26.4.18

Luciano Canfora e Tucidide. Si gioca senza regole la partita del potere (Mario Vegetti)


Uscirono due libri assai interessanti tra il 1991 e il 1992, quando finita l'Unione Sovietica e archiviato il sogno comunista, infuriava la retorica democratica e si proclamava la necessità di universalizzazione della democrazia occidentale, il cui modello originario veniva fatto risalire all'antica Atene. Il primo, tratto dall'opera di Tucidide, ne isolava, per la cura di Luciano Canfora, Il dialogo dei Melii e degli Ateniesi (Marsilio, 1991), il secondo – dello stesso Canfora, affrontava in termini più generali il tema di Tucidide e l'impero (Laterza, 1992). Luciano Canfora non ha cessato di scavare sul tema della democrazia, estendendo la propria indagine ad altri momenti storici. Ricordo qui soprattutto La democrazia. Storia di un'ideologia, pubblicato da Laterza nel 2004.
Quella qui “postata” è la recensione ai quei libri del 1991-92, scritta per “la talpa libri” de “il manifesto” dal filosofo Mario Vegetti, che mi pare sintetizzare efficacemente i punti chiave della ricerca di Canfora, facendo anche ricorso a un aureo volumetto della Sellerio che Canfora aveva curato 10 anni prima per la collana “La memoria”, diretta da Leonardo Sciascia. (S.L.L.)
Un'immagine di Tucidide
Luciano Canfora viene da tempo proponendo all’attenzione (non solo degli specialisti) due testi del pensiero politico antico, tanto lucidi quanto scomodi per il rigore inquietante delle loro analisi storico-sociali. Scomodi lo sono stati senz’altro per la storiografia di ispirazione classicistica (di cui Canfora è buon conoscitore e critico impietoso), che a lungo ha cercato di «normalizzarli», con tutte le risorse della filologia, perché non disturbassero troppo il quadro armonioso, pacificato ed esemplare della grecità che essa amava presentare.
Il primo di questi testi è il saggio anonimo sulla Costituzione degli ateniesi (La democrazia come violenza, Sellerio, Palermo 1982). Il secondo è il dialogo tucidideo fra gli Ateniesi e i Meli.

Un maestro violento
Entrambi derivano dalla lezione di quel «maestro violento», che fu per i Greci, secondo le parole di Tucidide, la guerra del Peloponneso, con i conflitti che essa scatenò, all'esterno e all’interno delle città, fra regimi democratici e regimi oligarchici. La Costituzione degli ateniesi costituisce una cruda analisi, da un punto di vista oligarchico, della democrazia ateniese. Si tratta, senza dubbio. di un regime che funziona ed esprime al meglio gli interessi di chi vi detiene il potere. Essa è, nel senso letterale del termine, «violenza di popolo», della moltitudine dei poveri, a danno dei ricchi.
Se questi governassero, il loro regime sarebbe migliore, perché essi sono più colti, più intelligenti, più virtuosi della «canaglia»: e proprio per questo, essi la ripagherebbero con la stessa moneta, riducendola in schiavitù.
Non ci sono valori condivisibili universalmente o comuni regole del gioco, secondo quegli assiomi cari ai moderni teorici della democrazia, che Tucidide, sulla scorta del «maestro violento», considerava soltanto come arnesi buoni per la retorica assembleare o tutt’al più argomenti validi quando ci fosse una momentanea impasse del conflitto, un equilibrio transitorio delle forze in campo. I peggiori (democratici) e i migliori (aristocratici) conquistano e gestiscono il potere esattamente nello stesso modo, con l’oppressione degli avversari. Da questo punto di vista, la «democrazia» ateniese è stata a lungo considerata (e legittimamente, secondo Canfora), come l’antenata della dittatura giacobina e della dittatura del, proletariato - frutti inevitabili anche se non desiderati del pensiero liberatore di Rousseau e di Marx.
Nel dialogo tra Ateniesi e Meli - che Tucidide isola volutamente dal suo contesto storico per farne un caso esemplare destinato alla riflessione politica - sono in questione non i rapporti fra gruppi sociali ma quelli fra stati. Il potente impero ateniese impone alla piccola isola di Melo la secca alternativa fra asservimento e distruzione. I Meli cercano di sottrarvisi ricorrendo agli argomenti classici della morale greca: invocano le norme universali della giustizia, e confidano nella speranza della protezione ai giusti. La risposta ateniese é implacabile. La giustizia esiste solo laddove c’è parità di forze, «eguale necessità», altrimenti i forti agiscono in ragione del loro potere e i deboli subiscono. C’è una sola legge eterna, di natura, che vale sia per gli dei sia per gli uomini, ed è che essi «laddove hanno la forza, lì esercitano il potere».

