5.4.18

Vittorini. Un siciliano in fuga, vorace e inafferrabile. Le passioni roventi di uno scrittore-contro (Annamaria Guadagni)


Le Giubbe rosse sono gli odiosi soldati di sua maestà nelle giovani Americhe anelanti l'indipendenza. Lo sa qualsiasi ragazzo abbia letto anche soltanto fumetti. Ma lo stesso nome (pare per via delle giacche dei camerieri) è di uno straordinario caffè fiorentino dove per tutti gli anni Trenta e i primi anni Quaranta si ritrovavano le promesse dell'Italia letteraria. Erano tutti lì o almeno ci passarono: Montale, Gadda, Vittorini, Luzi. Delfini, Poggioli. Landolfi, Pratolmi, Bilenchi, Alfonso Gatto, Carlo Bo... Per dire solo alcuni dei più noti tra coloro che. trovandosi a Firenze per le più diverse ragioni, si incontravano alle Giubbe rosse e pubblicavano sulle riviste letterarie (“Solaria” e poi “Letteratura”) animate da personaggi come Ferrata e Bonsanti. Tempi lontani, molto più distanti - si direbbe - degli anni che realmente ci separano dall'Italia chiusa, provinciale e fascista dove si consumava la trasgressione di leggere e tradurre i grandi autori della letteratura straniera, gli inglesi e poi gli americani allora totalmente sconosciuti, i francesi del '900, gli spagnoli (le prime poesie di Lorca uscirono su “Letteratura”, ancora negli anni Trenta, tradotte da Bo).
Che aria si respirava alle Giubbe rosse? Carlo Bo fuma lentamente e sembra guardare il vuoto: «Il clima era assai diverso da quello delle avanguardie di solito tempestoso, un po' rissoso. Eravamo gente di poche parole - racconta - A Firenze, che allora era molto fascista, ci chiamavano Bigi, grigi, per dire che non si capiva bene di che colore si fosse... Il maestro era Montale, che per Vittorini aveva una grande simpatia. Allora Vittorini era poverissimo: fumava mezze sigarette, a turno gli si offriva il caffè».
Veniva da Gorizia, viveva facendo il correttore di bozze e nella tipografia de “La Nazione” si era preso un'intossicazione da piombo. Era un siciliano scappato da casa e dall’isola ventenne. Figlio dì un ferroviere, aveva passato l’adolescenza a divorare romanzi nei caselli ferroviari, adorava il Robinson Crusoe di Defoe, si era diplomato alle scuole tecniche. Aveva anche fatto la "fiutina" con una bella ragazza, Rosa Quasimodo, la sorella del poeta. È lei la sposa bambina di Conversazione in Sicilia. Il loro matrimonio, dal quale sono poi nati due figli (Giusto e Demetrio) fu sciolto nel 1950 a San Marino. A Gorizia, Elio e Delfina (Vittorini Rosa l'aveva ribattezzata cosi) si erano trasferiti presso un fratello di lei, ma un anno dopo lui aveva perso il lavoro da geometra ed erano giù a Firenze.
Allora Vittorini era ancora fascista e collaborava alle pagine culturali del “Bargello”, settimanale della federazione del Pnf di Firenze. "Cambiò idea con la guerra di Spagna - prosegue Carlo Bo - Nel 1936 non era ancora chiaro che il fascismo appoggiava Franco e per il “Bargello” Vittorini scrisse da fascista un articolo in cui diceva che bisognava stare dalla parte dei repubblicani. Divenne antifascista così, d'istinto. Poi si avvicinò al Pci, come Pratolini. Del resto, l'unico che allora esprimesse una posizione antifascista di carattere intellettuale era Montale, che a suo tempo aveva firmato il manifesto di Croce. Per tutti gli altri l'antifascismo non era né una posizione filosofica né ideologica, maturò coi tempi e la guerra di Spagna fu decisiva. Come è noto Bilenchi fu un fascista in buona fede, Rosai addirittura squadrista, Gadda passò dal nazionalismo all'antifascismo... Tutti i miei coetanei o erano di famiglia antifascista, come me che perciò non ho alcun merito, o erano stati non dirò inquinati ma almeno sfiorati dal fascismo».
