16.5.18

Ninja e Samurai. Magia ed estetica dei guerrieri che affrontavano la morte senza paura (Luciano Del Sette)

Maschera ninja

Facciamo un piccolo gioco. Se diciamo ‘Samurai’, quali film vi vengono in mente? E se diciamo ‘Ninja’? Le probabilità che nel primo caso rispondiate con I sette samurai, Kagemusha l’ombra del guerriero, Rashomon, e nel secondo con la saga delle Tartarughe Ninja, sono molto alte. Il gioco appena proposto non è casuale. Perché proprio il cinema ha contribuito in maniera determinante a costruire l’aura leggendaria che, tanto nel mondo orientale quanto in Occidente, circonda queste due opposte figure di guerrieri giapponesi. Ed è stato il cinema, più di ogni altro moderno vettore culturale, ad aver conferito, nel nostro immaginario, diversa statura storica, sociale, epica a samurai e ninja. Nobili, coraggiosi, sprezzanti del pericolo, disposti all’estremo sacrificio, i primi. Misteriosi, spietati, infidi, occulti, i secondi. Ma davvero tali categorie si addicono loro fino in fondo?
La mostra in corso al MAO, Museo di Arte Orientale di Torino, Ninja e Samurai. Magia ed estetica, si è assunta il compito di raccontare come andarono veramente le cose, alle generazioni dei film di Akira Kurosava e a quelle delle tartarughe fumetto di Kevin Eastman e Peter Laird. La dichiarazione di intenti è tutta nel sottotitolo, che Daniela Crosella ribadisce in uno dei saggi introduttivi: «Magia ed estetica. Due sostantivi che costituiscono i più diffusi stereotipi riguardo le figure storiche di ninja e samurai. Termini scelti con l’intenzione di suggerire una dimensione fantastica per poter giungere, attraverso un percorso narrativo, ad una più attendibile conoscenza di queste figure che, esaurito il loro compito nella storia passata, esercitano un innegabile fascino nelle generazioni che si sono susseguite».
Il doppio ingresso virtuale da oltrepassare lungo la via della mostra apre altrettanti mondi che, pur generati dagli eventi di uno stesso Paese, appaiono a chi oggi li incontra incredibilmente distanti tra loro. Citando il sottotitolo, distanti nella magia che si creò intorno a imprese in un caso mitiche e nell’altro avvolte dall’oscurità; distanti nell’estetica delle discipline formative e rituali, dell’abbigliamento e delle armi da battaglia o da guerra clandestina. C’è poi una terza porta, dietro cui si nasconde il mondo dei Guardiani della pace. A partire dagli albori del diciassettesimo secolo e per quasi tutto il diciannovesimo, fuorilegge e tutori dell’ordine si affrontarono usando armi e tecniche mutuate dai ninja, cui i gendarmi aggiunsero lo strumento spietato della tortura.
Fonti della narrazione espositiva allestita negli spazi del MAO sono oltre duecento pezzi datati dal ’500 al ’900, provenienti dal museo stesso, dal Museo d’Arte Orientale di Venezia e da collezioni private. Alcuni compaiono pubblicamente per la prima volta. Nel mondo dei samurai entrerete tenendo a mente una citazione dallo Ujishui monogatari, Storie raccolte a Uji, racconto di autore ignoto scritto nei primi decenni del tredicesimo secolo, riferita a coloro che, ottocento anni fa, si chiamavano mononofu o tsuwamono, i guardiani del palazzo reale: «I giapponesi sono persone che non rimpiangono di perdere la loro vita, come la rugiada che svanisce all’alba». Il nome mutò poi in bushi, o samurai, senza toccare i valori fondamentali della fedeltà, dell’integrità morale, del coraggio, della maestria nell’impugnare la katana e, non ultimo, dell’affrontare la morte lontani da ogni paura. Guerrieri di nobili origini, al servizio dell’imperatore e dei kuge, i signori: questa l’idea comune del bushi. Ma, avverte Crosella: «La figura del guerriero giapponese è multiforme e sovente disomogenea: teoricamente il bushi dovrebbe provenire dall’aristocrazia, ma risulta palese che le battaglie non potevano essere combattute dai soli nobili».

