Il 4 maggio 1918, alla
vigilia del I centenario della nascita di Marx, “Il Grido del
popolo”, settimanale dei socialisti torinesi, pubblicò un
editoriale non firmato, scritto da Antonio Gramsci che ne era il
principale redattore. Lo posto, a memoria mia e dei compagni che
frequentano questo blog, cento anni dopo, quando l'autore del
Capitale si approssima ad un nuovo compleanno a cifra tonda,
quello che chiude il suo secondo secolo. (S.L.L.)
Siamo noi marxisti?
Esistono marxisti? Buaggine, tu sola sei immortale. La questione sarà
probabilmente ripresa in questi giorni, per la ricorrenza del
centenario, e farà versare fiumi d’inchiostro e di stoltezze. Il
vaniloquio e il bizantinismo sono retaggio immarcescibile degli
uomini. Marx non ha scritto una dottrinetta, non è un messia che
abbia lasciato una filza di parabole gravide di imperativi
categorici, di norme indiscutibili, assolute, fuori delle categorie
di tempo e di spazio. Unico imperativo categorico, unica norma:
«Proletari di tutto il mondo unitevi». Il dovere
dell’organizzazione, la propaganda del dovere di organizzarsi e
associarsi, dovrebbe dunque essere discriminante tra marxisti e non
marxisti. Troppo poco e troppo: chi non sarebbe marxista?
Eppure così è: tutti
sono marxisti, un po’, inconsapevolmente. Marx è stato grande, la
sua azione è stata feconda, non perché abbia inventato dal nulla,
non perché abbia estratto dalla sua fantasia una visione originale
della storia, ma perché il frammentario, l’incompiuto, l’immaturo
è in lui diventato maturità, sistema, consapevolezza. La
consapevolezza sua personale può diventare di tutti, è già
diventata di molti: per questo fatto egli non è solo uno studioso, è
un uomo d’azione; è grande e fecondo nell’azione come nel
pensiero, i suoi libri hanno trasformato il mondo, così come hanno
trasformato il pensiero.
Marx significa ingresso
dell’intelligenza nella storia dell’umanità, regno della
consapevolezza. La sua opera cade proprio nello stesso periodo in cui
si svolge la grande battaglia tra Tomaso Carlyle ed Erberto Spencer
sulla funzione dell’uomo nella storia. Carlyle: l’eroe, la grande
individualità, mistica sintesi di una comunione spirituale, che
conduce i destini dell’umanità verso un approdo sconosciuto,
evanescente nel chimerico paese della perfezione e della santità.
Spencer: la natura, l’evoluzione, astrazione meccanica e inanimata.
L’uomo: atomo di un organismo naturale, che obbedisce a una legge
astratta come tale, ma che diventa concreta, storicamente, negli
individui: l’utile immediato.
Marx si pianta nella
storia con la solida quadratura di un gigante: non è un mistico né
un metafisico positivista; è uno storico, è un interprete dei
documenti del passato, di tutti i documenti, non solo di una parte di
essi.
Era questo il difetto
intrinseco delle storie, delle ricerche sugli avvenimenti umani:
esaminare e tener conto solo di una parte dei documenti. E questa
parte veniva scelta non dalla volontà storica, ma dal pregiudizio
partigiano, tale anche se inconsapevole e in buona fede. Le ricerche
avevano come fine non la verità, l’esattezza, la ricreazione
integrale della vita del passato, ma il rilievo di una particolare
attività, il mettere in valore una tesi aprioristica. La storia era
solo dominio delle idee. L’uomo era considerato come spirito, come
coscienza pura. Due conseguenze erronee derivavano da questa
concezione: le idee messe in valore erano spesso solamente
arbitrarie, fittizie. I fatti cui si dava importanza erano
aneddotica, non storia. Se storia fu scritta, nel senso reale della
parola, si dovette ad intuizione geniale di singoli individui, non ad
attività scientifica sistematica e consapevole.
Con Marx la storia
continua ad essere dominio delle idee, dello spirito, dell’attività
cosciente degli individui singoli od associati. Ma le idee, lo
spirito, si sustanziano, perdono la loro arbitrarietà, non sono più
fittizie astrazioni religiose o sociologiche. La sostanza loro è
nell’economia, nell’attività pratica, nei sistemi e nei rapporti
di produzione e di scambio. La storia come avvenimento è pura
attività pratica (economica e morale). Un’idea si realizza non in
quanto logicamente coerente alla verità pura, all’umanità pura
(che esiste solo come programma, come fine etico generale degli
uomini), ma in quanto trova nella realtà economica la sua
giustificazione, lo strumento per affermarsi. Per conoscere con
esattezza quali sono i fini storici di un paese, di una società, di
un aggruppamento importa prima di tutto conoscere quali sono i
sistemi e i rapporti di produzione e di scambio di quel paese, di
quella società. Senza questa conoscenza si potranno compilare
monografie parziali, dissertazioni utili per la storia della cultura,
si coglieranno riflessi secondari, conseguenze lontane, non si farà
però storia, l’attività pratica non sarà enucleata in tutta la
sua solida compattezza.