Il primo frutto della «conversione» di Vittorini è appunto Conversazione in Sicilia, che a suo tempo suscitò un'impressione enorme. Ecco come l'americanista Gianfranco Corsini, allora studente, rievoca il suo primo incontro con Vittorini nel 1942, nel salotto di Montale che a Milano era stato direttore del Gabinetto Vieusseux: «Per me fu un'emozione indimenticabile. Era alto, con baffi scuri c capelli a spazzola, aveva un forte magnetismo. Era una persona attraente, espansiva. A quel tempo era già un mito, il suo nome circolava già molto e si parlava di lui come di un inafferrabile. Conversazione in Sicilia ci aveva colpito parecchio: in Italia fino ad allora c’era solo la prosa d'arte, mancava completamente una tradizione di romanzi moderni... Dcl resto, se penso alla Bosnia dei giorni nostri trovo ancora profetico quel suo: "Piango per il mondo offeso"».
Ma com’era la casa di Montale e della sua. compagna, detta la Mosca, aperta a tutta quella gioventù in cerca di nuovo? «Era una casa borghese, quasi sul Lungarno - ricorda Corsini - Lui era ordinatissimo, sempre in pantofole, in camera aveva un piccolo tavolino da lavoro: allora traduceva Melville. La Mosca era una signora deliziosa Mi trovai a casa loro il giorno in cui arrivò la Ginzburg tutta vestita di nero, con i suoi bambini. Leone era appena stato ucciso. Quella scena così traumatica mi è rimasta dentro».
Allora Vittorini macinava già progetti editoriali per il dopoguerra. Nel '42 era uscita Americana, la prima antologia di scrittori d'Oltreoceano censurata e presentata da un'introduzione di Emilio Cecchi che Pavese definì canagliesca». Al giovane Corsini, Vittorini, che ormai vive giù a Milano, affida la traduzione di un romanzo di Elisabeth Gaskell, una delle autrici preferite di Marx. «Quel librone me lo sono tirato dietro per tutta la resistenza, senza mai finirlo. Tre anni dopo, Vittorini che nel frattempo mi aveva affidato altri impegni, ancora mi tempestava: «Sbrigati. È nel tuo interesse sfatare la leggenda della tua pigrizia!».
Ma Vittorini sapeva davvero l'inglese? Irregolare, asistematico, antiaccademico, nella Lettera a Togliatti apparsa sul “Politecnico” nel 1947 racconta lui stesso come l’aveva imparato nella tipografia de “La Nazione”, da un operaio come lui. Corsini ricorda che la formazione linguistica non poteva che lasciare a desiderare m tempi in cui era impossibile andare all’estero. Oreste Del Buono rammenta che "lo sapeva fino a un certo punto, ammetteva che Pavese era più bravo. Eppure perfino lui si defilava se solo si trovava con qualcuno che parlava davvero bene l’inglese”.
