«In occasione del
cinquantenario del Maggio 68», Alain Badiou prende la parola per
rompere la doppia morsa della celebrazione ebete e della condanna
all’oblio. In questione sono tanto «l’idea vaga che troneggia in
testa agli articoli-anniversari» – il 68 come ribellione di
costume, «ultima utopia», «danza della storia a suono di rock» –
quanto l’immagine del 68 come premessa dell’individualismo
neoliberale contemporaneo.
«L’attualità del
Maggio 68» si disegna invece come «riserva di coraggio» da
scagliare contro due dispositivi di accecamento contemporanei: la
morale del capitale umano, del merito e del successo atomizzante, da
una parte; e dall’altra le prediche apocalittiche e reazionarie
secondo cui «è più semplice ormai immaginare la fine del mondo che
quella del capitalismo».
La pubblicazione di
questo piccolo pamphlet – Ribellarsi è giusto! L’attualità
del Maggio 68 (pp. 112, euro 14) per le Edizioni Orthotes è
quindi opportuna e coraggiosa: è una bella immagine questa del
filosofo che rivendica una carica di speranza contro tanti corvacci
stanchi.
Si tratta insomma di
tornare ad interrogare l’evento, innanzitutto per restituirgli la
sua intrinseca complessità. Il 68 non è stato un fenomeno unitario,
piuttosto una molteplicità eterogenea. «Ci sono stati tre maggio
68», scrive Badiou, a volte in polemica tra loro, spesso effimeri, e
tuttavia certamente potenti: il maggio studentesco – che ha segnato
una forma radicale di critica alla democrazia rappresentativa; quello
operaio – scosso da «scioperi selvaggi» e «insubordinazione»
alle istituzioni tradizionali della sinistra storica, tanto
socialista quanto comunista; e quello libertario, deposito prezioso
di un profondo rinnovamento delle pratiche teoriche, artistiche e
culturali. Ma, aggiunge Badiou, fornendo così una torsione decisiva
al suo pensiero, in «questa effervescenza contraddittoria» la
componente «essenziale» è costituita da «un quarto Maggio 68, che
prescrive il nostro avvenire».
C’è un’aria di
rinnovamento che percorre queste pagine badiousiane, come se il
filosofo tendesse a fare i conti con il reale. Se fino alla sua
celebre riscrittura della Repubblica di Platone, Badiou aveva
tolto di mezzo ogni possibilità di concretare il kairòs in
qualsivoglia cristallizzazione storica osservabile, questo suo 68 si
vuole invece come evento esemplificato. Di più: esso si inscrive in
una genealogia – le lotte operaie che attraversano la Normandia e
le periferie francesi lungo il 1967 – e si stende nei due decenni
successivi. «L’evento – nota correttamente Alberto Destasio
nella postfazione del volume – non è sciolto dal plesso con la
storia, non è incondizionato. Ogni evento è storico». Più che
esaltarne l’emergenza, si tratta insomma di misurarlo con «la
tenacia delle sue conseguenze». Il quarto Maggio è quello che
decreta la fine delle vecchie forme della politica e interroga le sue
nuove e necessarie dimensioni: «che cosa è la politica» oggi?
Quale forma organizzativa dobbiamo inventare, dentro la crisi della
democrazia, per «farla finita con le leggi del profitto»? Ecco
l’eredità viva del Maggio francese.
Tuttavia, giunti al punto
massimo di tensione, il platonismo di Badiou torna pesantemente e
precipita indietro il percorso svolto. Di nuovo, manca radicalmente
ogni idea della produzione, tanto dei beni quanto dei soggetti. Anzi:
è proprio a partire dalla completa obliterazione di ogni «agente
soggettivo» che si manifesta la «distensione nichilista» di Alain
Badiou. La politica comunista è una «Pura Idea», necessaria alla
vita.
Dopo un elogio
sperticato, e un poco ridicolo, del maoismo francese, il quarto
Maggio vola nell’Iperuranio: urge «la ricerca di un’altra
politica, illuminata dalla presenza immanente degli intellettuali»,
che – come insegna il comandante della lunga marcia –
restituiscano alle masse «in modo preciso» ciò che esse consegnano
«in maniera confusa». Nessuna inchiesta sulle singolarità
antagoniste, anzi. Il filosofo non insegue le pratiche di lotta, né
la sua conoscenza deriva da esse, piuttosto le chiarisce esattamente
in forza della propria separatezza. Torna così l’ipotesi del
comunismo come ideologia, utopia metafisica, radicalmente esterna
all’agire collettivo, che già conosciamo. Dalla cattedra,
tuttavia, non è possibile alcuna virtù, tantomeno quel «coraggio
di ribellarsi» che attraversa tutto il libro.
Come replicare a Badiou?
C’è un celebre testo, scritto da Gilles Deleuze – cui Badiou
rende un fuggitivo omaggio – e Felix Guattari, nel 1984, che
varrebbe la pena accostare a questo libretto, per sbloccarne
l’impasse. Anche lì era questione di evento. Notavano allora
Deleuze e Guattari: il 68 non nasce da una crisi, è piuttosto la –
lunghissima – crisi attuale che nasce dall’incapacità della
società europea di operare una riconversione soggettiva di quanto
accaduto cinquant’anni fa. Gli autori di Mille Plateaux ci hanno
insegnato a rileggere il desiderio comunista come qualcosa che si
costruisce dentro all’ammodernamento delle forme produttive, come
fame di ricchezza e gioia della riappropriazione. «L’evento –
scrivevano Deleuze e Guattari – crea una nuova esistenza, produce
una nuova soggettività». Oppure non si genera. Perché non si dà
critica fuori dalla densità di un agente storico e forse, ormai, non
si dà neppure filosofia.
"il manifesto", 1 maggio 2018
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