Il malore si è
affacciato all'improvviso, nella tarda mattinata di quel sabato. Il
malessere tipico dell'indigestione, con la difficoltà a respirare e,
a tratti, il cuore in gola. E il presagio di morte che accompagna
solitamente un infarto. Eppure, alle spalle, nessuna crapula, nessuna
patologia ischemica. Un senso di morte ottundente, la smania di
strapparti i vestiti di dosso come fossero preda del fuoco e divenuti
essi stessi pelle. Alle quattro del pomeriggio il battito è
ridiventato regolare, il respiro meno affannoso. E poi, a pensarci
bene, c'era quel maledetto post-it giallo sull'agenda continuamente
rimosso: «Chiamare Carlo alle 21:30», così per almeno due
settimane. Ero amico di Carlo come lo sono stato di Mario per più di
vent'anni. Con Carlo la frequentazione durò di meno ed era stata nel
tempo più rada ma c'era sempre, come con l'altro, un senso di
amicizia e comunanza forti, aliene dalla moda della pacca sulla
spalla o di quel chiacchiericcio indistinto che spesso accompagna gli
amici di circostanza.
E pensare che l'amicizia
con Carlo era cominciata, da parte mia, con un espediente. Anni fa lo
vidi camminare, con la falcata dinoccolata che lo contraddistingueva,
in via XX Settembre. Io, che ero accompagnato da un'americana,
camminavo dalla parte opposta e, a un certo punto, gridando feci:
«Carlo, ciaooo!». Lui si voltò e mi guardò replicando: «Ah,
ciao, come va, tutto bene?» Tutto bene, annuii e seguitammo. Fin qui
niente di speciale. Solo che, quando incrociai Lizzani in via XX
Settembre, in quel pomeriggio assolato di tanti anni fa, io ancora
non lo conoscevo. Lo avevo salutato con gioia e con trasporto perché
'io do del tu a tutti coloro che amo', direbbe Prévert. E mesi dopo,
durante il nostro primo incontro, Carlo sfoderò una memoria
formidabile: «Volevi fare il paravento con la studentessa facendo
vedere che mi conoscevi...». Disse proprio così, 'paravento', Mario
che era uno sanguigno avrebbe detto 'paraculo'. Perché Carlo era un
signore d'altri tempi, pacato, misurato, con un'eleganza rara in un
uomo abituato all'odore di battaglia che serpeggia sempre in un set.
L'anno scorso fu un anno
fecondo. Ci vedevamo spesso per il caffè di rito al baruccio
d'angolo tra via dei Gracchi e via Fabio Massimo, che mi piaceva di
più ed era sicuramente il suo preferito, ma che era sempre così
rumoroso rispetto a quello dirimpetto a casa sua, più dimesso ma
dove si poteva parlare senza il clangore di una musica improbabile e
la presenza di avventori vocianti. Anche perché nel baruccio di cui
sopra i nostri discorsi erano continuamente frammezzati da una sorta
di inchino cui era tenuto Carlo ogniqualvolta entrava qualcuno (ed
erano parecchi) che lo salutava con l'appellativo di rigore:
«Buongiorno, maestro!». Ora, aneddoto a parte, non ricordo più le
ore trascorse insieme a parlare di cinema, di neorealismo
prevalentemente, ma anche dei nuovi autori, delle nuove tecniche e di
letteratura. Anche se lui era un fagocitatore di saggistica. Aveva
orari cadenzati per garantire continuità alla amatissima Edith,
conosciuta in Germania quando era assistente di Rossellini: i nostri
incontri non superavano i 45 minuti. Se poi doveva andare in banca o
in giro per qualche altra incombenza prima faceva un salto a casa,
poi riusciva. Seduti mi trovavo più a mio agio; quando parlavamo
camminando facevo fatica a tenere la testa alzata per incrociare il
suo sguardo.