Dunque per tradurre, ci voleva un negro che preparasse i testi. Gli scrittori poi li reinventavano. Gadda, Vittorini, Montale hanno lavorato così. Ma quello della negresse inconnue, secondo la definizione regalata da Montate a Lucia Rodocanachi, la bella e raffinata, triestina che lavorò con Vittorini su Americana, è diventato un affaire. È ormai appurato infatti che la signora non ebbe riconoscimento alcuno. Non lo ebbe sul piano professionale né sul piano economico. Lei era ricca, lui no. Ma secondo Gian Carlo Ferretti, che ha scritto un libro recente con molto materiale medito (Vittorini editore, Einaudi), c'era una certa sproporzione tra le effettive condizioni economiche dello scrittore e l'immagine interessata di povertà tracciata nelle lettere a Lucia per motivare le sue reiterate inadempienze. Lo facevano tutti, é vero - dice Ferretti - Per Vittorini però è più eclantante perché su quel rapporto con la Rodocanachi lui ci viveva». La filosofia vittoriniana in proposito la si trova in una lettera del 1937 alla sua frustrata negresse. “Sento che c'è quasi una punta di sfruttamento, in questo, da parte mia. E mi consolo solo al pensiero che anch’io sono sfruttato, da parte dell'editore e di tanti. Ma lei, a sua volta, chi sfrutta?». Ferretti parla di genio c spregiudicatezza: che cosa vuol dire? “E come definire altrimenti il modo in cui faceva traduzioni belle e infedeli? Più tardi si comporterà così anche da editore. Prese la storia dei musulmani in Sicilia di Amari e lo trasformò per “Corona" in un libretto di duecento pagine. Allo stesso modo, usando robustamente le forbici, costruì Il sergente nella neve di Rigoni Stern e ne fece un libro di successo».
“Corona” e «Pantheon» sono le collane che Vittorini dirige da Bompiani, già nel ’42. Ormai vive a Milano. In una lettera a Hemingway del 1949 dirà: «Amavo e amo Milano per la donna di cui mi ero innamorato...già nel ’32». Lei è Ginetta Varisco, la ragazza del partigiano Enne 2 in Uomini e no, il più hemingwaiano, appunto, dei romanzi di Vittorini. Quello che racconta la stagione bruciante che i due avevano vìssuto dentro la resistenza, lui era stato arrestato nel '43 e rilasciato poco prima dell’8 settembre. “Vittorini piaceva alte donne, era bellissimo. Lui e Enrico Emanuelli erano i due belli coi baffi, infatti tra loro c’é sempre stata una lieve competizione», racconta Oreste Del Buono in una delle sue travolgenti ricostruzioni «Era una gran donna, la Ginetta - prosegue il mitico OdB. - sempre molto esplicita: Vittorini era siciliano, lui dava a intendere ma non si prendeva responsabilità». Del Buono rievoca la protostoria di quell’amore. Le serate di lettura in casa di lei c del suo primo marito, Cesare Ludovici, il drammaturgo. «Finché un bel giorno lui torna a casa e trova tutto per le scale. Ginetta, che quella volta stava con Ferrata, l’aveva messo fuori. Più tardi disse che quella era stata una tappa per arrivare a Vittorini, che diventò il suo secondo marito. Il giorno in cui seppe che lei lo lasciava per Elio, Ferrata disse davanti a tutti: mi dimetto da uomo. Però restarono amici».
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La gestazione del “Politecnico” viene da lontano, da prima della guerra, come hanno dimostralo gli studi recenti di Marina Zancan. Nello stesso anno in cui vide finalmente la luce, il 1945, Vittorini passa come una meteora anche da “L'Unità” di Milano. Fa il redattore capo. Direttore é Giancarlo Paietta che, con la consueta irò, nia, ha tratteggiato più volte un profilo perfido del Vittorini giornalista in attesa dell'ispirazione per lare la didascalia della foto di prima pagina; c se non gli veniva...se ne andava lasciandola in bianco.
