Alessandro Portelli |
L’importanza della
memoria. Viviamo un periodo di cambiamenti epocali e le nostre
categorie interpretative sembrano fare acqua. La ricerca di una
chiave di lettura che sveli le strutture profonde e apparentemente
sconosciute del presente chiama in causa la storia, da sempre
grimaldello per scardinare i meccanismi più opachi della realtà:
“Anche se l’atteggiamento di trattare la storia come qualcosa di
secondario, ornamentale, è ancora molto diffuso. Perché la storia
parla del passato e quindi non ci riguarda nel presente: e oggi c’è
una forte spinta all’utilitarismo, all’uso immediato delle cose.
In tutti i campi”.
A parlare è Alessandro
Portelli, uno dei massimi teorici della storia orale. Lo incontriamo
in una soleggiata mattina di fine luglio, nel terrazzo che dà sul
suo giardino, col frinire di cicale quasi a sovrastare le nostre
parole.
Genova 2001
Per provare a capire cosa
farcene oggi del “peso della storia”, e soprattutto di quale modo
di fare storia potremmo aver bisogno nell’immediato futuro,
partiamo dai fatti di Genova del 2001, di cui pochi giorni fa è
ricorso il quindicesimo anniversario. Alessandro Portelli ha scritto
un saggio nel 2007, Generations at Genova (contenuto nella
raccolta Storie Orali) che, attraverso una serie di testimonianze
dirette di chi ha vissuto quell’esperienza, ricostruisce le vicende
di quei tumultuosi giorni. “Genova è il primo grande evento di
massa dell’epoca dei cellulari – ci dice Portelli -, il primo
evento di massa delle tecnologie digitali. Al tempo, è stato
l’evento più accuratamente documentato dalla storia dell’umanità:
c’erano tante telecamere e macchine fotografiche quanto persone. A
me per esempio ha colpito il film di Francesca Comencini, Carlo
Giuliani Ragazzo, in cui sostanzialmente riusciamo a seguire
Carlo Giuliani dal momento in cui esce di casa fino a Piazza
Alimonda.
Questa modalità di fare
storia è molto “presentista”: ha una funzione importante dal
punto di vista giudiziario, di ricostruzione dettagliata degli
eventi. Quello che invece fa la storia orale è un’operazione più
centrata sulla “messa in prospettiva”. Il progetto al quale
abbiamo dato vita (che poi è il seguito di un mio vecchio progetto
sulla Pantera) consisteva nel focalizzarsi sul vissuto di alcuni
studenti alla prima esperienza con le manifestazioni. Fecero
interviste alla gente che era lì: l’idea era quella di vedere che
tipo di impatto profondo avessero questi eventi; non si trattava di
ricostruire, per esempio, se Carlo Giuliani avesse o meno un
estintore, ma di indagare quali trasformazioni questa esperienza
comportava nel vissuto personale, profondo, della gente che vi prese
parte. Per molti è stata la scoperta della violenza dello Stato. Mi
è rimasta impressa la testimonianza di questa ragazza che mi disse:
‘Io avevo i girasoli in testa, tu perché mi manganelli che io ho i
girasoli in testa? Non lo capisci che sono innocua?”.
Partendo da questo
approccio di testimonianze dirette è stato possibile illuminare una
nuova prospettiva degli eventi: una narrazione che per emergere ha
avuto bisogno di tempo. “Abbiamo scoperto le ripercussioni che quei
fatti hanno avuto sulle persone a distanza di anni – continua
Alessandro Portelli – in molti hanno generato una precisa e
radicata memoria, il cui contenuto è quello di ‘non poter contare
su nessuno’. Dal momento in cui la politica e il sindacato se ne
sono tirati fuori, gran parte dei racconti che ho ascoltato su Genova
si riferiscono a persone che dicono ‘siamo disarmati, abbandonati’.
Per alcuni questo ha contribuito a mettere fine alla loro esperienza
politica, per altri è stato un incentivo a continuare. La stessa
polarizzazione l’avevo verificata su un altro studio che avevo
condotto anni prima su Valle Giulia: la scoperta delle cariche della
polizia ingenerò in coloro che vissero quella situazione una sorta
di spaesamento, esemplificato nella domanda, ‘ma come, non sono
nemmeno operaio e tu mi carichi?’
