Filama
è nel mio dialetto campobellese la calunnia, una falsa diceria
diffusa ad arte, e filinia è
la ragnatela. L'una e l'altra parola vengono da filu,
filo: la filinia perché
tessuta dal ragno con il filo che egli stesso produce; la filama
perché è un filu ca
camina. Non bisogna pensare in
questo caso a fili di cotone, lana o canapa da cucire e nemmeno a
fili d'erba, ma a un filo d'acqua, a un rigagnolo che si sposta in
avanti, può dividersi in due e – per successive divisioni –
moltiplicarsi, espandendosi in tante direzioni. Non il venticello
dell'opera lirica dunque, ma qualcosa che si muove sotto sotto, a
la 'nsutta 'nsutta, come in
Sicilia accade sovente.
Vale
qui la pena di rammentare uno dei nostri modi di dire con filu.
Aviri lu filu si usa certamente
in molte altre località siciliane: allude quasi dappertutto a quella
vena di follia che talora determina i comportamenti di persone
generalmente savie (la "corda pazza" di Pirandello nel Berretto a sonagli). Ma lu filu del
mio paese non è, nella maggior parte dei casi, di pazzìa,
ma piuttosto di babbìa
(la qualità dei babbei),
altrimenti detta lapìa,
la dolce stupidità che viene arbitrariamente attribuita alle api
(lapi), produttrici di
miele.
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