Sui vizi e le virtù del “Politecnico” si é scandagliato mollissimo, tutto è stato detto, la rivista morì per il concorso di molte ragioni: lo scontro col Pci che delegittimava quel gruppo d’intellettuali, Einaudi che si defilava (al gruppo degli einaudiani di Torino, del resto, quella gente non era mai piaciuta), Mondadori che non raccolse la sfida al rilancio e, sullo sfondo, la fine di una stagione. Si erano consumate le ragioni dell'antifascismo, anche sul mondo della cultura scendeva l’inverno della guerra fredda, la verità di OdB, che allora lavorava nella bottega di Vittorini, ha il gusto del paradosso: «lo sono vetero, sa: ero vittoriniano allora e poi mi sono trovato a difendere Togliatti quando era già morto, contro Cervetti. Che roba! Vittorini concepiva il “Politecnico” come una cosa d’avanguardia, il partito trovava invece che quelli erano falsi obiettivi per l’educazione delle masse. Si comportò come avrebbe fatto un editore prudente. Del resto Togliatti era circondato da yes men e da crociani, allora la cultura la facevano i professori di scuoia media. Lo sa che la riuscirono a far togliere da “L'Unità” un fumetto americano che allora si pubblicava? Poi dovettero accorgersi che a Mirafiori leggevano “Grand Hotel”. Il “Politecnico” allora era la nostra attività sovversiva, un giornale di ragazzi scompaginato. Vittorini ci faceva fare i pezzi a tesi, ci trasformava anche in sicari. Una volta mi chiese perfino di riscrivere il finale di un racconto di Babel. Comunque, io gli sono grato. Aveva capito l'importanza del cinema e dei fumetti, era un segno della sua agilità. Se non era per lui, non avrei mai fatto neanche Linus”.
E gli einaudiani di Torino, l’inimicizia con Pavese? "Vittorini era generoso, Pavese era più infelice. Allora le conquiste della virilità contavano molto, Pavese non ce la faceva, si arrabbiava...non potevano essere amici. Erano stati sempre in competizione: fino dai tempi di Conversazione in Sicilia e di Paesi tuoi. Vittorini aveva avuto successo all'estero. Eppure Pavese lo difese quando fu della censura di Americana. Poi. finita la guerra, già sotto l’occupazione, venne la grande disillusione nei confronti degli Stati Uniti che erano stati il simbolo della libertà: anche in questo, nel modo di viverla, loro due furono diversi...».
Giancarlo Ferretti sostiene che lo scontro tra Vittorini e Togliatti, ai tempi del “Politecnico”, si consumò su posizioni opposte ma dentro una stessa idea del «militantismo» degli intellettuali: «Si misurarono su una visione della cultura speculare», dice Ferretti che parla di «convergenze sottili, inconsapevoli ma profonde tra posizioni pur diversissime. Vittorini non ruppe, come poi fecero altri, perché non ci stava più. Lui cambiò solo molto più tardi». Nello Ajello, autore di un celebre saggio sul rapporto tra gli intellettuali e il Pei, non è d'accordo: «Emulsionare acqua e olio a distanza di tempo può dare una visione un po’ più pacificata dei conflitti, ma non è vera. Caso mai è vero il contrario: a distanza di quasi cinquantanni l'olio è tornato olio e così l'acqua. Entrambi sono liquidi ma assolutamente distinti. Così Vittorini e Togliatti. In comune avevano un fondo liberal-democratico mediato dal crocianesimo, ma l’altra metà per l’uno era eclettica, sperimcntalista, da trovarobe autodidatta; per l'altro era Stalin e uno zdanovismo se non condiviso usato come instrumentum regni. Per Togliatti tutto era politica, per Vittorini tutto era cultura. Era diventato comunista su una generica spinta di sinistra, senza aver letto Marx. Ma se tutto questo andava bene nel ’$5, nel ’46-47, col cambiamento del clima politico, non funzionava più. Fu accusato d’intellettualismo e persino di cosmopolitismo che per un intellettuale sono accuse sanguinose. E si badi bene, lo scandalo non fu tanto l’eclettismo ideologico, un aristocratico come Visconti, che maltrattava i servitori, era tollerato benissimo. Era l'eclettismo delle frequentazioni culturali di Vittorini a essere insopportabile. Quel suo guardare a certi scrittori trotzkisti o seguire tutti gli ondeggiamenti di Sartre che litigava col Pcf. Vittorini non voleva applicare la linea, voleva darla lui restando nel Pci: non a caso fu accusato di aver sbagliato porta, di comportarsi come se quello fosse il partito liberale».
