Un tratto dopo l’altro
il lupo prendeva forma sul quaderno degli appunti, accanto ai
resoconti di guerra e alle proposte dei membri del Politburo.
Appena calava un attimo
la concentrazione Iosif Dzugasvili si ritrovava quasi
inconsapevolmente a disegnare la sua bestia preferita, l’unica che
potesse rappresentare la sua gioventù idrofoba.
L’aneddoto è rivelato
da Simon Sebag Montefiore, che nel 2010 ha pubblicato per Longanesi
la biografia Il giovane Stalin. Il volume narra i primi anni
di vita del dittatore, nato in povertà nella Georgia del 1878.
Furono i più formativi e i meno reclamizzati, fondamentali per
capire l’animo paranoide di uno dei grandi protagonisti del
Novecento.
Tra il racconto di feste
lascive e battute di caccia alla pernice, di miseria e cospirazioni,
lo storico britannico indugia su un episodio che si sarebbe poi
rivelato decisivo: la rapina del giugno 1907 alla banca di Tblisi.
Non fu il primo, né
l’ultimo colpo organizzato dal nucleo di combattenti che dieci anni
dopo avrebbe incendiato l’Impero e cambiato il corso della storia.
Fu il più clamoroso.
Allora Stalin aveva già
sperimentato la deportazione in Siberia. Il grande esproprio, come
era bene chiamare le rapine, fu pianificato nelle settimane
precedenti, nel corso di due visite segrete a Lenin tra Londra e
Berlino. “Koba”, il suo nomignolo del tempo, era un meticoloso
uomo di pensiero e azione. Stava per diventare il più grande
finanziatore della rivoluzione.
Quel giorno Tbilisi era
zeppa di poliziotti e cosacchi, le cattive intenzioni dei bolscevichi
erano note da un pezzo grazie al lavoro degli informatori. L’attacco
fu condotto da una ventina di uomini vestiti da contadini, usciti da
una taverna armati di Mauser e Browning.
Tra loro anche un feroce
specialista del mestiere come Simon Ter-Petrosian detto “Kamo”,
che nei preparativi dei giorni precedenti si era fatto esplodere una
granata addosso ed era rimasto ferito a un occhio. A inaugurare le
danze, scrive Montefiore, fu una bomba gettata dallo stesso Stalin
dal tetto del palazzo del principe Sumbatov. Per alcuni istanti il
fuoco echeggiò per tutta piazza Yerevan, prima che gli espropriatori
prendessero possesso della diligenza giunta dalle poste cittadine e
diretta alla sede centrale dell’istituto di credito.
Le informazioni che
Stalin aveva scucito a un ex compagno di scuola erano precise: a
bordo c’era l’equivalente di tre milioni e mezzo di dollari. Poco
male se la maggior parte del bottino era tracciato, da ripulire prima
di far circolare. Sul terreno rimasero tre morti e quasi cinquanta
feriti.
Sul ruolo di Stalin nella
vicenda ancora oggi gravano ombre: se nessuno mette in discussione
che suo fosse il coordinamento dell’iniziativa, meno certa fu la
sua reale operatività. Non per eventuali remore morali, che il
futuro primo segretario mai esibì nei lunghi anni di dominio sul
Pcus. La palestra di sopravvivenza imposta dagli zar oltre il Circolo
polare artico e i tempi de “la borsa o la vita” avevano dato i
loro frutti.
Pagina 99, 2 aprile 2016
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