19.4.18

Sindacalismo rivoluzionario a Torino. L'anarchico Garino, l'amico di Gramsci (Marco Rossi)

La foto segnaletica di Maurizio Garino

Mi fa piacere segnalare il bel libro Il sogno nelle mani. Torino 1909-1922 che, come recita il sottotitolo, raccoglie passioni e lotte rivoluzionarie nei ricordi di Maurizio Garino, edito da Zero in Condotta (Milano, 2011).
Frammentariamente pubblicate e utilizzate, le memorie di Garino (1892-1977) che venne intervistato da Marco Revelli nel 1975, ci riportano con vivace immediatezza ad un periodo cruciale della storia del movimento operaio italiano del quale Garino stesso, come sindacalista e anarchico, fu protagonista e testimone di primo piano, attraversando tempi di rivoluzione, riformismo e reazione.
Appare fuor di dubbio che, come ha osservato Marc Bloch, è necessario sempre tenere di conto la “plasticità della memoria”, in quanto questa agisce da meccanismo potente in grado di rielaborare e potare i ricordi; ma, non di meno, “la storiografia – riprendendo Carlo Ginzburg – può alimentarsi nella memoria, perché le memorie sono un documento storico, nel momento in cui vengono trascritte oppure registrate al magnetofono, dalla persona in questione oppure da un terzo. E la memoria può trarre alimento dalla storiografia: si legge un libro di storia e magari si integrano in maniera consapevole o inconsapevole i propri ricordi”.
Quella “vecchia” intervista tra Garino e Revelli, ossia tra chi aveva fatto la storia e chi cercava di recuperarla, conferma proprio questa reciprocità, a sua volta integrata, precisata e sviluppata da ulteriori documenti, riflessioni e ricerche a cura di Tobia Imperato, dedicatosi per anni a questo progetto, nonché di Guido Barroero, Maurizio Antonioli, Cosimo Scarinzi. Inoltre vi è stato aggiunto un ormai raro contributo di Pier Carlo Masini su anarchici e comunisti nel movimento dei Consigli a Torino.
Gli avvenimenti, le persone, le questioni e i conflitti che emergono dal racconto di Garino, anche se circoscritti ad un periodo limitato e per lo più relativi al contesto torinese, sono innumerevoli e in grado di aprire utili porte per quanti studiano quel decisivo passaggio della storia sociale; ma, a mio avviso, quella più stimolante – anche per coloro che di solito non si appassionano alle vicende passate della lotta di classe – riguarda la quotidianità vissuta da Garino assieme a migliaia di compagni di lavoro e di rivolta nei luoghi di socialità e aggregazione nei quartieri proletari: luoghi non meno importanti, per implicazioni e sviluppi, dello spazio della fabbrica, allo stesso tempo coagulo di antagonismo ma anche di alienazione.
E anche Cosimo Scarinzi sottolinea, da parte sua l'importanza di questa “ricostruzione dell'intreccio fra formarsi di una generazione militante, lotte di fabbrica, comunità operaia e proletaria sul territorio, dialettica fra culture politiche” in questi luoghi, fossero i Circoli socialisti, quelli libertari di Studi sociali o le Case del popolo: tutti accomunati da frequentazioni simili, trasversali ai “partiti sovversivi”, e in grado di produrre sia relazioni personali che, attraverso strutture di autoformazione come la Scuola Moderna, saperi da condividere in modo orizzontale e consapevolezze di un'altra condizione umana.
Le descrizioni di questi ambienti che Garino ci offre, valgono più di ogni attuale astruso dibattito sull'identità perduta della sinistra e meritano d'essere parzialmente anticipate: “fondai con altri giovani compagni, tra cui il povero Ferrero, il Circolo di Studi Sociali, cioè la Scuola Moderna [...] il programma delineato in quei tre punti: lotta sindacale, lotta politica e lotta culturale... erano tre temi che spingevano avanti per far crescere la coscienza socialista negli operai [...]. Allora c'era quel tipo di operaio lì, che dopo dieci ore di lavoro aveva ancora la forza di venire al Circolo a discutere di Marx, di Bakunin, di Stirner. Su cento ne troviamo cinque che erano così, che sapevano perché Stirner era in disaccordo col comunismo, e con tutte le altre forme di collettività. Ma c'erano! Io questo problema me lo sono posto varie volte; secondo me era la sostanza che derivava dalle lotte mazziniane fatte nel secolo precedente, che rimaneva ancora [...]. Credo che questa parola, volontarismo, spieghi tante cose. Ecco perché “Quello sa questa cosa, io non la so! E allora mi faccio avanti”. E uno con l'altro ci si formava una coscienza. Naturalmente molti operai andavano a giocare alle bocce [...]. Noi ci occupavamo anche di poesia, si declamava”.
E, all'interno di questi luoghi, punto di riferimento per i lavoratori torinesi, ma anche immigrati dal resto della regione e non solo (come la consistente comunità operaia proveniente da Piombino), si andarono maturando scelte radicali individuali e collettive in grado di mettere ripetutamente in crisi il potere politico ed economico, attraverso pratiche di lotta portate avanti in prima persona dai lavoratori che si sentivano in grado di soppiantare in tutto e per tutto il padronato e i governanti, occupando fabbriche e dando vita a scioperi insurrezionali.
Non casualmente, a Torino, il sindacalismo rivoluzionario si dimostrò a lungo forte, ben oltre la sua rilevanza numerica, tanto da influenzare e condizionare pure altre tendenze (basti pensare a Gramsci che ebbe a definirlo come “l'espressione istintiva, elementare, primitiva, ma sana della reazione operaia contro il blocco con la borghesia e per un blocco coi contadini”); emblematica a proposito l'ammissione di Garino che pur era stato un dirigente della Fiom: “Noi eravamo per l'azione diretta, eravamo un pochettino soreliani, in sostanza. Non tanto, eh!”.

A – Rivista anarchica, n.383, ottobre 2013

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