22.5.18

Crescenzio Cane, l'inventore della “sicilitudine” (Tano Gullo)

Crescenzio Cane nel 2006

Quando Leonardo Sciascia entra nella sua casa e viene investito da quell'abbaglio di colori gli dice d'istinto: «I tuoi problemi economici sono finiti. Basta vendere le tele per vivere decorosamente. Ti aiuterò organizzandoti la prima mostra». Le pareti erano "stipate" di quadri dai colori vivacissimi e dal segno infantile: galli, cavalli, pesci e farfalle; volti, alberi, lampioni e ingranaggi. E due "tormentoni" ovunque presenti: il cane, ora moscio ora ringhiante, e il sole prismatico, una sorta di totem alla solarità isolana. Autentica arte popolare quella del pittore-poeta-scrittore Crescenzio Cane. Anzi proletaria. Sciascia da quell'impasto di vernici, che l'artista usa per risparmiare, fiuta il talento. Ed è subito mostra.
«Era il dicembre del 1972 - ricorda Cane, che oggi ha giusto 72 anni - Le sessanta tele vennero esposte ad "Arte al Borgo". Fu un successo strepitoso. Tutte vendute. Quando mi vidi nelle mani i tre milioni e mezzo di allora che mi diedero gli organizzatori mi sembrò incredibile. E chi mai li aveva visti tutti quei soldi in una volta? La mia vita era stata tribolata. Fame, fame e sempre fame. Figlio di famiglia numerosa, eravamo sette fratelli, e padre di nutrita prole, raramente ero riuscito a mettere insieme pranzo e cena. Ma quello fu un bel Natale».
Prima di raccontare le peripezie di Crescenzio va detto che Sciascia nel presentare il catalogo della mostra gli rende quello che tanti gli avevano tolto: la paternità della parola "sicilitudine". «Crescenzio Cane - scrive l' autore di A ciascuno il suo - è l' inventore della parola sicilitudine che lettori distratti e critici peggio che distratti ingiustamente e ingiustificatamente ritengono mia. Una invenzione non casuale, ma che viene da tutto un discorso e lo muove: serrato, rabbioso, disarginato». «Sicilitudine - precisa Cane - è una condizione dello spirito. Nel mio saggio del 1959 in cui la definivo descrivevo che scaturiva dalla paura e dalla solitudine che ti assaliva a vivere in Sicilia, terra di illusioni e delusioni, di slanci e di tirannidi: il fascismo prima, la mafia dopo».
Cane nasce nel quartiere Zisa, in via Whitaker. L'infanzia a scorribandare per le strade, ma attento a non soffermarsi davanti al Castello per via dei 15 diavoli impossibili da contare nonostante siano imprigionati in un affresco. Poi le tribolazioni della guerra. Ai morsi della fame si aggiungono quelli del fascismo. Gli abitanti della sua strada, tra cui il nonno del pittore, vengono portati in caserma perché osano ironizzare sulla targhetta che cambia il nome della via: da Whitaker a via Albania. «Quando sento parlare di fascismo mi sale il sangue alla testa. Ho visto bastonare gente dignitosa perché non voleva mettersi la camicia nera o perché non partecipava alle adunate. Io stesso sono finito in camera di sicurezza a dieci anni, colpevole di avere giocato all' alzabandiera con un fazzoletto rosso e azzurro fiorato. Fascismo per me resta sinonimo di violenza, miseria e prepotenza sui più deboli». Sugli anni della sua infanzia alla Zisa lo scrittore-poeta-pittore ha recentemente pubblicato La strada di casa (edizioni Grifo 96 pagine, 10 euro); otto racconti che fanno assaporare le atmosfere di quegli anni terribili e affamati.
«Mio padre era macchinista del "Rex" il mitico transatlantico. Quando, dopo la dichiarazione della guerra, il Rex da New York rientrò a Trieste per essere posto in disarmo, mio padre restò senza lavoro. E per noi cominciarono gli anni bui. Che cosa poteva fare a Palermo un macchinista e per di più in periodo bellico? L'unico lavoro saltuario che trovò fu quello di spalare le macerie dei bombardamenti».
La famiglia Cane era marinara per tradizione; il nonno era imbarcato sui piroscafi della flotta Florio, che allora aveva 99 natanti. «Cento no, perché la legge glielo vietava. Mio nonno mi raccontava che il vecchio Vincenzo Florio aveva fatto costruire un piroscafo tutto d'oro di un paio di metri e così poteva vantarsi di averne cento, in barba alle restrizioni del governo. Anche io sono stato sempre un marinaio nel cuore. Purtroppo non ho potuto mai navigare. Il mio destino si è consumato sulla terraferma. E sempre con una divisa addosso, perché l'unica possibilità di mangiare allora mi era offerta dall'arruolamento: militare prima, poliziotto dopo e vigile urbano alla fine». Di questo parleremo dopo. Ora ritorniamo alla guerra. La famiglia, come tante a Palermo sfolla a Borgo Molara, sotto Monreale. Il padre fa su e giù a piedi da Palermo per spalare macerie rischiando la vita sotto le bombe. L'arrivo al Borgo è particolare. Con il nonno marinaro che s'intestardisce a portarsi dietro la bara che si era comprato a un prezzo d' occasione. Per le prime settimane nessuno si avvicina alla loro casa. E chi lo fa tocca ferro e altro. «Quella cassa da morto per un ironico percorso del destino fu la nostra salvezza. Un giorno arrivò una jeep americana. Avevano saputo che avevamo una bella bara in casa e la volevano venduta per riportare negli Usa un ufficiale morto. In cambio ci diedero un camion pieno di cibarie. Al Borgo fu festa grande, mio nonno diventò l'eroe e tutti smisero di toccarsi».
