Vincenzo Vasile |
“InTRASFORMAZIONE”
(http://www.intrasformazione.com)
è la Rivista di Storia delle Idee dell'omonimo Centro Studi
palermitano. È patrocinata dall’Università degli Studi di Palermo
e diretta da Piero Violante, politologo e musicologo, a lungo docente
presso quella università e animatore in vari ruoli della vita
culturale palermitana.
Il I° numero del 2018, suo settimo anno, consultabile in rete, è assai ricco e contiene tra l'altro una sezione dedicata al Sessantotto nella capitale siciliana.
Il I° numero del 2018, suo settimo anno, consultabile in rete, è assai ricco e contiene tra l'altro una sezione dedicata al Sessantotto nella capitale siciliana.
Nella sezione, aperta da
un breve scritto di Violante (che non mancherò di “postare” e
proporre anche in questo blog), compare la “memoria” di un
giornalista palermitano, una colonna della grande “Unità”,
Vincenzo Vasile, che nel titolo allude al più celebre incipit di
Paul Nizan (Aden Arabia,
1931): “Avevo vent'anni, non permetterò a nessuno di dire che
questa è la più bella età della vita”.
A me – che qui la propongo – questa pagina pare intensa e ricca di risonanze, e non soltanto perché, tra tanti compagni e amici indimenticabili, evoca anche la mia partecipazione “canora” al Movimento, ma perché restituisce, vivi, stati d'animo e situazioni di cinquant'anni fa. (S.L.L.)
A me – che qui la propongo – questa pagina pare intensa e ricca di risonanze, e non soltanto perché, tra tanti compagni e amici indimenticabili, evoca anche la mia partecipazione “canora” al Movimento, ma perché restituisce, vivi, stati d'animo e situazioni di cinquant'anni fa. (S.L.L.)
La tessera della Fgci nel 1968 |
Lentini si affacciava sul
corridoio, corrucciato. Al nostro passaggio faceva il gesto di
mordersi la mano, e scherzava (siamo sicuri che scherzasse?): “Pazzi,
siete pazzi”, anzi: paffi, fiete paffi , però si capiva che gli
piacevamo. Come, a noi “matricole” di Filosofia che eravamo stati
sin dal 1965 tra i primi ospiti - frequentanti e poi occupanti -
della nuovissima palazzina rosa in fondo al viale delle Scienze (che
ancora ci si ostinava a chiamare Parco d’Orléans, alla
palermitana: "dorleàns", anziché "orleàn"), lui — il
socialista riformista Giacinto Lentini, professore di s(f)ociologia —
era assai simpatico.
Ci spiegò, con le sue
“s” sibilanti, che si poteva essere, o meglio: essere stati,
liberali, comunisti fino al ’56 per la rivolta di Ungheria, e
infine socialisti, “socialisti riformisti” - precisava - proprio
come lui che, appena incaricato dell’insegnamento a Palermo, aveva
trovato la Facoltà in preda ai bollori del Sessantotto. “La vostra
fortuna siamo noi, i socialisti al governo con i democristiani. Sennò
dopo la battaglia di Valle Giulia sareste già in galera, ma avete in
sorte per compagni di banco tutti i numerosi figli del ministro
dell’Interno. Una polizza di assicurazione: non vi sgombereranno
mai con la polizia”.
In effetti, quasi ogni
Facoltà dell’Università di Palermo, a quei tempi diffusa in più
sedi sparse in mezza città, a via Archirafi, alla Centrale, ad
Architettura, a Magistero, al Policlinico - vedeva tra gli studenti -
secondo questa scherzosa leggenda diffusa dal nostro prof. preferito
— almeno un figlio della cospicua prole del democristiano Franco
Restivo. Che oltre ai figli Raffaele a Giurisprudenza, Lucia e Chiara
a Lettere, Antonio in Fisica, allevava anche una maxipattuglia di
allievi e assistenti nel suo Istituto di diritto pubblico, al secondo
piano della “Centrale” di via Maqueda: e qui ricordo alla rinfusa
tra quelli di sinistra più anziani Enzo Sellerio prima di diventare
grande fotografo ed editore; e tra quelli di centro Sergio
Mattarella, e i giovani (ma più vecchi di noi) Sergio D’Antoni e
Vito Riggio, che con il Luigi Cocilovo erano i leader dell’Intesa
(cioè in sostanza gli universitari democristiani). Leoluca Orlando,
altro giurista dc, non me lo ricordo, ma ha sempre detto che studiava
a Heidelberg in quel fatidico periodo di svolta.
