Dunque, professor
Michaël Foessel, lei non è più europeista?
«Come potrei non
esserlo? Non sono per “quel” tipo di Europa, ma ho lavorato su
Kant e il cosmopolitismo e mi affascina sempre l’idea politica non
legata all’etnia o alla nazione ma transnazionale. Voglio essere
cittadino europeo con identità plurale, mi piace pensare a una forma
di democrazia che vada oltre gli Stati-nazione».
Anche perché, per
biografia, lei, oltre che francese, si sente anche un po’ tedesco.
«Esatto, passo diversi
mesi in Germania. Ho 43 anni, appartengo a quella generazione
cresciuta con frontiere che non sono muri e mi ci sono abituato, mi
trovo bene. Mi spiacerebbe rinunciarvi».
Michaël Foessel è
considerato tra i filosfoi più brillanti della sua generazione. Ma
non fa della sua materia una disciplina astratta. Scrive abitualmente
su temi d’attualità per “Libération”. Per le sue opinioni
viene collocato a sinistra, un “démocrate radicale”
(autodefinizione). Nel 2013 ha ereditato da Alain Finkielkraut la
cattedra di filosofia all’ “École polytecnique”. Collabora con
la rivista “Esprit”. Dirige la collana “L’ordre
philosophique” per l’editore Seuil. Lunedì 16 aprile alle 18,30
sarà a Roma, all’ambasciata di Francia, per l’esordio dei
“Dialoghi del Farnese” con il collega italiano Maurizio Ferraris.
In questa intervista con “L’Espresso” affronta i temi cruciali
del nostro tempo: populismo, democrazia, migrazioni. E libertà,
naturalmente. Tema che nella sua terra si lega strettamente alle
leggi varate dopo i terribili attentati dello Stato islamico.
Partiamo proprio da qui.
Lei, professor Foessel, si professa inquieto per la “banalità securitaria” che è una cifra della contemporaneità. E ha individuato un “legame strutturale tra il neoliberismo e lo Stato securitario”. Ce lo spiega?
«Da quando le persone
sono esposte a rischi sociali sono spinte a chiedere soprattutto
sicurezza in un mondo diventato incerto. È una tendenza in atto da
almeno tre decenni nelle democrazie occidentali. Prevale la
convinzione che la funzione principale, se non esclusiva, delle
istituzioni sia dare sicurezza. Sicurezza alimentare, sicurezza
chimica, sicurezza della salute. Qualunque cosa si traduce in
sicurezza».
Dunque è una postura
che ha origine ben prima degli attacchi islamisti.
«Sì. Certo il
terrorismo ha rimesso al primo posto la sicurezza contro questa
violenza cieca. E la società civile si affida allo Stato per essere
protetta».
Lei fa una differenza
tra “sûreté” e “sécurité”, termini che in italiano
suonano simili.
«Nella tradizione dei
Lumi, nei liberali come Montesquieu, la “sûreté” è la
sicurezza per i cittadini di essere al riparo delle intrusioni dello
Stato nella vita privata. Nella Dichiarazione dei diritti
dell’uomo si sostiene lo stesso concetto. Oggi la “sûreté”
ci è negata a causa della sorveglianza ossessiva cui siamo
sottoposti, al controllo delle telecomunicazioni eccetera. La
“sécurité” riguarda invece il rapporto dei cittadini tra di
loro. Con le leggi antiterrorismo varate in Francia o negli Stati
Uniti si è sacrificata la “sûreté” alla “sécurité”, si è
ampliato il potere dell’amministrazione e dello Stato».
Da questa sua analisi
è lampante la conclusione: siamo meno liberi.
«Molto meno. In Francia
le leggi varate sulla sicurezza pubblica, la riforma del codice
penale e altre, sono andate tutte nella stessa direzione».
Secondo lei, le leggi
speciali sono la sola risposta possibile al terrorismo?
«Non sono un politico.
Ce la presentano come unica soluzione. Però non ha funzionato, non
ha garantito il termine degli attentati. Quelle leggi finiscono per
avere un impatto su tutti i cittadini anche se non sono terroristi. E
colpiscono diverse categorie di persone, i militanti ecologisti, i
militanti radicali».
Tuttavia è la
stragrande maggioranza dei cittadini a esigere più sicurezza.
«È vero e
contemporaneamente è falso. Esiste la domanda, ma non è quella
prioritaria. Vengono prima altri bisogni, il lavoro, la salute. La
sicurezza è l’ideale che resta quando sono caduti gli altri».
In aeroporto, tanto
per fare un esempio, siamo più sollevati se vediamo controlli
accurati.
