29.3.18

Giugno 44, la liberazione di Roma. “Stars and stripes” a Ponte Sisto (Nello Ajello)


Roma, domenica 4 giugno 1944
"Se ne sò annati". Soggetto sottinteso: i tedeschi. Questa frase fu il viatico per la cauta avanzata della Quinta Armata americana nelle strade della Capitale. La frase, gridata da una folla che affluiva dai vicoli di Trastevere verso ponte Garibaldi, colpì le orecchie del ventiquattrenne Alberto Sordi, che abitava in via dei Pettinari, a ridosso di ponte Sisto. "Mi precipitai per la strada insieme all'attore Virgilio Riento che viveva nel mio palazzo. Assistemmo a qualcosa di umoristico. Sul lungotevere lunghe file di soldati americani strisciavano ventre a terra, con gli elmetti ingombri di fronde. Per mimetizzarsi. Come se fossero in trincea. Avevano avuto l'ordine di non esporsi, e lo eseguivano imperterriti, portandosi dietro quei cespugli. Avanzavano lenti, centimetro dopo centimetro. Ma almeno erano a Roma. Finalmente".
Una salva di applausi richiamò in strada il pittore Toti Scialoja - classe 1914, trent'anni all'epoca - dalla sua casa di via di porta Pinciana. A piazza Barberini vide passare i primi enormi camion americani. "I soldati", ricorda, "ci parvero stupendi. E insoliti. Grassottelli, sereni. Facevano lo stesso percorso, dal sud di Roma verso il nord, compiuto poche ore prima dai tedeschi. Ma quale differenza! I vinti in ritirata erano affardellati e carichi di armi. I nuovi arrivati portavano tra ascella e spalla un fuciletto leggero, quasi da luna-park. Non avevano zaino. Le loro scarpe di gomma non facevano rumore. Più che a militari, somigliavano a giocatori di base-ball. Lasciavano nell'aria un profumo di tabacco dolce. Abbracci, baci, carezze parvero a tutti naturali; e così il lancio dai camion e dalle jeeps di cioccolata e sigarette. Una distribuzione di benessere".
Da ponte Garibaldi Alberto Sordi raggiunge intanto piazza Venezia, e lì gira mentalmente la scena clou della sua carriera: un Americano a Roma. "La piazza era in festa. Vi trionfavano i miti e i sogni che ci avevano visti crescere. L'America! L'Americaaaa! Vedemmo su quella piazza il generale Clark. Ci aggiravamo fra centinaia di John Wayne e Gary Cooper. Recitavano un copione scritto dalla nostra fantasia. Non era un dramma, era un musical. Il Buono vinceva. Il Cattivo era stato castigato. Ci trovavamo in piena Broadway. O sulla Quinta Strada. Hollywood non aveva usato il cinema per reclamizzare il paese di Bengodi? Adesso eccolo qui. Credevamo alla socializzazione immediata con i Liberatori. E, nei primi giorni, essi ci diedero ragione. Abbracciavano qualche segnorina, ma che male c'era? Poi cominciarono a comportarsi meno educatamente. Prepotenze, scazzottate...".
Quella sera, nella storica piazza, Pietro Nenni non c'è. Il suo diario, alla data del 4 giugno, è dominato da una sorta di sfinimento. "Non si aspettavano gli americani che fra quarantott'ore", scrive il capo socialista. "Sono giunti stasera. Mi dicono che alle nove i loro primi carri armati sono arrivati in piazza Venezia. Ma sono troppo stanco per seguire l'impulso che sarebbe di andare a vedere". Il giornalista Vittorio Gorresio si trovava, la sera di domenica 4, all'Hotel Ludovisi, nella camera della bellissima Elsa De Giorgi. Giocava a scopone con l'attrice e con altri due giornalisti assai noti, Paolo Monelli e Adolfo Franci. "L'improvviso chiasso della strada arrivò fino a noi attraverso la finestra", riferisce Gorresio nelle sue memorie. "Elsa gridò: 'Ci siamo!' ...". Uscirono. "All'angolo di via Quattro Fontane, davanti al carro primo arrivato stava un soldato magro e altissimo, le braccia ciondoloni, le mascelle occupate a masticare chewing gum... Elsa aveva in pugno una bandierina tricolore e la porse al soldato. Serio, lui la prese e volgendosi verso i compagni seduti in cima al carro li avvertì: 'Here is a flag', ecco una bandiera. Uno stese la mano, afferrò la bandiera e la ficcò sulla torretta come decorazione".
I dialoghi fra liberati e liberatori erano fatti di poche parole. Ogni romano scavava nella memoria qualche brandello d'inglese. Un vecchietto (annota un cronista americano) continuava a urlare: "Weekend! Weekend!". Il giornaletto per la truppa, Stars and Stripes, venne ribattezzato "strip e strap". Si sperimentava un esperanto d' occupazione, fonte di qualche equivoco. "Una signora di mezza età, molto seria e distinta - è ancora Gorresio a raccontare, e gli americani sono lì da tre giorni - fu fermata su un lungotevere da un soldato americano di pelle nera che gli domandò: ' Tu, puttana?' . La signora si mise ad urlare credendo si trattasse di un'ingiuria, mentre altro non era che una richiesta di informazioni". Il più delle volte, informarsi era superfluo. "Via