Da un
libro intervista ad Ágnes Heller, la celebre filosofa tedesca,
curato da Laura Boella e Amedeo Vigorelli e uscito nel 1979 per
Savelli riprendo, saltando le domande, un ampio stralcio del secondo
capitolo intitolato Verso il '68. (S.L.L.)
Degli
anni Sessanta in generale non parlerei in relazione all'Ungheria.
Fino alla fine del 1964 siamo vissuti nel buio tunnel della
disperazione. Vi furono qua e là accenni di risveglio: nel 1964 ebbe
luogo una discussione sulla estraneazione, dove molti partecipanti
parlarono della estraneazione in Ungheria. Detto per inciso: a causa
di questa discussione fummo (mio marito Ferenc Fehér e io)
interrogati dalla polizia segreta, naturalmente «del tutto
indipendentemente» da essa, poiché «da noi le discussioni sono
libere occasioni scientifiche», bensì a causa di un’agitazione
ostile allo Stato «avvenuta altrove». L’atmosfera cominciò a
migliorare nel 1965: in quell’anno ebbe inizio la preparazione
della riforma economica, che fu introdotta ufficialmente nel gennaio
1968. Tuttavia per noi il periodo di riforma si concluse nell’agosto
dello stesso anno.
Ho
detto «noi», e vorrei precisarlo meglio. All’inizio degli anni
Sessanta si era formato un circolo di amici che Lukàcs più tardi ha
denominato «Scuola di Budapest». La nostra amicizia era di
carattere personale e teoretico. Tutte le nostre idee venivano
discusse in questo circolo di amici. Ci leggevamo reciprocamente i
manoscritti e li criticavamo; in questa atmosfera era già realizzata
la «comunicazione libera dal dominio». Nessun’idea era «proprietà
privata», tutto era patrimonio comune. È impossibile dire da quale
membro del gruppo derivasse una nuova problematica. La diversità dei
caratteri — anche sotto il profilo teorico — si rivelò feconda:
in questo modo si potevano infatti controbilanciare le reciproche
debolezze. Se qui di seguito uso il plurale, penso alle aspirazioni e
atteggiamenti comuni che caratterizzavano questa comunità
liberamente scelta.
È
difficile rispondere alla domanda se gli anni tra il 1965 e il 1968
abbiano prodotto oppure no un «approfondimento». Sotto un certo
aspetto se ne può parlare, considerando cioè unicamente le
posizioni filosofiche.
Allora iniziammo l’elaborazione di una filosofia « positiva
», fondandoci su una nuova ricezione di Marx. Ci ricollegavamo
così a un movimento mondiale: era l’epoca della rinascita del
marxismo, inteso come teoria pluralistica. Questo periodo
tuttavia produsse anche nuove illusioni: partecipammo infatti
attivamente — sia pur con atteggiamento critico — al movimento
riformatore. Il nostro obiettivo era di trasformare la riforma
economica in riforma sociale. Per sostenere alcune tendenze di questo
movimento, e non ritirarci scetticamente nella sfera privata, era per
noi indispensabile condividere anche la speranza che una
trasformazione sociale mediante le riforme — con la partecipazione
dell’intera popolazione — fosse possibile. L’insegnamento
del 1956 era ormai svanito, la nuova situazione del mondo (la fine
della guerra fredda) veniva enormemente sopravvalutata.
Nel 1956
sapevo bene che nessun Paese dipendente dall’Unione Sovietica
si sarebbe potuto riformare da solo, ma ora sembravo averlo
dimenticato. L’intervento dell’armata sovietica in
Cecoslovacchia pose termine definitivamente a queste illusioni.
Perciò a partire dalla metà degli anni Settanta, il nuovo
liberalismo ungherese non ci poteva più incantare: conoscevamo
i limiti del regime. Il « buon sovrano » può arrivare quasi
fino al limite, ma non potrebbe superarlo nemmeno se lo volesse (e
certo non lo vuole).
L’incontro
con i filosofi iugoslavi della scuola estiva di Korgula avvenne
proprio in questo periodo di riforma. Per quanto mi riguarda, ho
partecipato tre volte alle sessioni: nel 1965, nel 1967 e nel 1968.
