L'unico aneddoto
vagamente ilare sui giorni romani di Giacomo Leopardi riguarda un
funerale, quello sontuosissimo di Antonio Canova, nella chiesa dei
Santi Apostoli, dove un tale abate Missirini tenne un' orazione che
il poeta, la stessa sera, al cospetto di altri commensali, giudicò
"di nessun valore". "Gaffe" irreparabile giacché
l'abate medesimo era presente a quella cena ma senza essere stato
introdotto al resto della tavolata dal padrone di casa, Angelo Mai.
In un battibaleno la faccenda fa il giro di "tutta Roma
letterata" e Giacomo stesso, che col suo giudizio perentorio si
era conquistato l'approvazione dei presenti, la racconta divertito al
padre Monaldo in una delle quasi ottanta lettere scritte nei giorni
in cui soggiornava nella casa degli zii Antici, nelle sale del
palazzo di via Caetani, quello col cortile disegnato da Carlo
Maderno. È il febbraio del 1823, primo soggiorno del poeta a Roma.
Questa "bagattella"
è, a guardar bene, la sola nota appena spensierata di quei mesi, del
primo - e per la critica, il più importante - dei tre viaggi che
fece nella capitale, per "sgabbiarsi" da Recanati. Ma
Leopardi è "diverso", lo sa e lo dice per primo lui, di se
stesso: è "diverso" nel vedere cose di cui altri non
s'accorgono, nell'ignorare quel che gli altri ricercano. A Roma, poco
più che ventenne imbevuto di studi classici, ma già autore di
alcune tra le sue poesie più conosciute, si aggira spossato fra le
rovine che incantano i viaggiatori del suo tempo in quella stagione
centrale del grand tour in cui Roma è soprattutto un luogo
letterario. Leopardi è orripilato dai salotti che contano,
disgustato in mezzo a prelati e potenti, schifato dalle manfrine
delle ragazze che incontra nelle case altolocate.
Ora, al poeta di
Recanati, nella ricorrenza del bicentenario della nascita, Roma
dedica una buona messe di manifestazioni, "Roma per Leopardi",
coordinate dall'assessorato alle Politiche culturali. […] Occasione
imperdibile dunque per cedere alle "rimembranze" di cui
davvero nessuno meglio di Leopardi stesso è fonte: la ricorrenza
offre spunto per ripercorrere le storie romane del poeta, studiate
approfonditamente da generazioni di critici, l'ultima volta nel
convegno Leopardi e Roma, organizzato dalla Sapienza nell'88.
Da qualche settimana, al lavoro su questo specifico aspetto
documentario è un gruppo di giovani ricercatori, coordinati da Luigi
Trenti, che sta preparando una mostra per le sale - adattissime - del
Museo Napoleonico, ad aprile. Lettere in mostra, e che lettere:
Leopardi arriva a Roma e subito, dal 23 novembre 1822, comincia a
scrivere. Scrive, scrive, scrive al padre Monaldo, al fratello Carlo,
alla madre Adelaide di cui soltanto qui, in tutta la sua vita, ha
nostalgia. Da Recanati, Giacomo porta la propria esistenza, in una
stagione in cui non ha neanche la poesia a dargli quella "felicità
provata nel momento del comporre". Arriva e si sistema cercando
un modo per liberarsi del famoso "natio borgo selvaggio": è
tutt'altro tormento, l'opposto stato d'animo dai letterati stranieri
in pellegrinaggio in città, tra cui Goethe, Shelley, Chateaubriand,
tutti sedotti dall'estetica delle rovine, sospiranti ai chiari di
luna, di fronte al Colosseo, alla tomba di Cecilia Metella, ai
Caravaggio e ai Michelangelo. Ma Leopardi è diverso: il suo è il
rifiuto della interpretazione letteraria del mito classico della
scena, della storia di cui Roma è teatro e barocchissima
scenografia. Scrive: "Andato a Roma, la necessità di convivere
con gli uomini, di versarmi al di fuori, di agire, di vivere
esternamente, mi rese stupido, inetto, morto internamente". E la
vertigine più dolorosa la prova immerso nello spazio urbano: dopo
aver visto piazza san Pietro, definisce la città "spazio
gettato tra gli uomini", un luogo dove le distanze abissali lo
infiacchiscono. Scrive: "Delle grandi cose ch'io vedo non provo
il menomo piacere perché conosco che sono meravigliose ma non lo
sento, e t'accerto che la moltitudine e la grandezza loro m'è venuta
a noia dopo il primo giorno". Come se non bastasse, anche la
vita dagli Antici ("persone vacue, ciarliere") gli è
insopportabile: trova i suoi parenti frivoli, confusi, chiassosi e
giudica la loro casa mal riscaldata tanto da procurargli i geloni che
lo terranno a letto per duecento ore di sofferenza contate e,
naturalmente, messe per scritto. Anche lo zio protesta perché
Giacomo non sa tener conversazione, è noioso, maldisposto. Eppure -
è documentato - la società letteraria romana non mancherà di
apprezzarlo. Tra le sue poche consolazioni, la festa del Carnevale
dopo il Capodanno romano, le serate a teatro, in particolare al
vicino teatro Argentina di cui racconta al fratello e a Monaldo, "una
cosa stupenda". E c'è una visita memorabile, quella al sepolcro
del Tasso, vicina ai giorni in cui cataloga i codici greci della
Biblioteca Barberina. A Carlo Leopardi, scrive: "Questo è il
primo e l'unico piacere provato in Roma", apprezza "l'
umiltà di quella sepoltura" confrontata ai "superbissimi
mausolei" che sono dovunque e che fanno dimenticare le persone a
cui sono intitolati. Unica, momentanea consolazione in una città che
deprime la fantasia, la libertà, la capacità di rivelare sé
stessi. Scrive, nel 1831: "Io considero la mia dimora in Roma un
esilio. Non miro che al ritorno".
“la Repubblica”, 19
gennaio 1998
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