13.4.18

Voltaire in Romagna (Gianni Rodari)

Ho trovato lo scritto che segue, del grande Gianni Rodari, in un numero de “l'Unità” di 68 anni fa. Non è, di per sé, una gran cosa, ma mi pare estremamente significativo di che cosa sia stato il Partito Comunista nella storia delle classi subalterne in Italia e di come i comunisti in Emilia e Romagna, al di là delle rappresentazioni caricaturali di Guareschi, lavorassero per la loro emancipazione prima di tutto culturale. I libri fanno liberi. (S.L.L.)

Libri vecchi e nuovi nelle case dei braccianti emiliani
Mi è capitato spesso, entrando nelle case dei braccianti emiliani o dei mezzadri romagnoli, di vedere allineati in bell'ordine su una mensola i libri del “Canguro”, ossia della Universale Economica che ha cominciato lo scorso anno le sue fortunate pubblicazioni. In bell’ordine, voglio dire in ordine di pubblicazione e di numero, dall'uno al venti, al trenta, il volume decimo dopo il nono.
Uno psicanalista spiegherebbe il successo dell’Universale Economica con quei numeri stampati bene in vista sul dorso e sul frontespizio, con il loro segreto richiamo all'ordine, alla completezza: chi possiede un sol numero, o numeri staccati e dispersi, non può aver pace se non completa la serie; chi compra il numero 29 ò costretto a comprare anche il 30, così come un accordo dissonante è costretto a risolversi in un nuovo accordo. Solo la serie appaga, i numeri-serie riposano: la decima, la dozzina, il centinaio, ecc. Potenza misteriosa del numero. Ricordo a questo proposito un’arguta sentenza del senatore Sereni:“Ne uccide più la psicanalisi che la spada”.
Ma io volevo parlare delle case dei contadini romagnoli. Una volta l'italiano che viaggiava in Olanda o in Boemia, stupiva di incontrare contadini letterati, di scoprire nelle loro modeste case librerie e biblioteche, con tutti i classici in fila.
In questo dopoguerra, per merito del Partito Comunista, milioni di libri sono entrati nelle case degli operai, dei braccianti, dei contadini italiani: opere di Marx, di Lenin, di Stalin e di Gramsci, ed hanno creato il terreno propizio al successo di una iniziativa di cultura popolare come quella del “Canguro”. Si spiegano così quelle mensole e quei libri in fila senza ricorrere alla psicanalisi e all’Olanda.
Scusate anche questa digressione. Il mio compito, infatti, è di dar notizia di una strana conversazione che si è svolta una di queste notti in casa di un bracciante romagnolo, beninteso a sua insaputa, nelle ore notturne, mentre il buio ed il sonno fasciavano la casa, sprofondata nella notte tome un sottomarino negli abissi subacquei. Da quella profondità, un poco sopra la madia del pane, una voce chiese, forse a se stessa: “Wohin bin ich denn ange-kommen? “ (Dove diavolo sono Capitato?).
“Monsieur Feuerbach — rispose un’altra voce in tono di affettuosa sorpresa — vous etes cn Romagne. C’est dróle, quoi? Les paysans commencent à s’intéresser à votre philosophie” (Voi siete in Romagna. Strano, no? I contadini cominciano a interessarsi della vostra filosofìa).
“Herr Voltaire?”.
“Oui, c’est moi”.
“Ditemi allora di grazia — proseguì il filosofo tedesco — chi è che mi si stringe addosso alla mia sinistra, e puzza di fagioli e di aglio da mozzarmi il respiro?”.
“È Bertoldo — rispose cortesemente Voltaire — un saggio buffone. Abita nel volume numero sette, voi nel nove, e io nell’otto, herr Feuerbach!».
“L’immortalità è una cosa scomoda, a volte. Vi può capitare di trovarvi nello stesso scaffale accanto al vostro peggiore nemico. Ma non conosco questo Bertoldo”.