Cimeli bushi
Quando, al termine del XII secolo, l’aristocrazia guerriera delle province andò imponendosi sui kuge e sulla corte imperiale, detenendo di fatto il potere per quattrocento anni, non erano certo uomini di alto lignaggio a costituire il grosso degli eserciti. Il vertice della casta militare egemone era comunque occupato da un nobile, lo Shogun, al quale sottostavano le varie classi di samurai. Shogun e sottoposti continuavano a seguire gli antichi valori, esaltandoli anche attraverso il teatro, la pittura a china, la poesia, la cerimonia del tè e coniugandoli alle arti militari. Un’ulteriore annotazione di Crosella diviene guida per ammirare con il giusto sguardo i cimeli bushi: «Possiamo leggere i periodi storici grazie allo stile e alla varietà delle armi, delle protezioni, delle armature, degli abbigliamenti… L’estetica prende contorni diversi in base alla funzione: semplice, rustica, efficace, ricca di riferimenti propiziatori a partire dalle epoche più belligeranti, e sempre più sontuosa, raffinata, fine, iconografica nei tempi di pace».
Così vanno visti i corredi da viaggio, comprensivi di un set per la cerimonia del tè; le spade e le else, le katane, il mobiletto porta spada, le lance, gli elmi, i pugnali, i falcioni. Per fermarsi, increduli, davanti all’armatura blu del periodo Edo: lacca, leghe metalliche, seta, cotone, lino, pelle, corno, crine. Quando gli occhi riescono a staccarsi da tanta meraviglia, colgono, dietro l’angolo, un’ombra netta e scura che si proietta su un muro. Benvenuti nel mondo dei ninja, popolato di Shinobi, gli uomini ombra; Onmitsu, gli agenti segreti; Monomi, gli osservatori; Ukami, le spie.
Tutto, in queste stanze, sembra voler sfuggire allo sguardo degli estranei. Qui non scintillano le katane, la luce non esalta i corredi guerrieri, dentro le vetrine non brillano argenti e lacche. L’ombra prima intravista su una parete appartiene a un’armatura che il buio rende quasi invisibile. Lega di ferro, cotone, lacca. Misera, se messa a confronto con la più spartana tra le armature bushi. Poveri sono le decine e decine di oggetti esposti. All’apparenza nient’altro che lame, dardi, punte, catene, barre di ferro, spade. All’apparenza, appunto. Perché i cartellini che accompagnano ciascuno di essi, aggiungono un aggettivo che lo trasforma in ben altra cosa. Il dardo è da lancio, come le stelle a quattro punte, a svastica, a losanga. Il falcetto è richiudibile, multiuso, con catena appesantita, da battaglia, da guerra. Il cilindro in ottone è un lanciadardi meccanico, la custodia per pipa è ‘con lama nascosta’, il bastone è ‘animato’. Poi gli artigli metallici, la corazza da mano, l’anello cornuto, i colpitori, i triboli, la chiave grimaldello, la lampada con giroscopio, il tritone da segnalazione, i talismani e il sonaglio buddhista con lama nascosta…