Alcune lezioni con
frequenza obbligatoria si tenevano in altre sedi, “Storia
medievale” ad Architettura in via Maqueda, “Psicologia”
all’istituto di Medicina legale del Policlinico alla Feliciuzza,
con il vulcanico Gastone Canziani che entrava in aula mentre ne
uscivano le barelle con le salme sulle quali aveva appena svolto la
sua dissertazione un sorridente Ideale Del Carpio.
Ci si perdeva, anche
quelli del terzo e quarto anno, alle prese con la topografia ancora
sconosciuta della nuova sede del parco d’Orléans: “Filologia
romanza è al terzo piano?” “Macché, … non so, forse.. .chiedi
al bidello”. E c’era la fiera permanente della parola e
dell’acronimo misterioso: statino, Opera, giunta Unuri, elezioni
Orup. Esistevano ancora, quand’eravamo entrati all’Università,
gli “organismi rappresentativi”; all'Orup (organismo
rappresentativo universitari di Palermo), capolista per il Fuan,
l’organizzazione degli universitari di destra egemonizzata
dall’Msi, nelle mie prime e ultime, svogliate elezioni
universitarie del ’66, era un giovane e ombroso laureando in
Giurisprudenza, l’“indipendente” Paolo Borsellino. L’Unuri
(Unione Nazionale Universitaria Rappresentativa Italiana), il
parlamentino nazionale che aveva fatto da palestra per i gruppi
dirigenti dei partiti, con Craxi, Occhetto, Pannella, non lo
sapevamo, ma stava per sciogliersi: lo fece, senza guadagnarsi troppe
righe sui giornali a fine anno, autoimplodendo travolto dal
“movimento”. Movimento con la m maiuscola, che fu la scelta
naturale e obbligata per gli universitari figgiccini di Palermo,
cresciuti nei licei a pane, Ho Chi Minh e Che Guevara; e giusto in
quei mesi di fine ’67 la grande foto listata a lutto del
Guerrillero heroico, pubblicata da Feltrinelli andò a ruba alla
libreria “Nuova presenza”, l’unica attrezzata alla vendita
rateale, per noi ovviamente preferita. Quello stesso poster, rubato
da qualcuno mosso da passione politica, sparì anche dalla bacheca al
piano terra in Facoltà. Sicché lo rimpiazzammo con la copertina del
quindicinale della Federazione giovanile comunista, “Nuova
generazione”, che vedeva in primo piano stilizzato il volto del Che
immortalato nello stesso “scatto” di Alberto Korda, senza
provocare sussulti settari degli altri colleghi, in assenza di
alternative disponibili.
Sempre riguardo ai
preparativi del Sessantotto, circolava da tempo aria di rottamazione
delle generazioni di dirigenti studenteschi (questo era il termine)
per anagrafe subito precedenti la nostra: un giorno ci comunicarono
da Roma che Gianni Puglisi, ex-segretario dei giovani palermitani del
Psdi saragattiano, per accordi nazionali, essendo avvenuta la fusione
fredda di Psi e Psdi, avrebbe presieduto la sede di Palermo dell’Ugi,
unificandosi per l’occasione con una piccola formazione locale di
“laici”, detta Nuova Goliardia. Non ci fu il tempo per rigettare
l’unificazione e il suo alfiere locale con un contro-tesseramento
di sinistra, cui demmo vita noi della Fgci, la Fgs del Psiup con
Corradino Mineo, gli emmeelle (marxisti-leninisti) delle facoltà
scientifiche, che arrivò il Sessantotto, come a liberarci da un
peso. Evaporata l’Ugi, Puglisi ce lo ritrovammo in assemblea a
votare persino uno dei primi documenti dell’epoca della
contestazione.
