Nel 2011, in Bahrein, un
gruppo di attivisti per i diritti umani lanciò un forum online, come
ve ne sono molti, ma il tema era, almeno per i Paesi arabi, inusuale.
Ahwaa, che in arabo significa “desideri”, era infatti rivolto
alle persone non eterosessuali, gay, lesbiche, bisessuali,
transessuali, queer, intersex (Lgbtqi).
Lo scopo del sito,
secondo le parole di una delle fondatrici, Esra’a al-Shafei, era
semplicemente agire come «rete di sostegno» e «risorsa» a
disposizione di chi voleva saperne di più sulle differenze sessuali
nell’Africa settentrionale e in Medio Oriente.
Sei anni dopo le
primavere arabe sembrano, a noi osservatori occidentali,
irrimediabilmente sepolte sotto le macerie dell’avanzata dei
fondamentalismi e di nuove autocrazie. Eppure Ahwaa resiste e anzi
prospera, chiunque può collegarsi a una rete che conta migliaia di
partecipanti e discussioni attive tra cui «Se potessi, sceglieresti
di essere eterosessuale?», «Lesbiche egiziane, dove siete?», o
ancora «Vi sentite colpevoli per come siete?».
Segni di battaglia
Ahwaa è solo un esempio
di una nuova visibilità che vanno acquisendo le persone Lgbtqi in
Medio Oriente grazie alla rete. Come dobbiamo interpretare fenomeni
del genere?
Secondo Daveed
Gartenstein-Ross e Nathaniel Barr «non è del tutto chiaro come
l’emergere delle comunità emarginate (come quella Lgbtqi o quella
dei critici nei confronti della religione), che è stato permesso da
Internet, ridefinirà le società a maggioranza musulmana» e,
tuttavia «indipendentemente dal loro esito finale, possiamo già
individuare i segnali delle battaglie culturale in arrivo nell’Islam.
Gli osservatori occidentali per molto tempo hanno trascurato o
interpretato in modo sbagliato le tendenze sociali che hanno
attraversato i Paesi a maggioranza musulmana. Questa è una tendenza
che non possono permettersi di non cogliere». Insomma, forse c’è
una primavera gay araba pronta a sbocciare. E noi non la stiamo
vedendo.
Daveed Gartenstein-Ross e
Nathaniel Barr non sono attivisti, ma analisti esperti di geopolitica
e del mondo arabo in particolare, la loro ricerca è stata pubblicata
a marzo dall’autorevole Foreign Affairs e in Italia riproposta dal
sito “Il Grande Colibrì”. Se n’è discusso molto poco, perché
l’idea che vi sia un mondo musulmano Lgbtqi in fermento e che
potenzialmente potrebbe contribuire a cambiare la rotta di questi
Paesi è un concetto che non si incasella bene negli schemi mentali
con cui leggiamo oggi quello che sta succedendo in Medio Oriente e
nell’Africa settentrionale.
Eppure, ricordano i due
autori, esistono decine di ricerche che raccontano come la rete sia
un acceleratore formidabile per lo sviluppo delle identità delle
minoranze, specie se “nascoste” come sono quelle Lgbtqi in
particolare. I due autori si spingono a citare, come termine di
paragone, la corsa degli Usa verso i matrimoni egualitari, ricordando
come solo nel 2008 il candidato alla presidenza Barack Obama
dichiarava di non essere «una persona che promuove il matrimonio tra
persone dello stesso sesso».
Tutto è cambiato
velocemente e una spiegazione è l’enorme spinta venuta dal web che
permette alle persone non eterosessuali di conoscersi, vivere a pieno
la propria identità, formare comunità e attivarsi politicamente a
una velocità fino a ieri impensabile.
«Secondo Internet
World Stats, nel 2010 i tassi di penetrazione di internet erano
solo del 10,9% in Africa sub-sahariana e del 29,8% in Medio Oriente.