La storia orale nel
mondo digitale
La storia orale in epoca
digitale, quindi. Un approccio che privilegia l’incontro diretto,
il dialogo, la componente diacronica, il racconto in prima persona,
in un contesto in cui i rapporti sono spesso mediati, che si sviluppa
nell’orizzonte temporale del qui e ora, che tende a fagocitare
passato e futuro in una costante bulimia di presente. Chiediamo ad
Alessandro Portelli se oltre a integrare con una pluralità di punti
di vista “soggettivi” la narrazione storica dominante,
l’approccio al racconto orale possa rivendicare affidabilità
scientifica.
“Dipende da che
significato vuoi dare al termine scientifico – ci dice – se
vogliamo applicare alle scienze umane i principi delle scienze
naturali incontreremmo senz’altro dei problemi. Con la storia orale
bisogna fare i conti col fatto che gli eventi avvengono a un altro
livello, a un livello immateriale, di credenze, convinzioni, emozioni
che determinano il senso di quello che è successo. Più che l’evento
esteriore, andiamo a scandagliare cosa questo comporti a lungo andare
nella vita degli ‘attori’ della storia, e soprattutto in che modo
queste persone riescano a costruire un discorso intorno a quei fatti,
a mettere in parole le loro esperienze. Una cosa molto interessante
di questo approccio è, per esempio, accorgersi di quando i discorsi
sono sbagliati, perché allora entra in gioco l’immaginario, il
desiderio, la costruzione di senso: e bisogna giocare sullo scarto,
sul dislivello che si viene a creare tra come è andatala realmente
la situazione e come questa viene raccontata. Quindi si mette in moto
un meccanismo che ti permette di costruire delle ipotesi plausibili
(non delle certezze) su cosa gli eventi significhino per le persone
che vi hanno partecipato. Sul perché vengono raccontati: in fondo,
se uno le cose se le ricorda è perché per lui hanno un significato
particolare. Se le cose te le scordi vuol dire che o sono
insignificanti oppure che significano troppo…”
Oltre a far leva sulla
capacità di lettura della psicanalisi, su modalità che rimandano a
un modus operandi antropologico, sulla continua attenzione
“metalinguistica” rispetto al significato di ciò che viene
raccontato, la storia orale pare basarsi su un modello più
democratico rispetto a quello della storia “classica”. Portelli
sembra in parte concordare su questo aspetto: “In merito alla
questione dell’interdisciplinarità, c’è da dire che per fortuna
abbiamo 130 anni di psicanalisi alle spalle: senza pensare che
intervistare qualcuno voglia dire psicanalizzarlo, sappiamo benissimo
che i sogni sono carichi di senso, così come le fantasie e i lapsus,
e quindi anche se un sogno non è affidabile come fonte storica
“oggettiva” è fondamentale lo stesso. Per quel che riguarda la
maggiore democraticità, sono abbastanza d’accordo. Perché dai
ascolto a una quantità di persone che di norma non vengono
ascoltate; non è che gli dai propriamente voce: le persone la voce
ce l’hanno. Semplicemente le rendi udibili: perché di solito
nessuno le sta a sentire. Poi immetti questa esperienza all’interno
di una narrazione storica complessiva”.
Terrorismo islamico
Una grande questione dei
nostri tempi è quella di trovare una chiave interpretativa che
chiarisca il fenomeno dei cosiddetti attentati islamici. In
particolare determinare il senso specifico della matrice islamica di
questi attacchi: in che modo i terroristi sono affiliati all’IS? In
che senso possiamo pensare che siano delle schegge impazzite? Come
possiamo integrare alle nostre interpretazioni la lettura che li
dipinge come frutto di una deriva psicotica, strettamente legata al
mondo occidentale? “È difficile. Avresti bisogno di ascoltare
loro – riflette Alessandro Portelli – e in questo contesto i
soggetti da intervistare o sono morti, o sono sotto le lenti del
sistema giudiziario. Inoltre per il lavoro storico c’è bisogno di
prospettiva, di vedere come quello che accade si condensa nel tempo.