Prima
di parlare del significato storico della scuola estiva e della
rivista «Praxis»,
vorrei dire qualcosa di personale: sono stata sempre (e lo sono
ancora) profondamente influenzata dalla dignità umana, dal
disinteresse, dalla sincerità e onestà dei miei compagni
iugoslavi. Essi hanno subordinato tutti i loro fini e aspirazioni
personali — spesso anche scientifiche — alla causa comune. La
loro solidarietà (fatte rare eccezioni) si manteneva anche in
presenza di un disaccordo teorico o pratico, e si rivolgeva verso
tutti i marxisti di opposizione dell’intero mondo orientale. Non
solo ci hanno «capiti», ma hanno anche condiviso
le nostre pene, sono stati di esempio, non solo in quanto ideologi,
ma soprattutto come uomini socialisti. E poiché il socialismo
significa anche una nuova forma di vita, questa loro testimonianza
umana era altrettanto importante di quella ideologica, se non persino
di più.
Parlando
del periodo di «rinascita del marxismo», dobbiamo ricordare la
scuola estiva di Korgula e la rivista «Praxis», che di questa
rinascita furono le istituzioni. Korcula e «Praxis» crearono
infatti la base di opinione (Oeffentlichkeit)
intorno a cui si svolgevano le discussioni, si incontravano e si
confrontavano le diverse varietà del nuovo marxismo. In queste
istituzioni il nuovo marxismo divenne internazionale. Ed esse furono
le sole a svolgere questa funzione storica.
Le
sessioni della scuola estiva erano caratterizzate da questa tendenza
comune, sebbene fossero molto diverse. Il movimento giovanile
radicale nel 1965 non le influenzava ancora: d’altra parte nemmeno
esisteva. Nel 1968 — nei giorni precedenti l’intervento —
proprio questa rivolta era però al centro delle discussioni. Se si
confrontano i due interventi di Marcuse alla scuola estiva — la
discussione con Serge Mallet del 1965 e il suo patetico discorso del
1968 — questa differenza balza subito all’occhio.
Korcula
ci offrì la possibilità di incontrarci con numerose personalità
rappresentative del vecchio e nuovo marxismo. Ovviamente non tutte mi
erano simpatiche allo stesso modo. Ricordo soltanto i due che non
potrò più incontrare e che mi hanno profondamente colpita per il
loro carattere umano: Ernst Bloch e Lucien Goldmann. Li conoscevo già
dai loro scritti, e in particolare avevo già conosciuto Bloch a
Berlino. Il vecchio raccontava per lo più storielle. Da lui ho
risentito quasi tutti gli aneddoti che avevo già ascoltato da
Lukàcs. Tuttavia: duo si faciunt idem,
non est idem. Fu una rivelazione per me
il modo in cui Bloch univa nella sua natura il momento scherzoso e
quello patetico. Dopo l’intervento, quando noi tutti eravamo
disperati, lui solo conservò l’ottimismo. Quando io gli parlai
delle mie speranze perdute, egli batté adirato sul tavolo: «Persino
questo tavolo può diventare un coccodrillo! Dovete crederci, dovete
credere a me, che sono vecchio!» Io non ci credetti, ma fui colpita.
L’incontro
con Lucien Goldmann, questo epicureo intimamente lacerato, fu per me
molto importante anche dal punto di vista teoretico. Ci incontrammo
non solo a Korcula, ma anche alla conferenza di Royamont (gennaio
1968), dove conobbi Adorno. Con Lucien mi trovai impegnata in accese
discussioni sulla estetica del giovane Lukàcs. Mi accadde lo stesso
che nelle conversazioni con Kolakowski. Dopo aver difeso fino in
fondo il mio punto di vista, una volta tornata a casa capii che le
mie posizioni erano deboli e che Lucien aveva avuto ragione contro di
me nei punti essenziali. Attraverso di lui, riscoprii L’anima
e le forme e Teoria
del romanzo.
Tornando
al gruppo di «Praxis»: furono i primi (come avete ricordato) ad
aver reintrodotto Storia e coscienza di
classe nel marxismo vivente. Fu un
grande merito teoretico. Ma, per quanto mi riguarda, devo ammettere
che questa scoperta non ha influenzato profondamente il mio pensiero.
Ovviamente per me (come credo per noi tutti) Storia
e coscienza di classe rappresenta il
grande capolavoro filosofico di Lukàcs, nonché una delle opere più
importanti del XX secolo. Sono tuttavia arrivata tardi a questo
libro: dopo il 1956. Prima, quando condividevo la parola d’ordine
lukacsiana del «tornare a Lenin», l’opera mi avrebbe sicuramente
molto influenzata. Mentre dopo il ’56 io avevo ormai chiuso i conti
— sia pur gradualmente, ma sostanzialmente — con Lenin. Per
quanto avessi imparato da questo libro, per quante idee ne avessi
tratte, non potevo più accettarne la concezione di fondo: era troppo
leninista per me. Sotto questo profilo le mie esperienze «
Est-europee » avevano inciso troppo.