Le armi dei ninja
Le armi dei ninja erano i ninja stessi, le espressioni materiali di un concetto filosofico cinese, kyojitsu tenkhan ho, ben sintetizzato nell’introduzione di Giada Turtoro a questa parte della mostra: «… quell’insieme artefatto, cioè, di realtà e mistificazione, storie e leggenda, tradizione e adattabilità, che li ha resi (i ninja, ndr) evidentemente immortali se ancora oggi compaiono per un attimo sulla bocca di tutti, ma nessuno sa esattamente di chi o di cosa stia parlando». Una filosofia, il kyojitsu tenkhan ho, applicata dai ninja manipolando le informazioni, servendosi dell’inganno, della dissimulazione, di ipnosi e spiritismo; sovrapponendo verità e fantastico. Nel dizionario delle parole che appartengono al ninjutsu, l’apparato strategico, si incontrano kancho, spia; kikimonoyacu, addetto all’ascolto; rappa, confondere o distruggere; kagimono hiki, coloro che annusano e ascoltano. Il nome stesso, ninja (usato fuori dal Giappone, dove gli uomini di questo esercito oscuro erano chiamati shinobi), si traduce con infiltrato, ma anche con paziente e perseverante. Le origini dei ninja, più familiare a noi chiamarli così, non hanno una datazione precisa. La storia ne attesta l’attività clandestina forse a partire già dal tredicesimo secolo, certamente fra il quindicesimo e diciassettesimo, il turbolento Periodo Sengoku. Con l’unificazione del paese sotto lo shogunato Tokugawa (1603 – 1868) la fama dei ninja declinò, per divenire leggenda vicina alla superstizione nella seconda metà dell’800. L’origine del ninjutsu si fa invece risalire al celebre testo Sun Tzu sull’arte della guerra, redatto duemila e cinquecento anni fa. Punto di riferimento della bingjia, la più importante scuola di strategia della Cina antica, lo Sun Tzu accosta all’argomento principale indicazioni riguardanti la diplomazia, l’intelligence, l’economia e una ‘teoria della pace’, riassunta nella frase ‘Vincere senza combattere’ che sembra appositamente coniata per il futuro modus operandi del ninjutsu. Ulteriore fonte ispiratrice sarebbe stata, sempre dalla Cina, lo Yinshenshu, l’Arte della scomparsa del corpo. Ugualmente sconosciuto il periodo in cui questa somma di teorie arrivò nel paese del Sol Levante. Forse lo portarono alcune sette buddhiste sincretiche, che elessero a dimora ascetica e lontana dalla gente le montagne giapponesi. Scrive Turtoro: «Da qui, e dalla necessità di difendere queste piccole, umili comunità, sarebbero nati i primi shinobi che, con un tipo di ‘guerra asimmetrica’, garantivano la prevenzione di attacchi militari. Con il crescere di queste comunità e a causa della posizione strategica di alcuni passi di montagna, gli shinobi degli esordi furono costretti a mettere le proprie conoscenze al servizio di questo o quel daimyo (la massima carica feudale, ndr), così fornendo sostentamento al proprio clan e garantendogli inattaccabilità geografica». In cima alla piramide del clan ninja stava il jonin, il maestro, celato da identità segreta. Subito sotto, i chunin rivestivano un ruolo di comando e coordinamento nei confronti dei genin, i guerrieri. L’abilità nel saper agire senza essere visti, la micidiale capacità di colpire, la forza e la determinazione dei ninja nascevano da un complesso intreccio di pratiche spirituali ed esoteriche, ricerche in campo chimico e alchemico, ferreo addestramento fin dalla prima infanzia. Erano, questi, in parallelo, strumenti di sopravvivenza per un popolo ‘a parte’, temuto da una società dominante, che si serviva di loro per non sporcarsi le mani e al medesimo tempo li emarginava. Nessuno studio, compiuto o futuro, riuscirà a conferire ai ninja la certezza della loro esistenza. Ma, sostiene a ragione Giada Turturo: «Come in uno zenonico paradosso, affermandone la non esistenza si afferma l’esatto contrario: essi esistettero, e in forme nuove esistono, in virtù della propria ‘invisibilità’».
Lo shogunato Tokugawa elesse Edo, oggi Tokyo, sua capitale. La pace ristabilita dopo il Sengoku – jidai, il Periodo degli Stati combattenti durato un secolo e mezzo, favorì la crescita dei commerci e al medesimo tempo la migrazione di massa verso la piccola città. I lunghi decenni di guerra e la miseria avevano reso le classi inferiori ostili verso qualsiasi governo, alimentando disordini e rivolte. A difensori del popolo si eressero criminali di mezza tacca, i machiyakko (compagni di strada), che proteggevano i quartieri dai ladri, dai soprusi dei ricchi e dai samurai corrotti. Ovviamente non senza tornaconto. Le armi continuavano a circolare in abbondanza, a dispetto del decreto promulgato prima dell’avvento dei Tokugawa, che vietava ai cittadini il possesso di spade, archi, lance e quant’altro, con l’eccezione delle classi nobiliari. Erano armi nascoste dentro oggetti comuni, usate per difesa personale. Nuove leggi dichiararono tollerati coltelli e spadini, ma poiché non erano state fornite misure precise, i criminali giravano impugnando i wakizashi, lunghe e affilate spade. Si tentò di correre ai ripari imponendo lame che non dovevano superare i quarantacinque centimetri. Se ai samurai era concesso il privilegio di portare il daisho, la coppia di spade, il ruolo dei gloriosi guerrieri subì un radicale ridimensionamento. Quelli di rango elevato divennero funzionari amministrativi, mentre agli hatamoto e ai gokenin, di rango inferiore, non restò che trasformarsi in mercanti, manovali e, tutt’altro che di rado, in fuorilegge chiamati kabukimono per la stravaganza degli abiti. Loro acerrimi nemici erano i kyoaku, i cavalieri della strada. Kabukimono e kyoaku possono essere considerati i precursori della Yazuka, la mafia giapponese. In tale situazione si rese indispensabile ristabilire l’ordine con pugno ferreo. Nel corpo di polizia, comandato dai Machi–bugyo, commissari e magistrati, erano arruolati, tra gli altri, i Metsuke, agenti di spionaggio e controspionaggio; gli okkappiki, informatori; gli Yoriki, i tenenti, samurai a capo delle pattuglie; i Komono, attendenti a stretto contatto operativo contro la delinquenza. Questi ultimi non erano autorizzati a portare una spada, sostituita da strumenti di offesa e difesa non letali, almeno in teoria. La mostra ne offre un vasto campionario. Fra i tanti, lo jutte, manganello uncinato in ferro; lo hananeji, manganello semplice, il tessen, ventaglio in lega di ferro, il tenouchi, attrezzo in legno legato a una corda; il sokutoki, scatoletta contenente una miscela a base di peperoncino da soffiare sul viso del sospettato. Tre le dotazioni del ‘kit’ per gli arresti, il torimono mittsu dogu: sasumata, un forcone; sodegarami, un bastone con rostro; tsukubo, un’asta a T. I prigionieri venivano legati con la corda da cattura, hojo o torinawa, il cui utilizzo si apprendeva attraverso la complessa disciplina dello hojotsu. I nodi erano veramente impossibili da sciogliere, e il loro disegno indicava il tipo di delitto commesso.