Una immagine da "Achtung! banditi" |
Ero incuriosito dal fatto
che avesse conosciuto Cesare Pavese e ogni volta buttavo lì una
domanda, cercavo di portarlo sul discorso e mi capitò, specie la
prima volta, di restare con gli occhi sgranati per lo stupore, come
un fanciullo. Pavese non aveva inflessioni dialettali, capivi che era
un uomo del settentrione certo ma senza accenti o calate particolari.
Allora provavo a immaginare quell'incontro tra due persone
fisicamente simili, magre, alte, con il nasone e gli occhiali parlare
della sceneggiatura di Riso amaro, della Mangano e di De
Santis... Gli dissi una volta che mi faceva un certo effetto sedere
'accanto' alla Storia e lui si schermì perché i grandi conoscono
tutti il senso della misura. E adesso mi ricordo quando feci un
discorso del genere a Mario parlando della sua grandezza al che lui
rispose sbuffando e facendo spallucce: «Grande, grande, ma che vor
di' grande? Ho fatto quarche firm...».
Carlo mi aveva aiutato a
fare la quadra sulla definizione del cinema di Monicelli. Per anni
Mario mi veniva dietro ogniqualvolta asserivo che la definizione di
maestro della commedia all'italiana fosse estremamente riduttiva. Il
fatto che Mario vedesse il lato comico nella tragedia non poteva
definire in modo schematico un cinema che aveva comunque registri più
alti della commedia. E qui mi venne in soccorso lo studioso, lo
storico, il teorico rilasciandomi un'intervista sul cinema di Mario
in cui Monicelli poteva essere definito a pieno diritto un epigono
del neorealismo.
Quando lo scorso anno
accettò di presentare un mio libro, a parte la proverbiale cortesia,
lo descrisse con gli strumenti del filologo e stemmo a guardarlo
incantati, io e Marcello Teodonio, perché questo era Lizzani, non
solo il cineasta che conosciamo, ma un intellettuale che aveva
trascorso la vita sui libri e da questi aveva tratto linfa per la
rappresentazione della realtà, per un'adesione mai formale alla
mimesis, per il rigore con il quale ha attraversato il nostro
secolo breve.
Ci eravamo visti il 17
aprile (la precisione è data da un impegno espletato quel giorno) e
a maggio. Sono partito poi per un lunghissimo viaggio. Quando lo
chiamai, al rientro, mi disse che era meglio risentirci a settembre,
forse sarebbe riuscito a mettermi dentro come assistente nel film su
Andreotti che aveva in progetto. Ed eccoci al post-it. Quando il
malore che mi aveva chiuso la gola è passato ecco affacciarsi un
amico a dirmi del suo salto nel vuoto. Accompagnato da un coraggio
che non può essere descritto con parole di uso quotidiano perché -
asseriscono quei pochissimi che si sono salvati – in quei pochi
secondi c'è la vita passata che ti porta per mano davanti all'orrore
della morte, una manciata di secondi con la leggerezza di un ubriaco
sull'otto volante.
Dice Alvares: «I veri
motivi che spingono un uomo a togliersi la vita sono altrove;
appartengono al mondo interiore, tortuoso, contraddittorio,
labirintico e perlopiù fuori della portata degli altri». In tempi
non sospetti, quando ancora appunto il male non l'aveva aggredito,
Mario mi disse che non avrebbe mai accettato un surrogato di vita su
una sedia a rotelle («Nun me faccio puli' er culo dalle fije»). E
alla base del gesto esiziale di Carlo c'è tutto e il contrario di
tutto; la difficoltà di gestire il suo corpo, l'impossibilità di
accudire la sua amatissima Edith come avrebbe voluto e come aveva
fatto per anni. Pongo un interrogativo, senza peraltro che questo sia
suffragato da elementi concreti: la possibilità che quell'ultimo
film gli sia stato negato per mancanza di fondi o per una
sopravvenuta sua incapacità motoria e allora prenderebbe corpo, come
accadde in Pavese, che il rifiuto dell'industria cinematografica
possa aver accelerato i tempi del congedo.