I documenti dell’Ugi -
l’ultimo congresso s’era svolto a Rimini - letteralmente
incomprensibili, furono sostituiti dai materiali egualmente
logorroici, ma abbastanza più chiari delle altre Università
occupate. Testi essenziali, spesso citati, ma poco letti, bisognava
andare a prenderli. Non c’era Whatsapp, anzi nella rete telefonica
nazionale ancora neanche funzionava integralmente la teleselezione e
per raggiungere alcune città si passava dal centralino. Uno dei
primi atti dell’assemblea di Lettere occupata a febbraio fu quello
di incaricare un drappello di noi di andarsene in treno fino a Torino
anche per “ritirare” — così qualcuno scrisse nella mozione
finale approvata per acclamazione — gli elaborati dei “compagni
di palazzo Campana”, oltre che per partecipare al primo convegno
nazionale del Movimento Studentesco: le parole Movimento e
Studentesco le scrivemmo da subito, naturalmente, con le iniziali
maiuscole nei nostri manifestini. Ricordo che i “compagni —
corrieri” partirono per Torino, non so quando tornarono.
Prim’ancora che la delegazione fosse di nuovo a Palermo, uscì un
numero speciale della rivista “Quindici” con il manifesto
integrale “contro l’autoritarismo accademico” di palazzo
Campana, che potemmo tranquillamente saccheggiare per i nostri
documenti senza attendere il ritorno dei nostri messaggeri.
“Tutto il potere alle
assemblee studentesche”, lo slogan spazzatutto nato a settembre
1967 proprio a Torino, campeggiava in testa alla mozione di Lettere
occupata, illustrata da Attilio Mangano, un coltissimo e brillante
ex-socialista, neolaureato con una tesi sull’eresia politica e
culturale del Politecnico di Elio Vittorini. E l’assemblea era il
luogo dove le vecchie strutture studentesche e accademiche
evaporavano, spesso rovinosamente e talvolta gioiosamente (per gli
astanti): in quell’Aula magna molti di noi impararono i rudimenti
della nuova politica; anzitutto apprendemmo qualche cosa sul parlare
in pubblico, provavamo a discutere senza paura di sconfinare
nell'eterodossia politica, votare, decidere, facendo precipitare
comete più o meno splendenti e carriere politico-accademiche che
sembravano in precedenza già tracciate dalle organizzazioni
tradizionali della sinistra e dalla vita universitaria.
In centinaia eravamo alle
assemblee e nelle “commissioni”, contai a Lettere una presenza
fissa di quattrocento posti a sedere più altrettanti all’in piedi,
ma la sera i più si squagliavano. Una di quelle notti, quando a me
toccava di definire faticosamente i turni per il presidio della
Facoltà, mi capitò l’incontro imprevisto con “un compagno della
provincia”, che mi era sembrato sempre misteriosamente taciturno:
un “emmeelle” di Cinisi, Peppino, il cognome non riuscivo a
ricordarlo. “Posso venire anch’io stasera”... non capii che
c’era il punto interrogativo a fine frase, cioè che si trattava
della goffa richiesta di un permesso a partecipare alla lotta: “Posso
dormire anch’io in Facoltà stanotte?”. “Peppino, che ti
prende? un cinese chiede a un revisionista come me il permesso di
occupare? Ti metto in cima all’elenco delle prossime serate di fine
settimana; dunque, aspetta che scrivo il tuo cognome, Peppino.”
“.Giuseppe Impastato”, era lui il timido fuorisede.
Il settarismo e lo
scontro ideologico, il culto della violenza sono fenomeni degli anni
successivi, il Sessantotto fu gioiosamente anarchico, assai poco
violento; quelli furono semmai i frutti avvelenati di ciò che si
chiamò “riflusso”, ed è curioso ricordare come questo termine
fosse evocato “in diretta” già allora in alcuni nostri
documenti; se non sbaglio, un “controcorso” sul “pericolo del
riflusso” fu realizzato a fine anno in uno dei box al piano terra
della Facoltà.