La guerra è fame («mangiavamo di tutto, tutto quello che riuscivamo a racimolare nei campi»), è paura, ogni tanto è gioco tragico. Così Crescenzio e i suoi amichetti vanno a vedere da vicino i potenti fari dell'antiaerea tedesca, in un campo allestito in contrada "Olio di Lino", che illuminano il cielo a giorno. «Mentre eravamo acquattati a guardare con gli occhi sbarrati lo spettacolo della notte che diventava giorno, un terribile bombardamento. Le schegge di un aereo Usa abbattuto ci erano piovute addosso. Quando finisce l'inferno mi accorgo che l'uomo accanto a me è morto. Una scheggia lo aveva colpito al cuore. Sono corso via come un puledro. Ogni tanto ancora oggi ci penso e mi viene il soprassalto».
Finisce la guerra e resta la miseria. «Nella nostra casa non c' erano più nemmeno i chiodi. Avevamo venduto tutto per sopravvivere. Per forza non c' erano ladri durante il fascismo. Cosa si poteva mai rubare nelle case spoglie? C'è un proverbio siciliano che dice: a uno nudo non puoi togliergli niente, nemmeno la dignità, perché tutto ha già perduto. Eravamo completamente nudi. L'ultimo oggetto, uno specchio, mio padre l'ha venduto a guerra finita per comprarsi il biglietto per Genova dove doveva ritornare a imbarcarsi». Sono anni difficili, di ricostruzione, Crescenzio si guarda attorno e non vede sbocchi. Le scuole le ha fatte saltuariamente. L'unica prospettiva che vede è la divisa. Finisce così a Venezia, al battaglione San Marco, dove diventa istruttore d'arme. Vive di malinconia e ricordi. Ha già provato le vertigini dell'amore. Un amore contrastato per i facili costumi della ragazza. Ricorda e scrive. Legge di tutto, come ogni autodidatta, e annota.
Sono struggenti i suoi versi sulla guerra: «Anche l'angelo custode bestemmiava l'assenza di pane. Non si cantava più nella via, specie a casa mia, e mia madre ci guardava e piangeva disperata». Siamo agli albori degli anni Sessanta e il soldato diventa poliziotto a Torino. Il posto è più sicuro. Comincia un' altra vita. Una brutta vita. Sono gli anni di Scelba, la polizia picchia duro gli operai che scioperano. «E nel regno della Fiat ogni giorno erano botte. Ma io stavo male. Mi chiedevo perché dovevo manganellare poveri padri di famiglia che chiedevano solo i loro diritti. Avevo la divisa ma mi sentivo dall'altra parte. Non potevo parlare con nessuno di questo travaglio che mi tormentava e allora la sera mi sfogavo scrivendo le mie emozioni e le mie rabbie».
Nasce tra una carica e l'altra lo scrittore. A Palermo conosce Maria, stavolta è la donna giusta e la sposa nel 1958. Togliersi di dosso una divisa che sentiva più pesante di un macigno e tornare a casa, al sole di Sicilia, diventa il suo chiodo fisso. C'è un concorso per vigile urbano e non si fa scappare l'occasione. Sempre divisa è, ma è più leggera. Comincia la sua terza vita, che presto riempie di figli. Cinque bocche da sfamare e si ritrova con i problemi di sempre. Non è più fame nera, ma la cinghia è sempre stretta. Si ritrova così a lottare per una casa, dopo che gli abusivi avevano occupato quella da lui ottenuta legittimamente. La ottiene, infine, a Borgo Nuovo, un deserto desolato. «Mancava tutto, acqua, luce, fogne. Avevamo solo la dignità e una forza bestiale». Blocchi e proteste e finisce due volte davanti al giudice. Denunce che pesano. Diventa comunista.
E lo è ancora, con tanta nostalgia dei tempi quando i dirigenti erano in prima linea. «Da anni i leader della sinistra sono spariti dai quartieri popolari. E poi si chiedono perché Berlusconi fa man bassa». Da anni fa spola con Firenze dove vive uno dei suoi figli, chef di successo. Fa figli, scrive, pubblica (il primo libro è La radice del Sud) e dipinge i colori della sua Sicilia («Con i quadri ho tirato avanti la famiglia»). Ma resta sempre ai margini. Va in giro con l'Antigruppo, artisti d'avanguardia, per i paesi a fare happening di poesia e pittura («Ma era una buffonata»). Litiga con i palermitani del "Gruppo 63"(«Sono stati sempre razzisti nei miei confronti. Nanni Balestrini, invece, mi ha aiutato a pubblicare le prime cose»). La casa da cui si vede tutto Borgo Nuovo e la collina di fronte è piena di quadri. I suoi («Non posso permettermi di acquistare quelli degli altri»). Al centro del salone un acquerello di Cesare Zavattini. «Me lo ha regalato, un signore». Mentre legge la dedica del maestro («Non so se c'è un po' di padanitudine, come nei tuoi c'è la sicilitudine») si commuove.

“la Repubblica” ed. siciliana, 4 agosto 2002

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