[...]
Pur
non avendovi potuto assistere direttamente (conobbi tuttavia
personalmente a Budapest Rudi Dutschke e altri membri dell’SDS in
occasione della loro visita a Lukàcs) nel 1968 condivisi in pieno i
movimenti studenteschi americano e francese, la rivolta giovanile e
lo sciopero generale in Francia. Era proprio il movimento che
aspettavo, per dirla in termini un po’ egocentrici: fu la conferma
dei miei ideali e aspirazioni teoriche. Allora avevo terminato il
libro sulla vita quotidiana, ed ero giunta alla conclusione che
presupposto di un’autentica società socialista avrebbe dovuto
essere la trasformazione delle ferme di vita, la creazione di nuove
comunità. E proprio allora ci fu un movimento di estensione mondiale
che incarnava le stesse aspirazioni. Quei giovani si accingevano a
realizzare nuove forme di vita. Erano l’utopia «materializzata».
Lo slogan della rivolta francese: «siamo realisti, tentiamo
l’impossibile» mi commosse fino alle lacrime. Finalmente si
trattava dell’espressione non più di una dialettica negativa,
bensì positiva. I movimenti di rivolta non si limitarono ad
articolare la negazione totale del mondo dell’oppressione, della
gerarchia, dell’egoismo e dell’individualismo, bensì
costituirono l’ideale del nuovo: un futuro degno dell’uomo. Non
ero certo d’accordo con tutto ciò che avveniva in questo o in quel
movimento giovanile (soprattutto sul movimento studentesco tedesco
avevo serie riserve), ciò nonostante nell’insieme lo ritenevo un
inconfutabile segno dell’emergere di un nuovo concetto e di una
nuova prassi della rivoluzione, che non si doveva più identificare
con l’accezione politico-giacobina nel senso stretto della parola,
ma doveva intendersi piuttosto come rivoluzione della società
civile, delle forme di vita. Ancora oggi sono di questo parere. Il
riflusso di questi movimenti non ha mai significato per me la fine di
queste aspirazioni, dal momento che non ho mai creduto che il mondo
si possa trasformare da un momento all’altro. È possibile
introdurre da un giorno all’altro delle riforme, anche le
rivoluzioni politiche esplodono spesso improvvisamente, ma la totale
trasformazione rivoluzionaria delle forme di vita può essere
immaginata solo come un processo di lunga durata, al quale ineriscono
ovviamente momenti di riflusso.
Quando
prima dicevo che questo movimento mi sembrava la conferma delle mie
aspirazioni, non volevo negare il profondo influsso che esso a sua
volta avrebbe esercitato sul mio successivo sviluppo teorico.
Compresi
infatti che i conflitti che qui si rappresentavano ed esprimevano non
si potevano definire «puri» conflitti di interesse. Questi
movimenti mi mostrarono la necessità di differenziare interessi e
bisogni; aveva così inizio l’intera teoria dei bisogni, grazie ai
movimenti del 1968.
Il
1968 (fino all’agosto) fu veramente l’anno dell’ottimismo.
Tutto era in movimento, all’Est come all’Ovest. Mi appariva una
possibilità reale la prospettiva di un’Europa unitaria, la
diffusione di un socialismo democratico. Come ho già detto,
quest’ottimismo si fondava ancora una volta su illusioni: per me
era quasi inconcepibile l’intervento sovietico in Cecoslovacchia.
Davo per scontato che in tali circostanze internazionali la riforma
economica appena lanciata in Ungheria fosse solo un inizio, che
avrebbe portato a una trasformazione sociale del sistema.
L’agosto
1968 segnò la fine delle nostre illusioni e aspirazioni
riformistiche, benché in Ungheria non si notassero reazioni violente
all’avvenimento. Neppure la stampa subì immediatamente delle
censure. I giovani di oggi si stupiscono leggendo le riviste di
allora: era ancora permesso tutto ciò che in seguito non lo sarebbe
mai più stato, neppure dopo il 1975. Anche la repressione contro di
noi fu relativamente mite. A causa della protesta contro l’intervento
i nostri passaporti furono confiscati per un anno (nel mio caso per
due). Hegedűs fu licenziato dal posto di direttore dell’Istituto
di sociologia. Contemporaneamente fu licenziato dal posto di
direttore dell’Istituto di filosofia anche Jozsef Szigéti, agente
diretto dell’Unione Sovietica, la cui posizione e attività
«filosofica» da anni consisteva nella delazione. In Ungheria si
ritornò alla mano forte soltanto nel 1972.
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