Mario Spinella, che è stato certamente un intellettuale organico quando il suo amico Vittorini aveva già rotto col Pci, ha visto rafforzarsi negli anni una sua vecchia convinzione: «Una delle maggiori carenze del movimento operaio (e poi dei comunisti in particolare) è stata la diffidenza e l’ostilità per gli artisti dell’avanguardia. A cominciare dai pittori anarchici milanesi di fine ‘800, passando agli espressionisti tedeschi fino al Gruppo 63. Naturalmente ci sono le eccezioni: l’interesse di Gramsci per i futuristi, di Trotzkij per l’avanguardia russa. Ma in generale l’argomento del Marx dell’Ideologta tedesca, secondo il quale in futuro non ci saranno più artisti perché tutti lo saranno, è stato usato in modo surrettizio». Cioè come sofisma per liquidarne la funzione”.
Correva sul filo di questa comune passione eversiva il rapporto tra Vittorini e Spinella, cominciato alla fine degli anni Cinquanta quando tutti i giorni alle diciotto si poteva trovare lo scrittore alla libreria Einaudi diretta da Valdo Aldrovandi, e allora abitualmente frequentata da Enrico Emanuelli. dall’architetto Rogers, da Ernesto Treccani. «Ci univa l’amore per il fare letterario - dice Spinella - la voglia di incoraggiare i giovani. Vittorini si era fatto da sé, veniva da una famiglia modesta, da un'area culturalmente marginale, riconosceva di essere stato molto aiutato soprattutto da Montale, a Firenze. Perciò desiderava farlo anche lui. È stato un talent scout eccezionale». Nella collana sperimentale che dirigeva allora, i «Gettoni» di Mondadori, tra gli altri pubblica esordienti come Lalla Romano, Arpino, Fenoglio, Rigoni Stern, Ottieri, Bonaviri. Tcstori. Rifiutò il Gattopardo di Tomasi di Lampedusa con quella che Ferretti definisce una scelta «di tendenza» - sapeva quel che valeva ma non era quello che cercava lui. Col “Menabò” il carattere d'avanguardia della sua ricerca letteraria si accentua ulteriormente: «Era un territorio di sperimentazione anche critico-teorica - ricordo Spinella - Il Calvino di allora era uno scrittore d'avanguardia, su quella rivista usci la prima stesura dell'Horcynus orca di D'Arrigo, c'era Leonetti e ci scrivevano anche molti altri del Gruppo 63 che poi non furono teneri con Vittorini accusalo di eccessi di realismo.
La passione politica non l'abbandonò, nonostante tutto. «Le opinioni di Vittorini sulla società e sulla politica non cambiarono - scrive di lui Romano Bilenchi - Era rimasto un comunista. Nel 1960 mi scrisse una lettera affettuosa chiedendomi la firma di un appello lanciato dai migliori scrittori francesi contro la guerra e la tortura in Algeria». Spinella conserva il ricordo di una manifestazione di piazza a Milano all'inizio degli anni Sessanta. Era stata organizzata in solidarietà a un militante comunista spagnolo condannato alla garrota, Grimau. «Vittorini era tra i più agitati, lo presero e lo caricarono su una camionetta, insieme con Fortini. Allora qualcuno grida alla polizia 'Ma siete matti, portate via Vittorini?' Un commissario intelligente capì che non era il caso e li fece scendere; ma Vittorini non volle, se anche gli altri fermati non venivano rilasciati con lui. Li liberarono tutti. Purtroppo quel giorno un ragazzo fini schiacciato da una camionetta e ci morì sotto”.