Gli idoli crollano dal
loro altare, le divinità vedono dileguarsi le nubi d’incenso
odoroso. L’uomo acquista coscienza della realtà obiettiva, si
impadronisce del segreto che fa giocare il succedersi reale degli
avvenimenti. L’uomo conosce se stesso, sa quanto può valere la sua
individuale volontà, e come essa possa essere resa potente in
quanto, ubbidendo, disciplinandosi alla necessità, finisce col
dominare la necessità stessa, identificandola col proprio fine. Chi
conosce se stesso? Non l’uomo in genere, ma quello che subisce il
giogo della necessità. La ricerca della sostanza storica, il
fissarla nel sistema e nei rapporti di produzione e di scambio, fa
scoprire come la società degli uomini sia scissa in due classi. La
classe che detiene lo strumento di produzione conosce già
necessariamente se stessa, ha la coscienza, sia pur confusa e
frammentaria, della sua potenza e della sua missione. Ha dei fini
individuali e li realizza attraverso la sua organizzazione,
freddamente, obiettivamente, senza preoccuparsi se la sua strada è
lastricata di corpi estenuati dalla fame, o dei cadaveri dei campi di
battaglia.
La sistemazione della
reale causalità storica acquista valore di rivelazione per l’altra
classe, diventa principio d’ordine per lo sterminato gregge senza
pastore. Il gregge acquista consapevolezza di sé, del compito che
attualmente deve svolgere perché l’altra classe si affermi,
acquista coscienza che i suoi fini individuali rimarranno puro
arbitrio, pura parola, velleità vuota ed enfatica finché non avrà
gli strumenti, finché velleità non sarà diventata volontà.
Volontarismo? La parola
non significa nulla, o viene usata nel significato di arbitrio.
Volontà, marxisticamente, significa consapevolezza del fine, che a
sua volta significa nozione esatta della propria potenza e dei mezzi
per esprimerla nell’azione. Significa pertanto in primo luogo
distinzione, individuazione della classe, vita politica indipendente
da quella dell’altra classe, organizzazione compatta e disciplinata
ai fini propri specifici, senza deviazioni e tentennamenti. Significa
impulso rettilineo verso il fine massimo, senza scampagnate sui verdi
prati della cordiale fratellanza, inteneriti dalle verdi erbette e
dalle morbide dichiarazioni di stima e d’amore.
Ma è inutile l’avverbio
«marxisticamente», e anzi esso può dare luogo ad equivoci e ad
inondazioni fatue e parolaie. Marxisti, marxisticamente... aggettivo
e avverbio logori come monete passate per troppe mani.
Carlo Marx è per noi
maestro di vita spirituale e morale, non pastore armato di vincastro.
È lo stimolatore delle pigrizie mentali, è il risvegliatore delle
energie buone che dormicchiano e devono destarsi per la buona
battaglia. È un esempio di lavoro intenso e tenace per raggiungere
la chiara onestà delle idee, la solida cultura necessaria per non
parlare a vuoto, di astrattezze. È blocco monolitico di umanità
sapiente e pensante, che non si guarda la lingua per parlare, non si
mette la mano sul cuore per sentire, ma costruisce sillogismi ferrati
che avvolgono la realtà nella sua essenza, e la dominano, che
penetrano nei cervelli, fanno crollare le sedimentazioni di
pregiudizio e di idea fissa, irrobustiscono il carattere morale.
Carlo Marx non è per noi
il fantolino che vagisce in culla o l’uomo barbuto che spaventa i
sacrestani. Non è nessuno degli episodi aneddotici della sua
biografia, nessun gesto brillante o grossolano della sua esteriore
animalità umana. È un vasto e sereno cervello pensante, è un
momento individuale della ricerca affannosa secolare che l’umanità
compie per acquistare coscienza del suo essere e del suo divenire,
per cogliere il ritmo misterioso della storia e far dileguare il
mistero, per essere più forte nel pensare e operare. È una parte
necessaria ed integrante del nostro spirito, che non sarebbe quello
che è se egli non avesse vissuto, non avesse pensato, non avesse
fatto scoccare scintille di luce dall’urto delle sue passioni e
delle sue idee, delle sue miserie e e dei suoi ideali.
Glorificando Carlo Marx
nel centenario della sua nascita, il proletariato internazionale
glorifica se stesso, la sua forza cosciente, il dinamismo della sua
aggressività conquistatrice che va scalzando il dominio del
privilegio, e si prepara alla lotta finale che coronerà tutti gli
sforzi e tutti i sacrifizi.
Da «Il Grido del
Popolo», 4 maggio 1918, XXIII, n.719 ora in Scritti giovanili,
Einaudi 1958
Nessun commento:
Posta un commento