Per provare se un vecchio
registratore funziona ancora, inserisco a caso una cassetta. Ne esce
la mia voce di dieci anni fa, da una intervista che un amico ebbe a
farmi, lunghissima e mai trascritta. L’intervistatore mi domanda, a
un certo punto, se accetto la caricatura di me stesso come accigliato
moralista che tutti rimprovera intorno a sé. Gli rispondo che, sì,
l’accetto e che un altro comune amico non sapeva quanto piacere mi
avesse fatto chiamandomi, non so dove, «mastigòforo» ossia
menatore di frusta, come si era detto del critico alessandrino
Aristarco. Perché quell’appellativo fa parte integrante del titolo
dell'Aiace di Sofocle («Aiax Mastigòforos»): nella
tragedia, lo sventurato concorrente di Odisseo scambia, tale è la
sua demenza, gli eroi compagni per un branco di pecore e s’arma di
frusta a correggerli. Mi lusingo di essere caduto spesso nell’errore
opposto e simmetrico: di aver trattato da eroi quelli che erano poco
più di un gregge.
Da L'ospite ingrato.
Primo e secondo, Marietti, 1985
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