«Perché è una domanda
legata al rischio che esiste. Ma bisogna chiedersi come mai
l’opinione pubblica accetta e reclama misure che mettono in
discussione i diritti fondamentali, come quello di asilo. La mia
ipotesi è che siamo nella società del rischio e non potendo
chiedere altre protezioni (come contro la disoccupazione) ci
spostiamo verso la domanda securitaria e ci rallegriamo per i
militari nelle strade».
In definitiva lei vede
in crisi i valori sui quali è nata l’Europa.
«Dopo la Seconda guerra
mondiale l’Europa si è fondata su due valori fondamentali come la
pace e il consolidamento dei diritti umani. Il secondo aspetto, ma
anche il primo in verità, è a rischio. La stessa evoluzione recente
delle democrazie non procede nel senso favorevole all’Europa. I
movimenti populisti e autoritari hanno successo perché sfruttano le
promesse non mantenute dell’Europa».
E mettono in pericolo
l’esistenza stessa della democrazia.
«Se la democrazia si
riduce ad elezioni più o meno trasparenti no. Se intendiamo invece
la democrazia come un modo di produrre libertà politica e promozione
dell’uguaglianza delle condizioni, come diceva Tocqueville, allora
sì siamo in pericolo. La deriva antidemocratica è evidente ed è
già largamente presente in Polonia, nell’Ungheria di Orbán che ha
vinto le elezioni domenica scorsa».
Abbiamo un problema
con la democrazia. E anche con gli Stati nazionali. Avrebbero dovuto
cedere quote di sovranità all’Europa e invece il nazionalismo,
soprattutto a Est, pare più forte di prima. «Evidente che sia
così. Le divisioni ormai non si producono più sul paradigma
destra-sinistra. La linea di frattura è tra la “mondializzazione
felice” e la ripresa di nozioni nazionaliste-stataliste. Si torna
allo Stato come sistema di protezione dell’individuo senza che
questo significhi un beneficio per la democrazia. Manca una terza
chance, ora: quella di restare fedeli all’ideale federale europeo
senza abbandonarlo solamente a una concezione
tecnocratico-finanziaria».
E torniamo alla sua
critica sulla gestione della Grecia.
«Che non riguarda,
attenzione, solo Bruxelles. Ma anche l’atteggiamento di alcuni
governi del Continente».
Il banco di prova per
capire se l’Europa avrà un futuro o meno, sostengono in molti, è
come risolverà la crisi dei migranti.
«L’Europa non ha
mantenuto sul tema le promesse di cittadinanza del mondo perché il
diritto d’asilo viene negato e l’egoismo nazionale ha vinto. Per
riconciliarsi con l’intuizione europea bisognerebbe, ad esempio,
che Bruxelles fosse più dura con Orbán».
Nemmeno la Francia sta
dando grande prova di sé. L’incursione a Bardonecchia dei suoi
doganieri per controllare alcuni profughi ha choccato chi, come noi
italiani, è abituato a considerarvi all’avanguardia, la patria dei
diritti dell’uomo.
«La realtà è che
eravamo all’avanguardia dell’estrema destra. Voi avete scoperto
da relativamente pochi anni la Lega Nord. Noi il Front National lo
conosciamo da 40 anni, ha radicalizzato la politica francese, e sui
temi come l’immigrazione abbiamo concesso molto all’opinione
pubblica più vociante. La Francia non ha fatto su se stessa il
lavoro storico compiuto dalla Germania. Continuiamo a prendere misure
discutibili sulle libertà e ci presentiamo come il Paese dei diritti
dell’uomo. Conserviamo la memoria dei momenti felici e ci
dimentichiamo del resto».
Si riferisce a Vichy?
«A Vichy, alla
colonizzazione. In Francia c’è una sorta di deificazione della
République, però continuiamo a far regredire lo Stato di diritto».
Ma
l’episodio di Bardonecchia l’ha colpita o no?
«La Francia ha agito in
modo stravagante. Non ha rispettato le frontiere per proteggere
meglio le proprie. Mah. È un modo di volere la fine dello spirito
europeo che reclamerebbe solidarietà. Quando un Paese come l’Italia
è in difficoltà, subisce un attacco dal populismo tale da mettere
più o meno in pericolo la democrazia, si fa un colpo di mano. Invece
non bisognava abbandonare l’opinione pubblica italiana ai suoi
demoni. È chiaro, per riprendere il concetto, che sui migranti
l’Europa si gioca quel po’ che le resta come credito. Ma le sue
istituzioni, in tutto ciò che riguarda l’economia, sono neutre.