Il Sessantotto nei miei
ricordi è un lago vulcanico termale in ebollizione. Da Lettere
mettemmo su una specie di squadriglia rossa che andava in aiuto dei
comitati studenteschi che faticavano sul piano organizzativo a tenere
su la baracca dei presidi studenteschi nelle facoltà occupate, e
soprattutto noi “giovani comunisti”, cercammo di diffondere il
movimento nelle scuole. Era da poco uscita una relazione della
Commissione antimafia sugli imbrogli e gli affari mafiosi
sull’edilizia scolastica: nelle scuole c’erano doppi e tripli
turni perché la programmazione di nuovi edifici era pilotata dagli
interessi dei costruttori protagonisti del sacco di Palermo,
ristampammo in foto copia il testo satirico La banda di Palm city,
pubblicato dal Pci per una campagna elettorale degli anni precedenti,
nel quale il gruppo dirigente della Dc palermitana - Lima, i
Ciancimino — veniva trasformato in una gang mafiosa, capeggiata dal
senatore MacLime e dal gestore cinese di una lavanderia, Chan Chai
Minh, protagonisti di un “giallo vero” dalla copertina con il
cerchio rosso di Mondadori. In un corteo, noi di Lettere, lanciammo
un coretto che scandiva: “Ciancimino/ al confino”, profezia del
soggiorno obbligato che gli sarebbe stato comminato da Falcone solo
tanti anni dopo.
Il record di assenze lo
raggiunse, invece, una commissione voluta da un collega
“indipendentista” nonché “marxista leninista” che
riproponeva una versione insurrezionale separatista e di sinistra del
movimento capeggiato nel dopoguerra da Finocchiaro Aprile.
E a Lettere si tennero le
affollatissime assemblee dell’Interstudentesco che coinvolsero poi
tutte le facoltà nel Movimento. A Palermo la dialettica era tra noi
della Fgci e il gruppo più cospicuo che di lì a poco aderirà al
Manifesto, capeggiato da Corradino Mineo, anche lui di Filosofia,
tribuno efficace e bella testa, con la politica nel sangue, suo zio
Mario nel dopoguerra era stato tra i rifondatori della sinistra
siciliana. In quei mesi gli universitari comunisti si riunirono nella
scuola Cgil di Ariccia, relatore Giulietto Chiesa, conclusioni di
Giovanni Berlinguer. Scoprimmo che con Pisa e Roma, Palermo era una
delle rare sedi universitarie nelle quali i comunisti stessero ben
radicati dentro al movimento, gli altri teorizzavano e praticavano in
genere una specie di malmostoso Aventino. A Pisa c’erano due
brillanti giovani molto di sinistra, Massimo D’Alema e Fabio Mussi.
A Roma un corpulento e focoso Giuliano Ferrara, figlio del direttore
dell’Unità e della ex segretaria di Togliatti, pronunciò
l’intervento più movimentista, rivendicando la partecipazione alla
battaglia di Valle Giulia.
I professori a Palermo ci
delusero, quasi tutti. Eppure quelli erano stati, anche per merito
loro, anni di disordinate e onnivore letture. Armando Plebe in
particolare ci aveva introdotto alla “teoria critica” della
scuola di Francoforte, spingendoci a leggere - appena uscita, nel
1966 - la Dialettica dell'illuminismo, e soprattutto
indicandoci la strada di un impasto tra Marx, Freud e lo
strutturalismo per mettere in discussione, tra l’altro, i dogmi
dell’industria culturale. Andavamo a cinema voracemente, e i miei
ricordi, mezzo secolo dopo, sono frammentari e spiazzanti come un
film dell’allora idolotrato Jean-Luc Godard; all’opposto della
barzelletta di Paolo Villaggio sulla Corazzata Potemkin ci
appassionavano i film sovietici letti attraverso la Critica del
Gusto di Galvano Della Volpe, testo di riferimento del corso
monografico di Estetica di Plebe, e il saggio sul “verosimile
filmico” pubblicato da Edoardo Bruno, incaricato di storia del
teatro e dello spettacolo. Per dire della concreta base di verità
che aveva la nostra contestazione dei “piani di studio” e
dell’organizzazione didattica, il Consiglio di Facoltà mi
costringerà a buttare via una tesi di laurea già mezzo scritta su
Ejzenstein e i formalisti russi, perché noi di Filosofia non
potevamo laurearci in materie ritenute semmai attinenti al corso di
Lettere moderne.
