Essere di destra come di
sinistra richiede studio e capacità di maneggiare concetti che hanno
una loro complessa tradizione. Ma diciamolo: appena si semplifica,
andar giù per la china che porta a destra è assai più agevole che
restare a sinistra. Prendiamo Salvini: lui è pura destra e anche se
giurasse di non esserlo voi non riuscireste a credergli, tanto si
muove con naturalezza dentro pochi ma inequivocabili concetti. S’è
dato una fisionomia così marcata che, perfino quando sgarra, i suoi
fan sempre più numerosi esclamano: ah, che mossa abile. Prendiamo
invece Di Maio. È un sinisdestro, rimescola di qua, rimescola di là.
La conseguenza è che lui parla e voi pensate: bene; poi lui riparla
e voi ripensate: macché. Alla prova dei fatti, cioè, la
postideologia, il trasversalismo, rischiano di fruttargli solo una
fisionomia politica incerta. Tanto che mentre Salvini è ormai una
manna per la destra – leghista, berlusconiana, a cinquestelle –
Di Maio è in un bel guaio: se va alla sua destra sembra al servizio
di Salvini e se va alla sua sinistra trova facce storte. O peggio:
franose. Perché collocarsi a sinistra, in questi tempi duri,
richiede un esercizio permanente. E se ci si lascia andare, non si
diventa postideologici e trasversali, ma si comincia a dire: sì,
dimezzare le tasse, lavoro agli italiani, fuori i pezzenti stranieri,
una pistola in casa può servire.
Internazionale, 18 maggio 2018
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