Neutre sulla Catalogna, neutre sull’immigrazione. Quando si tratta
di politica, tutto passa sotto i suoi radar. L’ideale europeo
resiste non a livello di istituzione ma di società civile. In
Francia la gente manifesta la sua solidarietà sulle Alpi, alla
frontiera italiana, molti cittadini ancora si dicono europei».
Il fantasma che si
aggira oggi per il Continente è quello del ritorno degli anni ’30.
Anche lei se ne è occupato.
«Un approccio storico ci
dovrebbe far concludere che le differenze sono molte. Il consenso
verso la democrazia è più forte oggi di allora. Eppure già 20 anni
fa il filosofo Gérard Granel avvertiva che “gli anni ’30 sono
davanti a noi”. Intendeva dire che, se le cause che hanno prodotto
fascismo e nazismo sono passate, le condizioni che le hanno rese
possibili sono sempre attuali. Dunque bisogna essere attenti e
valutare le similitudini. Quello che si dice sull’Islam oggi
comincia pericolosamente ad assomigliare a quanto si diceva di altri
popoli negli anni ’30. Non voglio dire che siamo alla vigilia di un
nuovo fascismo ma nemmeno che è un fenomeno accidentale, terminato.
Il mondo moderno è quello della democrazia, ma anche quello dei
totalitarismi».
La paura della
diversità alimenta una guerra tra gli ultimi (gli immigrati) e i
penultimi (gli europei impoveriti).
«In periodo di crisi è
più facile prendersela con qualcuno che riflettere sulle cause.
Certo l’immigrazione massiccia non ha aiutato. E manca la visione
portata dalla sinistra negli anni ’30, prima di essere battuta, e
che unificava le classi sociali popolari. Oggi sovente sono i
movimenti populisti di destra a essere presenti nelle classi
popolari. E, scusi, ma i 5 stelle sono di destra o di sinistra?».
Non lo abbiamo capito
nemmeno noi in Italia.
«Allora mi consolo. So
che hanno una piattaforma che si chiama Rousseau… Comunque
populisti e contro le élite, mi pare chiaro».
L’impoverimento di
molte classi sociali e persino del ceto medio è l’altro effetto,
oltre a quello della richiesta di sicurezza, del neoliberismo?
«Sì. A partire da
Reagan e dalla Thatcher lo Stato è diventato un agente del mercato e
applica le stesse regole del mercato alla sua funzione pubblica
attraverso i manager. Così mette gli individui in perenne
concorrenza tra di loro, in perenne lotta per la sopravvivenza. Così
creando riflessi di sfiducia e calcolo verso gli altri. La
caratteristica della società è il calcolo permanente. Quanto mi
costa mettere in prigione qualcuno? E se lo lascio libero ciò che
farà fuori mi costa di più? Ecco perché nella società del calcolo
il disoccupato guarda il migrante come un concorrente e non come
qualcuno con cui c’è qualcosa da condividere».
Ha vinto Hobbes.
«Ha vinto l’Hobbes
dello stato di natura, dell’uomo lupo per l’uomo. Ma Hobbes
pensava che bisogna rimediare alla conflittualità, il potere deve
intervenire sul mercato per limitarlo. Mentre oggi si considera che
lo stato di natura è il mercato stesso».
In questo “mercato”
la Catalogna come molte altre regioni ricche vogliono la secessione
dai governi centrali per non mantenere le aree più povere.
«Succede perché è in
crisi il paradigma della redistribuzione, il desiderio di
uguaglianza. I catalani non vogliono aiutare l’Estremadura, i
lombardi quei mafiosi dei siciliani... Eppure io non credo che gli
individui siano così egoisti e ritorti su se stessi».
La sinistra è morta
in questa assoluta assenza di solidarietà?
«È molto malata a
livello istituzionale, come la democrazia, come anche la destra
storica. Per certi versi è comprensibile dopo che è affondato il
modello comunista e se la passa male pure quello socialdemocratico.
Però la sinistra continua a esistere nella società, in modi di
vivere solidali. E alcuni suoi temi sono ripresi da movimenti come i
5 stelle».
Infine. Lei ha scritto
che il gesto di Arnaud Beltrame, il gendarme che a Trebes, nel sud
della Francia, si è sostituito a un ostaggio durante l’attacco
jihadista a un supermercato e che poi ha trovato la morte non può
essere un modello. Sembra riecheggiare il Brecht di “sventurato il
Paese che ha bisogno di eroi”.
«È stato sicuramente un
atto di eroismo, un gesto personale di libertà assoluta. Ma proprio
perché un gesto individuale, non può essere proposto come modello
politico».
L'Espresso, 15 aprile
2018
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