Nel Partito c’erano
resistenze, ma il segretario della Federazione era il più amabile e
il più aperto dei “destri”, si chiamava Pio La Torre, e ci
chiamava paternamente :“i nostri picciotti”. Vincemmo l’ostacolo
di una specie di veto dei gruppi alla diffusione in Facoltà dei
giornali di partito, quando vendemmo un botto di copie dell’”Unità”
con la notizia che il Movimento studentesco romano per le elezioni
politiche aveva scelto di indicare la “scheda rossa”, cioè il
voto all’opposizione di sinistra, Pci e Psiup. Era il coronamento
di una serie di contatti, tra i quali il più importante un incontro
del segretario Luigi Longo con una delegazione di studenti della
Sapienza, tra cui Oreste Scalzone. Uno dei figgiccini —
sessantottini di Lettere a Palermo, fu Totò Lo Leggio, con il suo
vocione intonatissimo ci regalò quell’anno un repertorio infinito
di canti popolari siciliani. Ora sul suo blog ha ricordato
l’importanza dell’episodio, spesso sottaciuto: “Dell’incontro
non fu pubblicato un resoconto, ma qualche giorno dopo, il 3 maggio,
uscì su “Rinascita” l’articolo di Luigi Longo, di grande
apertura, che correggeva le diffidenze di Giorgio Amendola, a sua
volta bersaglio di tante critiche da parte di noi giovani comunisti,
in prevalenza di simpatie ingraiane. Amendola, fino ad allora, si era
limitato a qualche frecciata all’interno di articoli e discorsi;
solo il 3 giugno, ad elezioni archiviate, Amendola avrebbe condensato
le sue posizioni in un articolo “antiestremista” sulla "lotta
su due fronti", di taglio stalinista, che di fatto scomunicava
il grosso del “movimento” e avrebbe suscitato forti reazioni
critiche anche all’interno del Partito (tra gli altri Lucio
Lombardo Radice, Davide Lajolo, Rossana Rossanda, Ottavio Cecchi). Le
elezioni peraltro si conclusero con un grosso successo delle sinistre
di opposizione”.
Dimenticavo, il ’68 fu
anche l’anno del mio primo voto, confesso: emozionante. E si chiuse
con una strage. Da Avola a Palermo ci volevano sei ore di macchina,
ma l’eccidio dei braccianti da parte della polizia fu come una
scossa. In Facoltà ci dividemmo, forse la prima volta seriamente: a
Milano Mario Capanna aveva circondato e contestato la Prima della
Scala, che non s’era fermata. Noi della Fgci volevamo fare
altrettanto al Teatro Massimo che inaugurava con La Straniera
di Bellini. Fu una serata di tensione che il “Giornale di Sicilia”
definì un’orgia di violenza e vandalismo. Quando Pio scoprì che i
suoi “picciotti” di Lettere e Filosofia avevano scavalcato a
sinistra i gruppi “extraparlamentari” e organizzato la protesta
non la prese bene, diciamo. Un raffinato melomane in Facoltà
filosofeggiò l’indomani che avevamo sbagliato opera, che forse La
Fanciulla del West di Puccini sarebbe stata più appropriata -
con i banditi, i minatori, le risse sanguinose, le sparatorie, le
bufere di vento, la nostra durissima manifestazione -, per chiudere
un anno tra i più tempestosi.
PS. Nel novembre 1968 era
caduto il mio ventesimo compleanno, e — forse lo avete intuito -per
come andò quell’anno, sull’argomento la penso in maniera
assolutamente opposta a quella del citatissimo scrittore francese
Paul Nizan: “Non permetterò a nessuno di negare che questa è la
più bella età della vita”.
“InTRASFORMAZIONE”,
Rivista di Storia delle Idee, Palermo, Vol. VII° N.1 - 2018
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