Penso che Jacques Derrida
(1930-2004) non sia stato solo un grande filosofo, ma in un certo
senso l'ultimo dei filosofi, in un'epoca, la nostra, distante come
poche da questa pratica, questo modo di stare nel mondo.
Si ama Derrida (o lo si
detesta) anche per questo, per come ha preso sul serio, molto sul
serio la filosofia. Non c'è dubbio quindi che chi condivida anche
solo un po’ questa serietà, questo uso del tempo - una serietà e
un uso del tempo che abbracciano il destino di tutte le pratiche
dell'intelligenza non sottomesse a scopi e profitti a breve termine -
abbia sentito come una solitudine il suo sparire dalla scena dei
viventi.
L'importanza di Derrida
non è solo nell'avere creato un linguaggio e un «sistema» di
pensiero così nuovi e spiazzanti che l'americano Hilary Putnam
esclamò che «discutere con lui era come fare a pugni con la
nebbia», e un altro, Richard Rorty, quando non sapeva che pesci
prendere, poneva Derrida nell'ambito della letteratura, come una
specie di Joyce da imbalsamare in un limbo e proteggersi così dal
coinvolgimento perturbante del suo pensiero.
Sì, nella sua opera c'è
una «eccedenza» della filosofia, come ebbe a dire lo stesso Derrida
a proposito di uno dei suoi maestri, Emmanuel Levinas; eppure tutta
la sua opera è dedicata, e quindi legata (nel senso dell'eredità e
del legame), alla rilettura della tradizione filosofica. In questo
legame, in quella dedica, c'è onestà, rigore, coerenza, sobrietà,
e anche un'intrinseca, dissimulata umiltà, che la si sappia o no
vedere dietro il lussureggiante, magistrale, a volte frastornante
virtuosismo dei suoi testi e lezioni.
Infine, lui che ha
ingaggiato - in nome della scrittura e della traccia, e quindi
dell'assenza - un definitivo conflitto contro il mito della presenza,
cuore della metafisica, ha saputo impegnarsi fino in fondo in una
riflessione sul presente, come mostrava l'ultima sua intervista a “Le
Monde”. Dove parlava della propria morte imminente, ma anche di
politica, dell'Europa, di diritti, della pace, di disarmo.
Del resto, negli ultimi
vent'anni Derrida volse il suo pensiero all'esame di atti e oggetti
«sociali»: il dono, il perdono, il segreto, la promessa, la
religione, l'ospitalità, ecc. aprendo la filosofia alla necessità
dell'etica.
Ora, l'annunciata e già
avviata pubblicazione presso Galilée dei corsi e seminari di Jacques
Derrida, che si protrarrà per una quarantina d'anni, non è solo un
evento editoriale iperbolico e controcorrente, ma un evento
filosofico. Prolunga senza di lui (in assenza del mittente e
destinatore) la pratica di una gigantesca riflessione che il filosofo
nato ad Algeri ha dedicato ai temi della sopravvivenza, della
filiazione e trasmissione, dell'eredità, del debito, dell'assenza, e
soprattutto della scrittura come pratica della disseminazione - la
cui essenza testamentaria è ribadita in tutta la sua opera come
contestazione del mito della voce e dello «spirito» (della
presenza, come dicevamo).
Se l'evento editoriale ha
dunque un'analogia con la forma e gli esiti del suo pensiero, esso è
anche l'occasione di ripercorrerne la struttura sinuosa, quasi
labirintica, soprattutto nei suoi atti di parola.
Derrida, di cui posso
testimoniare una sostanziale equivalenza tra lo stile orale e quello
scritto, era celebre per smontare ogni volta il tema o l'occasione di
ogni sua conferenza o intervento pubblico, per ricomporli poi
richiamando e incorporando nel discorso il «qui e ora» della
circostanza in cui prendevano forma. I suoi corsi e seminari
presentano lo stesso metodo: cucire, tessere in un pensiero vivo e in
movimento, di cui si mostrano trama e tessuto, la rilettura dei testi
della filosofia occidentale (è questa la sua famosa «decostruzione»,
quasi una psicanalisi della tradizione filosofica) e insieme la loro
«attualità».
Decostruzione, parola
nota e abusata, significa in fondo la pratica della filosofia stessa:
esaminare qualsiasi oggetto disincrostandolo dalle abitudini di senso
accumulatesi fino alla nostra cecità e assuefazione, ma al tempo
stesso rendere conto di quelle attribuzioni di senso che
costituiscono la storia della filosofia, il suo corpus testuale
interattivo. La pratica dell'interpretazione portata all'estremo dei
margini, allude forse a una sorta di «semiosi illimitata» (per
dirla col Peirce caro al nostro Umberto Eco). O, detto con una
celebre formula di Derrida, la cui radicalità non è stata ancora
veramente accolta e prolungata dai suoi pretesi discepoli, il n'y
a pas de hors texte («non c'è un fuori (del) testo»).
I suoi corsi e seminari
in boulevard Raspail (sede dell'École des Hautes Etudes, celebre
grande École parigina, dove Derrida insegnava le «Istituzioni della
Filosofia») erano più che affollati: nel grande anfiteatro erano
molti quelli che occupavano i posti a sedere in anticipo. Spesso
anche cameraman e operatori di qualche televisione d'Europa o del
mondo venivano a riprendere l'evento del mercoledì. Le tre ore di
seminario non erano come un sottofondo di musica su cui ritagliare
pensieri propri. L'argomentazione serrata, paziente e spesso
imprevedibile di Derrida era godibile come un «teatro della teoria»
(due parole che non a caso hanno la stessa origine), ma con un
suspense del pensiero non minore di quello del trapezista che danza
su una corda tesa. Esiste infatti un brivido della filosofia, quando
essa viene praticata col coraggio della sua radicalità). Poteva
capitare che il boato di una risata scaturisse da un'osservazione
«teorica».
Nel mensile seminario
«ristretto» (quasi altrettanto affollato) si svolgevano anche
relazioni di «studenti» (spesso a loro volta docenti altrove). A
qualcuno che ripetè più volte l'aggettivo «fallico» nell'analisi
di un racconto di Henry James (The figure in the Carpet, molto
caro al filosofo), Derrida sbottò contro l'inflazione del termine
chiedendo a voce alta: «Ma dove comincia il fallico?». Questione
non banale, coerente con un insegnamento che invita a ripensare i
margini e i dualismi del pensiero e delle istituzioni.
Tuttolibri La Stampa, 7
marzo 2009
Nessun commento:
Posta un commento