del Tritone era un bordello", ricorda Scialoja. "Nugoli di ragazzette inerpicate sulle scarpe ortopediche presidiavano i marciapiedi". Napoli aveva già fatto scuola esibendo un'antica sapienza postribolare. Ma Roma aveva aspettato otto mesi di più. E recuperava il ritardo. "Le ragazze", nota Leonetta Cecchi Pieraccini in un diario inedito mostratomi da sua figlia Suso, "hanno letteralmente perso la testa". Una fioritura femminile "s'è infiltrata fra le truppe d'occupazione e senza discernimento o pudore s'insedia sulle macchine e vola via, con le chiome al vento, ebbra di felicità. L'automobile, le sigarette, i dolci, l'amore. L'America! Soprattutto l'America". Una sindrome Alberto Sordi in edizione muliebre? La verità è che Roma "è stata invasa dal più gran circo del mondo... In via del Babuino è transitato un carro con alcuni soldati americani mascherati con costumi presi a Cinecittà. C'era l' antico romano, la dama del Settecento, il lord in tuba, la divetta".
L'esaltazione è reciproca. "Poche cose piacciono agli Alleati come la Roma di Mussolini", ha scritto Steno, un arguto uomo di spettacolo, nel recente e postumo Sotto le stelle del '44 (Sellerio editore). "Vengo a sapere che il cappellaio di Mussolini ha venduto a degli americani di Filadelfia, per mille lire, il fez dell'ex duce. Gli americani si stanno accaparrando, come souvenir della campagna d'Italia, tutto il materiale plastico del caduto regime". Apprezzano queste cianfrusaglie "per quel gusto del clownismo e della maschera che è alla base della vita pubblica statunitense. A pensarci bene, infatti, il fascismo è stata un'americanata presa sul serio".
Un'americanata? La sera di lunedì 5 giugno, verso le sette e trenta, piazza Venezia diventa un happening. Centinaia di persone si radunano sotto lo storico balcone. Osservano un uomo con la mandibola prominente che saluta a braccio teso, poi posa le mani sui fianchi e grida: "Vincere! Vincere! Vincere!". "La folla urlò e applaudì", racconta l'americano Dan Kurzman nel suo Obiettivo Roma, "e l'oratore continuò in un misto d'italiano e d'inglese: 'Non dico vincere per Mussolini, per i fascisti o per i tedeschi, ma per gli Alleati! Invece dell'olio di ricino, noi vi portiamo dolci e viveri!'. Un altro ruggito di approvazione percorse la piazza. Di nuovo il sergente americano John A. Vita s'impettì e salutò a braccio teso. Stava sciogliendo un voto fatto alla madre (italiana di nascita). 'Sarò uno dei primi soldati americani a entrare a Roma', le aveva detto. 'E quando ci sarò entrato, mi metterò sul balcone di Mussolini e gli rifarò il verso'. Sua madre era scoppiata a ridere".
Villa Borghese è irriconoscibile. I militari la gremiscono senza vietarla ai ai civili. Tutt'altro. Le coppie romane che ne frequentano le aiuole, annota la Cecchi Pieraccini, "non hanno più scrupoli e pudori. Gli italiani vogliono essere più americani degli americani e nei prati, mescolati ai bambini, alle bambinaie e alle donne che cuciono, uomini e ragazze stanno distesi avvinghiati, scambiandosi baci come se fossero a letto". La borsa nera esulta, con l'aiuto determinante degli Alleati. Le camionette, unico mezzo di trasporto urbano, sono luoghi di ritrovo: i passeggeri, osserva Steno, "si fanno cortesie, si aiutano a scendere le scalette di fortuna. Ieri, negli autobus, quegli stessi si sopportavano appena". La Liberazione ha reso tutti buoni? Gli Alleati hanno requisito il Teatro dell'Opera. "Vi davano spettacoli riservati a loro", ricorda Suso Cecchi D'Amico. "Gli altri teatri, le Arti, il Quirino, il Valle, funzionavano per tutti. C'era un ovvio interesse per la cultura americana. Scrittori celebri vennero a trovare mio padre, Emilio Cecchi. Ricordo, fra i primi, William Saroyan. Era piccolo, simpatico, d'aspetto mediterraneo. Io tradussi in quelle settimane La Quinta colonna di Hemingway, poi La via del tabacco di Caldwell. Ad autorizzare le traduzioni era il PWB (Psychological Warfare Branché, che aveva l'ufficio in via Veneto. Lo dirigeva un Captain Levi, che aveva fama di onnipotenza. Scoprimmo ben presto che si trattava di un nostro amico di gioventù, Pilade Levi, un ebreo simpatico, spiritoso e mondano che era scomparso dall'Italia cinque o sei anni prima per le leggi razziali. Cautamente, aveva tardato a farsi vivo con noi".
Ma ormai gli americani si avviavano a diventare di casa. Fin troppo. Si cominciò a non applaudire più ogni jeep che passava, come se (l'espressione è in Oggi è caduta Roma di Robert H. Adleman e George Walton) "ciascuna trasportasse Mark Clark in persona". La follia dell'occupazione si tinse di normalità. O quasi. Roma, dopo tutto, ne aveva viste tante.

“la Repubblica”, 3 giugno 1994

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