Vittorini seducente e solare. «Un berbero biondo» secondo Spinella. «Un cervo che fugge», secondo Fortini che di lui ha scritto. «Credeva alla gioventù come a una giustizia. Invecchiare gli fu difficile». Con i suoi ragazzi com’era? “Affabile c autoritario, si sa”. Del Buono se lo ricorda paterno con Raffaele Crovi, il suo pulcino (oggi è il direttore di “Camunia”), sulla difensiva con Fortini, perché era più colto, «con noi scherzava sempre».
Il crepuscolo è per definizione meno luminoso. Nel '55 mori Giusto, il figlio più amato, e il colpo é durissimo. Nella corrispondenza tra Bilenchi e Togliatti, si trova una lettera in cui il leader del Pci si impegna a cercare una strada - se possibile - per far curare in Urss il figlio di Vittorini malato di cancro. Non ci fu nulla da fare. Padre Camillo De Piaz, che conosceva Vittorini per averlo «sfiorato» durante la resistenza, gli fu vicino in quei giorni tremendi. «Lo ricordo abbracciato a me mentre Giusto moriva - racconta - Gli dissi, e ne fu contento, che mi permettevo di raccomandarlo al mio Signore perché gli desse luce e forza. Lui è più grande della nostra fede e della nostra mancanza di fede, e ci ha fatto tali da autorizzarci, per così dire, a dimenticarla per vivere pienamente la nostra vita come ha fatto Elio». Oggi padre De Piaz non riesce a non pensare Vittorini «in una luce cristiana». «Non credo di far torto cosi alla sua memoria - spiega - né sono indotto a farlo da forzature interessate, non è nel mio stile. Nel dirlo penso a due componenti fondamentali della sua persona: la dedizione agli altri fino alla perdita di sé, e il suo sapersi trasferire negli altri (in quanti poi, e così diversi) per aiutarli a essere maggiormente se stessi».
Nello Ajello ricorda di aver incontrato Vittorini l’ultima volta, nella sua casa sui Navigli, il primo maggio 1964, due anni prima che lo scrittore morisse. «Guardava i barconi carichi di sabbia che scivolavano sul canale e aveva il tavolo carico di libri di storia della tecnologia, di geometria, di psicologia. Vittima del suo stesso sperimentalismo, Vittorini ne era ormai soffocato. Era assillato dall’idea di stare al passo col mondo, ma pensava che per la letteratura questo ormai non fosse più possibile e perciò ne teorizzava la fine, giacché le scoperte erano ormai delle scienze, della psicologia, della sociologia. Si era perso in un labirinto».
Vittorini aveva un cancro allo stomaco. Amava una gatta e sapeva lucidamente di dover morire, mentre riceveva gli amici in clinica parlando di nuovi progetti. Accadde nel febbraio del Sessantasei. Nessuno si è rassegnato a perderlo. Vittorini è stato importante anche come crocevia di sogni. Ne parla Vittorio Sereni, in suo poemetto del 1971, Un posto di vacanza. Vittorini appare come un fantasma a Bocca di Magra, dove spesso andavano. Oracolare, ironico, gentile ripete come un tormentone: «Che ci fai ancora qui in questa bagnarola?». Poi c'è il famoso sogno di Romano Bilenchi, quello che chiude quel suo folgorante ricordo di Vittorini, pubblicalo in Amici, Elio cammina con le mani in tasca per una strada deserta, a Firenze, porta il suo solito basco turchino. È andato a salutarlo. Il sogno di Fortini è raccontato in una poesia, Le sette di sera. Lì c'è un curioso rovesciamento delle parti. Il fantasma non è Elio, che in mano ha le chiavi della «Giulia» e lo abbraccia stringendo l'aria; perché forse è il sognatore che nel frattempo si è trasformato in morto. Secondo la leggenda, Franco Fortini non è di facile carattere. Di Vittorini non ha voluto parlare. Però è stato generoso: ci ha regalato i versi inediti di questa pagina. Li ha scritti l'anno scorso, come si vede alludendo al mistero di quelle apparizioni. A Elio che percuote i sogni.

l'Unità, 4 aprile 1993

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