Dei delitti e delle pene
Le condanne che i magistrati infliggevano ai colpevoli andavano dal minimo degli arresti domiciliari al massimo della pena capitale. Tra questi due estremi c’erano la confisca dei beni e l’esilio; l’ento. carcere; il tataki, pestaggio; il katairo e nagaro, lavori forzati e schiavitù. I condannati a morte venivano portati in corteo fino a Suzugamori, la piazza delle esecuzioni, e qui uccisi scegliendo tra varie e disumane opzioni. La più blanda era l’impiccagione. Stando ai registri dell’epoca, durante lo shogunato si arrivò a giustiziare duemila persone in un mese. Le confessioni potevano essere estorte tramite quattro tipi di tortura. Anche in questo caso, meglio sorvolare sulle crudeltà cui erano sottoposti i presunti autori di reati o chi era reticente nel fornire informazioni utili alla legge.


SCHEDA 
CINEMA NINJA


Non tutta di serie B la produzione cinematografica in tema di Ninja. Tralasciando i titoli di animazione e ispirati ai fumetti delle Tartarughe, va citato in primis Agente 007 Si vive solo due volte (1967), dove Sean Connery si addestra in una scuola ninja. Il primo film veramente ninjutsu è però The Octagon (1980), firmato da Eric Karson, con Chuck Norris e Lee Van Cleef. Un anno dopo, con L’invincibile ninja, Menahem Golan inaugura una fortunata serie che vede l’attore giapponese Sho Kosugi protagonista sullo schermo di spettacolari combattimenti. Nel 1982, John Frankenheimer, regista di pellicole come L’uomo di Alcatraz e Il braccio violento della legge, dirige Scott Glenn e Toshiro Mifune in L’ultima sfida. Fittissima la produzione di ninja movies in Oriente, generalmente di bassa o infima qualità. (lds)

“il manifesto” 10/03/2018

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