimento di liberazione. Non
è più questione di avanguardie e di trasgressioni, ma di mettere a
fuoco nuove forme di linguaggio e di vita. Come tutta l’arte
davvero grande, anche la grande musica degli anni Sessanta mette in
scena il vertiginoso passaggio dal mondo come unità di misura alla
progettazione di sensibilità per altri, infiniti mondi possibili.
In Nanni Balestrini, Primo Moroni, L'orda d'oro 1968-1977, SugarCo, 1988
In Nanni Balestrini, Primo Moroni, L'orda d'oro 1968-1977, SugarCo, 1988
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