Articolo non nuovo, ma
secondo me utile al dibattito politico che si aprirà una volta
insediato il governo di coalizione tra Lega Nord e Cinque Stelle.
(S.L.L.)
Riusciranno il partito
populista finlandese e una società privata della Silicon Valley dove
Nixon ha fallito? Oppure, detto in un altro modo, la lotta alla
povertà può essere una battaglia di destra? È una battaglia di
destra, ancorché una destra atipica, libertaria e conservatrice in
un modo del tutto peculiare, quella per il reddito universale (o di
cittadinanza)?
Mentre il governo
italiano fa i conti di quanto costa garantire un reddito di base a
tutte le famiglie italiane che vivono in povertà assoluta – non
meno di sette miliardi di euro l’anno, ma i conti li facciamo nel
pezzo qui a fianco –, tra Europa e Stati Uniti rifiorisce l’utopia
di una riforma molto più radicale che può cambiare per sempre – o
cancellare, addirittura – lo Stato sociale per come l’abbiamo
conosciuto.
Bisogna stare attenti ai
nomi, dietro ai quali si nasconde una grande confusione, specie in
Italia dove termini come reddito di cittadinanza o universale sono
usati spesso a sproposito. Quello che vuole introdurre il nostro
Paese – e che in varie forme è già presente in tutta la vecchia
Europa – è un ammortizzatore sociale universale ma condizionato:
ovvero viene riconosciuto a tutte le persone e famiglie che vivono
sotto la soglia della povertà assoluta, ma solo se queste si
impegnano in piani per il reimpiego e, una volta usciti dalle
condizioni di povertà, viene sospeso o cancellato.
Dal primo gennaio di
quest’anno, invece, la Finlandia sta sperimentando una formula
diversa: 2.000 persone tra i 25 e i 58 anni e senza lavoro
riceveranno per 24 mesi una somma mensile di 580 euro al mese senza
condizioni. I beneficiari cioè non dovranno impegnarsi in piani per
il reimpiego, potranno decidere se utilizzare i soldi per studiare,
cercare un nuovo lavoro, aprire un’attività imprenditoriale,
oppure restare a casa a bere birra e a guardare la tv. Se troveranno
un lavoro che gli permetterà di uscire dal loro stato di bisogno,
l’assegno non verrà comunque sospeso.
Un esperimento simile sta
per essere avviato negli Stati Uniti da Y Combinator, una società
privata della Silicon Valley che fa soldi come incubatore di startup.
Non è un caso che l’iniziativa sia nata qui, dove la
consapevolezza dell’impatto della tecnologia digitale sul mondo del
lavoro fa presagire una società dove non sarà più necessario che
tutti lavorino, scenario che ha ispirato, tra l’altro, l’ultima
opera molto dibattuta di Paul Mason, Postcapitalismo (Il
Saggiatore, 2016).
Y Combinator ha deciso di
consegnare ogni mese a 100 famiglie duemila dollari. «Ci auguriamo
che uno stipendio di base promuova la libertà, e vogliamo sapere
come i beneficiari useranno questa loro libertà», ha spiegato il
presidente di Y Combinator, Sam Altman. L’utopia libertaria,
insieme al forte effetto redistributivo, è una delle bandiere più
in vista dei promotori del reddito di cittadinanza e che guadagna
proseliti anche a sinistra. Il reddito di cittadinanza piace a chi
critica le disuguaglianze sempre più forti nella nostra società e
gli attuali piani di welfare per le loro posizioni paternalistiche
laddove il sostegno è subordinato a una verifica dell’impegno del
singolo a re-introdursi nel mondo del lavoro o comunque a mostrare
spirito di iniziativa e sacrificio, con trafile burocratiche spesso
umilianti e inefficaci raccontate, da ultimo, da Ken Loach in Io,
Daniel Blake.
Allo stesso tempo, non è
un caso che il governo finlandese, che per primo in Europa ha avviato
questa sperimentazione, sia un governo di coalizione di centrodestra
dove, per altro, trova spazio uno dei partiti populisti oggi sotto
osservazione nel resto d’Europa per le sue posizioni xenofobe. Nel
caso finlandese, infatti, chi accede alla sperimentazione rinuncia
agli altri istituti di sostegno presenti nel Paese. Il reddito di
cittadinanza è il bazooka che distrugge lo Stato sociale per come
l’abbiamo conosciuto: un organismo statale complesso che, dalla
sanità all’istruzione, passando per il sostegno ai consumi, alla
natalità e alla lotta alla disoccupazione, dispiega un ampio
ventaglio di strumenti pensato per venire incontro a ogni necessità
del cittadino. Un organismo costoso e burocratico, si dice spesso da
destra, e che potrebbe essere cancellato con un colpo di spugna dal
reddito di cittadinanza che, nella sua versione più radicale, è
riconosciuto a tutti, senza distinzioni.
