5.5.18

Il coraggio della filosofia (Mauro Bonazzi)

Il "Simposio" di Platone visto da David

Appare curiosa l’idea di Platone per cui ciò che più serve, per essere un vero filosofo, è il coraggio. Ancora più sorprendente è che questa tesi venga sostenuta nel bel mezzo di una discussione sull’amore, in quella notte di discorsi che fu il Simposio. È curioso, ma è così, e qualche ragione probabilmente l’aveva. Perché parlare dell’amore è un modo per parlare di noi, per capire chi siamo. E per capire chi siamo ci vuole coraggio.
Quando Aristofane aveva cominciato a raccontare la sua buffa storia, gli altri si erano messi a scherzare, ridendo di quei primi uomini con due facce, quattro gambe e quattro braccia — delle sfere, che seminavano figli nella terra e si muovevano rotolando. In realtà erano esseri perfetti, potenti e veloci; e avevano cercato di scalare il cielo. Per punizione sarebbero stati tagliati in due, «come uova o pere». Fu una punizione inattesa e dolorosa. Divisi, questi esseri si scoprirono incompleti, non facevano più nulla. Cercavano disperatamente la metà perduta; e se la ritrovavano, si lasciavano morire abbracciati, stretti nel vano tentativo di tornare uno da due che erano diventati. Morivano di desiderio. Così Zeus dovette intervenire una seconda volta, per salvarli. Comandò che i loro organi genitali venissero spostati all’interno: accoppiandosi gli uomini forse avrebbero trovato requie al loro dolore, tornando a vivere. In parte accadde. Ecco perché l’amore è così importante: ci salva. Ma non del tutto, perché l’inquietudine, in quelle sfere divise in due, rimase. Rimane tuttora.
Buffa quanto si vuole, la storia di Aristofane ci mette davanti a noi stessi: esseri imperfetti, mancanti. Per questo viviamo nel desiderio. Parlare di amore è dunque un modo per parlare di noi, e delle nostre mancanze. Un tempo — il tempo del mito e dell’infanzia, dell’innocenza e dell’ignoranza — eravamo completi, non ci mancava nulla, e stavamo bene. Adesso, però, è solo mancanza, e può affogare, come scriveva Eugenio Montale. Che cosa stiamo cercando, davvero? La metà perduta, certo. Ma come hanno insegnato Sigmund Freud e Marcel Proust nell’amore si è sempre in quattro: ci sono le persone fisiche e le loro proiezioni, i fantasmi che sempre ci accompagnano. Nella metà perduta cerchiamo noi stessi, quello che vorremmo essere e ancora non siamo. Cerchiamo quello che ci manca per essere noi stessi. Capire chi siamo, quale è il nostro posto nel mondo, e il senso che vorremo dare alla nostra esistenza: lì è il desiderio profondo. Per questo il coraggio è così importante: ci vuole coraggio per cercare sé stessi, riconoscendosi nei propri limiti e difetti.

“La lettura – Corriere della sera”, domenica 28 aprile 2018

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