Succede spesso, troppo
spesso, che fatti di tale drammaticità trascinino nella loro scia le
amenità di chierici senza credito. Quando morì Mario fu una certa
Binetti (chi era costei?) a sproloquiare su argomenti di cui non
aveva, evidentemente, padronanza. Oggi leggiamo di un sedicente
gazzettiere che, con baldanza futurista, ha scritto: «Lizzani si è
lanciato dal terzo piano. Monicelli si gettò dal nono. Il che
dimostra la differenza di livello fra i due anche nel suicidio».
Ignoriamo per chi scriva costui, sicuramente il suo suicidio non
avrebbe la valenza di un suicidio anomico, così come fu quello di
Mario e oggi quello di Carlo. Non a caso gli è stato risposto che il
suo suicidio potrebbe avvenire soltanto gettandosi dal marciapiede.
Hanno scomodato persino un geriatra per spiegare le ragioni di un
gesto perché Lizzani, in quel momento, non era più Lizzani ma un
'vecchio'. Pare sia andata così pure per Mario. Qualcuno ha detto
che quello, ospedalizzato, ricevette la visita di un medico il quale
deve avergli detto più o meno così: «A nonne', adesso la
dimettiamo, lei se ne stia buono a casa, si faccia accudire dai suoi»
e fu dopo l'uscita dell'incauto cerusico che Monicelli si gettò nel
vuoto.
Il dolore invade anche il
mattino, disse Pavese. Lizzani è riuscito con fatica a doppiare il
mezzogiorno. Ha lasciato un biglietto in cui ha scritto: «Stacco la
chiave». È lecito domandarsi se non sia questo un lapsus freudiano
(stacco la spina) ma, conoscendo la puntigliosità del nostro amico,
abbiamo quasi una certezza, che nella frase fosse racchiuso un
messaggio: chiuso nella mia stanza, nel mio locus solus, 'stacco la
chiave', tolgo cioè la chiave dalla toppa perché a nessuno sia
permesso entrare in quel coacervo magmatico di ragioni, di refusi, di
dimenticanze e di appuntamenti disattesi. Ci viene in aiuto Agostino
Pirella: «La riduzione del suicidio a un atto patologico è
semplicistica e fuorviante. Spesso esso rappresenta invece l'unico
gesto possibile in una situazione bloccata, ed è perciò
paradossalmente un atto di salute mentale». Può sembrare
paradossale ma il suicidio di Carlo può essere considerato una forma
di 'negazione della morte', il suicidio come affermazione della
volontà. E, ancora, Camus: «Un gesto come questo si prepara nel
silenzio del cuore, allo stesso modo che una grande opera». Ed è
per tutto questo che il suo gesto esige il nostro rispetto: nessuno
entri nella mia 'stanza'. Ma, soprattutto, «non fate troppi
pettegolezzi» come lasciò scritto lo scrittore piemontese. Della
sua uscita di scena egli ha curato, come un cineasta, l'ending:
aprendo quella finestra egli ha chiuso il sipario. La sua eredità è
infinita: fu molto, fu tutto, fu un divulgatore, fu un didatta ma
soprattutto un sognatore di futuro abbarbicato alla progettualità
fino alla notte che precedette il suo volo.
Carlo continua a
camminare con noi, con quel fare dinoccolato e le ginocchia che
sembravano piegarsi ma avevano la funzione di un ammortizzatore che
consente alla macchina di superare gli avvallamenti. Ed io continuerò
a prendere un caffè in quel baretto d'angolo tra via dei Gracchi e
via Fabio Massimo alzando la tazzina alla volta del tavolo che lui
era solito occupare - ed io con lui - come in un brindisi.
“Alias il manifesto”,
19 ottobre 2013
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