Se si guarda la questione
da questa angolazione, non sorprende poi così tanto che, negli Stati
Uniti, sia stato Richard Nixon il primo presidente ad aver proposto
l’attivazione del reddito di base per la lotta alla povertà, pur
se limitato alle fasce più indigenti della popolazione. Nel 1969,
cinque anni prima delle dimissioni per il Watergate, il presidente
repubblicano avviò una sperimentazione su 8.500 cittadini poveri a
cui venne corrisposto un assegno di 1.600 dollari l’anno, circa 10
mila dollari di oggi, senza condizioni. Le indagini mostrarono che
alcune delle paure più grandi che accompagnano ancora oggi le
proposte per l’istituzione del reddito di cittadinanza erano
immotivate: le ore lavorate dei beneficiari diminuirono in maniera
moderata (il 9%, dato poi rivisto al ribasso in un secondo momento) e
in molti casi si trattava di giovani che utilizzavano il maggior
tempo libero per formarsi, o genitori per la cura dei figli. La
riforma di Nixon, insomma, sembrava sulla buona strada per essere
approvata e forse avrebbe avuto il merito di sconfiggere per sempre
la povertà, almeno negli Usa. Tra i padri nobili sarebbe stato da
annoverare, significativamente, anche Milton Friedman, esponente di
quella scuola di Chicago per anni punto di riferimento degli
antikeynesiani e che negli anni Sessanta propose l’idea di una
tassa sul reddito negativa. Proposta diversa dal reddito di
cittadinanza, ma nello stesso solco di riconoscere un reddito minimo
come diritto universale sostitutivo rispetto al welfare considerato
troppo paternalistico.
Eppure, la proposta non
fu mai approvata dal Senato. Furono gli stesso conservatori ad
affossarla, con motivazioni che inevitabilmente torneranno in
discussione anche oggi. La prima questione è quella dei costi: il
reddito universale bocciato nel 2016 in un referendum in Svizzera
avrebbe fatto schizzare la spesa pubblica della Confederazione
elvetica a tre volte tanto le entrate pubbliche annue. Negli Usa
costerebbe circa due trilioni di dollari l’anno. Il reddito
universale – a meno di introdurre fortissime tasse a scopo
redistributivo – al momento può essere sperimentato solo se
tagliato sulla fascia più povera della popolazione, e questo è un
problema perché potrebbe costituire un incentivo a non lavorare per
non uscire dalla fascia “protetta”, la cosiddetta “trappola
della povertà”.
Ma al di là di questo,
il problema maggiore è che i settori conservatori più vicini a una
visione “protestante” del lavoro considerano immorale distribuire
soldi senza motivo a chi non fatica per guadagnarseli e anzi temono
che questo sia un incentivo in più a non svolgere un ruolo attivo
nella società. Finora le sperimentazioni dicono che non è così, ma
nessun dato o evidenza può scalfire la convinzione fortissima – a
destra, ma non solo – che i poveri siano sempre anche un po’
pigri.
Un altro problema da
superare è la questione del lavoro come strumento di affermazione
individuale che rimane centrale, non solo a destra. Pensare a una
società dove si può vivere anche senza far nulla è molto
difficile, anche se in un futuro non lontanissimo le macchine ci
spingeranno in questa direzione. Sam Altman, presidente di Y
Combinator, nel lanciare la sua sperimentazione americana ha ammesso
egli stesso che il rischio di fallimento è proprio
nell’insopprimibile valore sociale del lavoro salariato, ed è
d’altronde significativo che l’élite della Silicon Valley,
cresciuta nel mito del successo personale perseguito anche a costo di
ridurre al lumicino la propria vita privata a favore dell’impegno
professionale, paghi qualcuno per permettergli di rimanere a braccia
conserte.
Se poi ci spostiamo in
Europa, la questione potrebbe essere ancora più spinosa. Se è vero
che la Francia, con la legge delle 35 ore lavorative alla settimana
prima e il diritto alla “disconnessione” poi, è da sempre
attenta a un riequilibrio tra tempo libero e lavoro, diverso è
pensare, specie a sinistra, una società di non lavoratori.
Bisognerebbe ripensare il modo in cui intendiamo la dignità del
singolo e la sua partecipazione attiva alla società. Anche in
Italia, anzi soprattutto in Italia dove la nostra Repubblica si dice
fondata sul lavoro.
Pagina 99, 14 gennaio 2017
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