“Apprezzate tuttavia — riprese Voltaire — il lato interessante di questa nostra residenza. Per conto mio, grazie al cielo, ecco un lettore che mi piace. Egli mi rispetta, capite? Non è un Faust saccentone, disgustato del mondo e della filosofia: è un uomo che comincia adesso ad aprire gli occhi, a scoprirsi un’intelligenza e un posto in casa per una libreria, accanto alla zappa e alla vanga. Quando la sera, toltosi il fango dalle scarpe, egli mi prende in mano per leggermi, sento un brivido irresistibile. Le sue mani callose, collinose, montagnose, mi trattano con tanta umiltà e con tale amore che il mio proverbiale cinismo va a farsi benedire”.
“Sono d’accordo con voi, signor di Voltaire — ammise Feuerbach — spiegare, com’io faccio, l’essenza del Cristianesimo a un bracciante romagnolo, ecco un’esperienza interessante”.
“Senores, senores”, fece a questo punto una vocetta in falsetto.
“Soy Lazarillo de Tormes, senores. No tienen hambre, ustedes?” (Sono Lazzarino di Tormes. Non hanno fame, loro?).
“Ah, ah — ridacchiò Voltaire — in tanti secoli il nostro Lazzarino non si è ancora cavata la fame. È arrivato in Romagna da poco, con il numero 29. Non sa ancora che qui si mancia pane bianco e profumato”.
“Appunto — esclamò Lazzarino — avvertivo un certo profumo”.
“Sfido — fece Bertoldo — la nostra mensola si trova proprio sopra la madia del pane”.
“Si direbbe un’immagine: il pane della mente accanto al pane del corpo. Nella mia Ethica more geometrico demonstrata... “.
“Benvenuto, signor Spinoza”, salutò rispettosamente Feuerbach.
“Buonasera, signori. Dichiaro, riprendendo l'argomento da lor signori trattato, che per parte mia sono felicissimo di trovarmi in una casa, e in una provincia, dove la libertà di pensiero è particolarmente apprezzata”.
“Casa di un comunista, uno scomunicato”, commentò Voltaire.
“Sono stato io pure scomunicato dai miei rabbini”.
Ernesto Renan e Blaise Pascal, quasi ad una voce, citarono il Vangelo. Uno dopo l’altro, gli autori ed i personaggi allineati sulla piccola mensola intervenivano nella discussione, allargandola, infittendo la sua rete. Le voci si incrociavano in dialoghi mistilingui: il russo, l’inglese, l’italiano rispondevano a, tedesco, al francese, allo spagnolo, al latino.
E se Edgar Poe borbottava “I dont understand (io non capisco), ecco Julius Fucik pronto a far da interprete tra lui e Gogol.
“Voi fareste derivare l’uomo da un tronco di ciliegio”, osservava bonariamente il vecchio Darwin a Collodi, Pinocchio, dal canto suo, già stava meditando un tiro da giocare al burbero Javert, il poliziotto di ferro dei Miserabili: è nota l’antipatia del celebre burattino per la forza pubblica.
Il Pugaciov di Puskin si confrontava, sa il cielo con quali risultati, con i siciliani dei Vespri, ì Mille di Giuseppe Cesare Abba e i milanesi della principessa Belgioioso.
Barbusse discorreva quietamente con Stalin e gli mostrava il suo ritratto, che il padron di casa aveva appeso sulla parete, accanto a una Madonna, Bel-Ami e Dupin parlavano di Parigi, teatro comune delle loro gesta, Guerrazzi e Pascal avevano molte cose da dirsi sui gesuiti, mentre Haldane, Laberenne e Ilin discutevano di astronomia e di geologia.
Teorie, argomenti, fatti; letterati, filosofi, scienziati; avventurieri, donne celebri, creature della fantasia o della storia: tutto un mondo insolito si agitava su quella mensola di pochi decimetri, proprio sopra la madia del pane. L’incontro con il bracciante romagnolo era per loro un’esperienza così interessante e nuova che non finivano di discuterne. Anzi, io credo che non abbiano finito affatto quella notte, che ogni notte la conversazione riprenda, e che riprenda di giorno, dì sera, ogni volta che il bracciante toglie un libro dallo scaffale e si rinnova il miracolo dell’incontro tra la cultura e la sua mente giovanile ed entusiasta.
È un miracolo che comincia appena e si compie contemporaneamente in migliaia di case. La notizia di questo miracolo meriterebbe ben altri commenti e considerazioni.

"l'Unità", 1 marzo 1950

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