La razza dei signori
Del resto, gli Ateniesi stessi non sono liberi di scegliere: o conservano l’impero, con il terrore che esercitano su sudditi e nemici, o finiranno a loro volta asserviti. Dopo un’accanita resistenza, tanto negli argomenti quanto in battaglia, la conclusione è inevitabile: i combattenti meli catturati vengono massacrati, le donne e i bambini venduti schiavi, e gli Ateniesi ripopolano l’isola con i loro coloni. Questi testi furono usati fin dall’inizio dai loro autori - entrambi di tendenza oligarchica, sia pure con diverse intonazioni - per smascherare l’ideologia della città: cioè il tentativo - prima di parte aristocratica, poi democratica - di convincere che con l’avvento della forma politica, della legge, delle regole del gioco assembleare, della giustizia giuridica, il conflitto fra gruppi sociali e stati avesse ormai trovato la sua soluzione definitiva, la sua mediazione in un confronto pacificato di opinioni, ragioni, argomentazioni e valori. Ciò che viene ricordato - e l’avrebbero fatto in questa epoca anche sofisti come Crizia e Trasimaco - è che una simile ideologia copre soltanto l’oppressione esercitata da chi detiene il potere, e che questo potere è in ultima istanza legittimato solo dalla forza.
Canfora riutilizza i suoi testi come una medicina da guerra contro le ideologie classiciste che riattualizzano l’antica ideologia della città per fare della Grecia il regno esemplare della legge, della giustizia, dell’armonia fra classi e stati. La «bella» grecità non fa purtroppo eccezione, nonostante ogni edulcorazione del classicismo di ogni tempo, alla dura legge, sociale e antropologica, del primato del conflitto e della forza. Ciò non significa tuttavia che Canfora faccia di questa legge, alla maniera di quella che egli definisce la teoria «demenzial-razzistica» di Nietzsche - la «bestia bionda», le «razze dei signori», che siano Ateniesi, Vandali o Goti - il pretesto di un’esaltazione della violenza superomistica. Egli ne trae piuttosto ragioni per una riflessione che coniughi realismo storico-antropologico con ragionevoli valutazioni e «insopprimili auspici utopistici».

Se finisce il bipolarismo
Le prime: tutto sommato l’impero ateniese, per quanto necessitato dalla logica del dominio, finirà per risultare comunque preferibile, agli occhi dello stesso Tucidide, rispetto al feroce «monopolarismo» spartano che ne prese il posto (un’allusione tanto più chiara in quanto Canfora paragona la vittoria ateniese sui Persiani a Salamina, su cui essi fondano la legittimazione dell’impero, alla battaglia di Stalingrado).
E la democrazia, come violenza di popolo, è pur sempre preferibile al dominio oligarchico, in quanto è collettivamente esercitata dalla parte più ampia della società. Per il futuro - un futuro lontano, dice Canfora - resta l’auspicio che democrazia e libertà possano finalmente coniugarsi: che cioè, secondo il pensiero dei suoi teorici, democrazia possa significare non oppressione e dittatura, ma libertà per tutti.
Per sperare ancora nel progetto illuministico, bisogna intanto non far finta di credere - sembrano volerci dire Canfora e i suoi testi «violenti» - che esso si sia mai realizzato, nell’antico e nel moderno. E quindi compiere le scelte possibili con lucidità, senza inganni ideologici o orpelli retorici.

il manifesto, venerdì 28 febbraio 1992

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