Disporre delle testimonianze a caldo, anche di chi è stato vittima
di attentati, può essere utile per confrontare quel che la gente
racconta un anno dopo o sei mesi dopo. Detto ciò, a me ha colpito
molto la storia di questa donna che a Monaco sosteneva che
l’attentatore gridasse ‘Allah Akbar’. Se l’è inventato,
perché è quello che uno si aspetta in una situazione del genere: un
atto terroristico collegato alla presenza di un musulmano. È un
errore profondamente rivelatore, che illumina non un fatto realmente
accaduto, ma le dinamiche del profondo: esiste cioè un senso comune
per cui se c’è un atto di violenza viene automatico iscriverlo
all’ideologia islamica. Ora, in quel caso non era così, in altri
casi sì; ma viene da chiedersi: perché nessuno chiama terrorista il
killer che ha ucciso 19 persone in Giappone? Semplicemente perché
non è islamico. Questo dipende da una costruzione che ci siamo fatti
per cui ci dimentichiamo che la maggior parte delle vittime di
violenza armata negli Stati Uniti, per esempio, sono cadute in stragi
commesse da cittadini bianchi e cristiani: infatti nemmeno quelli li
chiamiamo terroristi. Mi sembra che in questo preciso momento storico
l’opinione pubblica sia imprigionata in un doppio vincolo: da una
parte le sirene di un soggetto molto informe, chiamiamolo pure ISIS,
che si ricollega all’estremismo islamico e che continua a
rivendicare attentati; dall’altra un discorso mediatico che
semplifica tutto, perché semplificare è molto più facile”.
Presidenziali Usa
Sul “fronte
occidentale” le acque non sono sicuramente più calme. Gli Stati
Uniti ribollono come una pentola a pressione, presi in un’escalation
di violenza interna, tra polizia dal grilletto facile e rappresaglie
degli afroamericani. Inoltre la contesa presidenziale proietta
l’ombra minacciosa di Donald Trump, e la nomination di Hilary
Clinton non riesce assolutamente a fugare presagi poco rassicuranti.
Alessandro Portelli si è sempre occupato di America e alla fine
della nostra intervista gli chiediamo, parafrasando il titolo di un
famoso film di Robert Altman, come vede l’America Oggi: “È un
paese armato e ossequioso di una ideologia delle armi. Questo
comporta che il poliziotto che si trova di fronte a qualcuno si
aspetta che questo qualcuno sia armato, anche quando non lo è. Tanto
è vero che le uccisioni di afroamericani ad opera della polizia sono
spesso ai danni di gente disarmata: la convinzione che tu abbia
un’arma incide, fa sì che aumenti la paura. Le forze dell’ordine
poi hanno armi da guerra, addirittura carri armati, e non hanno un
addestramento adeguato: c’è incapacità a gestire le crisi. A
tutto ciò bisogna aggiungere i preconcetti secolari sugli
afroamericani. Da poco c’è stato l’episodio di un individuo
fermato per alta velocità: sbattuto per terra, preso a calci, gli è
andata bene che non lo hanno ammazzato. Il caso di Baton Rouge ha a
che fare con una persona fermata per una luce di posizione non
funzionante. C’è questa terribile frase ironica negli States,
‘Driving while black’, come dire ‘Driving while drunk’, cioè
invece che ‘portare la macchina in stato di ebrezza’, ‘portare
la macchina in stato di afroamericanità’: condizione riconosciuta,
sarcasticamente, come pericolosa…
Sul piano dell’impatto
elettorale, Donald Trump gioca su queste drammatiche vicende. Ma
riguardo a tale aspetto vedo debole anche la Clinton, così come lo
era Bernie Sanders, formatosi in un contesto degli States in cui la
presenza degli afroamericani è trascurabile. Devo dire che trovo
paradossale anche il grande sostegno afroamericano alla Clinton,
quando è stato suo marito a creare le norme di polizia per cui
attualmente negli USA ci sono 3 milioni di afroamericani in carcere”.
Il sole di mezzogiorno
non è un deterrente per le cicale, il cui canto si impasta ora con
gli urletti divertiti di bambini. “E l’eredita
dell’amministrazione Obama?”, buttiamo lì poco prima di alzarci
dal tavolo dell’intervista: “Non c’è nessuna eredità, perché
Clinton rappresenta il contrario di Obama, e Trump non ne parliamo
nemmeno”. Alessandro Portelli fa una pausa, guarda oltre il
parapetto del terrazzo e aggiunge con un mezzo sorriso: “Diciamo
così: non la vedo proprio rosea”.
“l'Unità”, 30 luglio
2016
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