Al contrario in Nord America il tasso era del 77,4%. Ma nel 2016 la
penetrazione di internet era cresciuta al 28% in Africa sub-sahariana
e al 57% in Medio Oriente. Alcuni Paesi musulmani sono stati
all’avanguardia nel boom globale dell’accesso a internet: il
tasso dell’Arabia Saudita è più che raddoppiato tra il 2007 e il
2016, mentre il tasso della Tunisia nello stesso periodo è salito
dal 13% fino a sfiorare il 50%».
Il ruolo del porno
Tra i maggiori
osservatori italiani del fenomeno Lgbtqi in Paesi diversi da quelli
occidentali c’è Pier Cesare Notaro, tra gli animatori de “Il
Grande Colibrì” e volontario sia nel campo dell’immigrazione che
in quello dei diritti Lgbtqi. «Dal 2011 a oggi l’accelerazione è
stata evidente, soprattutto in Paesi come l’Algeria, o il Marocco.
C’è una discussione pubblica sulla depenalizzazione
dell’omosessualità impensabile fino a qualche anno fa e, insieme a
questo, c’è ovviamente una reazione con ondate di nuovi arresti o
fenomeni di intimidazione. Ma si tratta, appunto, di una reazione.
C’entrano i forum come Ahwaa, certo, così come le app per gli
incontri, anche la diffusione sotterranea della pornografia che
permette a persone cresciute in ambienti fortemente conservatori di
venire a conoscenza di una sessualità sconosciuta». Molto dipende
poi dalle singole realtà nazionali. In Paesi come il Libano è stata
la magistratura stessa a proporre la depenalizzazione. In altri
Paesi, come l’Egitto, è forte la reazione contro un movimento
omosessuale che, durante le primavere arabe, aveva giocato un ruolo
essenziale. Altrove i movimenti sono meno evidenti. Wajahat Abbas
Kazmi, un regista pakistano e attivista per i diritti umani che vive
in Italia da quando aveva 15 anni, ma che è tornato nel suo Paese
d’origine tra il 2010 e il 2014, sostiene che se in Pakistan
qualcosa si sta muovendo per i diritti delle persone trasgender, «gli
omosessuali invece continuano a vivere nascosti, il coming out non
è un’opzione praticabile. Le poche associazioni attive si muovono
sotto falso nome, ad esempio come associazioni di protezione
sanitaria rivolte solo a uomini».
Omosessuale, Abbas Kazmi
ha fatto il suo coming out in famiglia solo recentemente. Dopo
questa decisione, i suoi si sono nuovamente trasferiti in Pakistan
«per proteggere gli altri figli dagli influssi occidentali che, loro
ne sono convinti, mi hanno fatto diventare gay».
Ludovic Mohamed Zahed,
invece, è un imam franco-algerino omosessuale che a Parigi guida una
comunità aperta alle minoranze sessuali: «La liberazione delle
minoranze sessuali nelle cosiddette società arabe sta forse
impiegando più tempo di quanto immaginato a imporsi e tuttavia sta
succedendo. Anche se le religioni non sono il problema maggiore,
dobbiamo sforzarci di costruire una rappresentazione più inclusiva
dell’Islam».
Per lui non esiste una
intrinseca avversione dell’Islam nei confronti dell’omosessualità
– «per secoli è stato più semplice essere quello che oggi si
definisce “trasgender” o “gay” in Medio Oriente che in
Europa» – quanto piuttosto di analogia nella persecuzione delle
minoranze tra i fascismi di ieri e i regimi islamisti di oggi: «Ma
certo il terrorismo è una sfida che dobbiamo combattere, anche sul
piano teologico».
Fortemente contrastati in
patria, in difficoltà a vivere la propria identità in realtà
familiari ostili (caratteristica a lungo sperimentata anche dai loro
“cugini” in Europa e negli Usa), gli omosessuali musulmani o che
vivono in Paesi a maggioranza musulmana sono una sfida non solo a
sistemi di potere fortemente conservatori e sessisti, due cose che
spesso vanno assieme, ma anche a un Occidente che fatica a concepire
l’Islam come una realtà plurale, soprattutto sui temi del genere e
della sessualità.
Pagina 99, 8 aprile 2017
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