4.5.18

L'inventore di Nero Wolfe. Rex Stout da bambino prodigio a fabbricante di best seller (Aurelio Minonne)

Rex Stout

Nasce nell’Indiana, il 1° dicembre 1836, da genitori quaccheri da cui erediterà un'aria ieratica e una barba caprina. Studia nel Kansas e a tredici anni, divorati, senza sintomi apparenti d’indigestione, i milleduecento volumi della biblioteca paterna, vince un campionato d’ortografia. Nessun editore ne tenne, verosimilmente, conto. E così, troppo vivace per sottoporsi alla metodicità degli studi accademici, troppo estroverso per accontentarsi di scambiare chiacchiere e ingiurie solamente col fornaio di Topeka, va a vendere sigari a Cleveland, accompagna i curiosi nei pueblos Intorno a Santa Fé, si dà al commercio di cesti indiani ad Albuquerque, fa il cicerone a Colorado Springs, mette la cravatta del commesso di libreria a Chicago e New York. Va militare in Marina — guadagnandosi i galloni di ufficiale perché mancava il quarto a un tavolo di whist — ma non dura più di due anni; pensa di far l’avvocato, ma finisce per vendere collaborazioni a giornali e riviste. Finché, ricordandosi d’essere stato un genio, inventa un sistema di risparmio bancario per studenti, con sportelli che si aprono a centinaia in tutti gli States, e diventa ricco, ricchissimo. Vola a Parigi, di cui riporta in patria l’odore eccitante di certa avanguardia, costruisce casa al confine tra il Connecticut e New York e comincia seriamente a scrivere.
Ma Rex Todhunter Stout — è sua la biografìa appena tracciata — comincia a scrivere troppo seriamente. Il 1929 porta all’America una crisi economica di cui nessuno può dissimulare la gravità, e un romanzo di Stout, How like a God (in Italiano, da Sellerio, Due rampe per l'abisso, di cui ciascuno ha potuto apprezzare, senza traumi né rimorsi, l’indifferenza alle sorti, non tanto dell’America, quanto della letteratura nella sua generalità. Né bastò l’appassionata difesa dello studioso Joseph Warren Beach, che ne fece un modello della tecnica letteraria del primo Novecento, a convincere il pubblico a seguire con attenzione l’impegno del maturo narratore dell’Indiana. Soprattutto non convinse Stout, che piazzò altri tre romanzi nel mercato dei saldi della letteratura maggiore ed enunciò la fondamentale regola del best-writer (autore di best seller) “chi non ha la stoffa del romanziere, s’accontenti di fare il narratore”. Alle ortiche l’arte, dunque, e avanti a tutta birra nell’artigianato creativo.
Se l’arte può anche essere incompresa, ché, prima o poi, qualcuno le renderà il giusto merito, l’artigianato non ha senso alcuno senza successo: per forzarlo, Stout sceglie un genere di enorme favore popolare, la detective story. Oltreoceano dicono Business Is Business per significare che talvolta si può scendere a patti con la propria coscienza in nome della ragione economica, e ai suoi affari pensò Stout respinto dalla porta principale, nel tempio delle lettere entrò dalla porta di servizio usando il grimaldello più efficace. Oggi, a un secolo dalla nascita e a un decennio dalla morte, veste ancora i panni riveriti del grande sacerdote. Ha creato uno dei personaggi indelebili della mitografia gialla: Nero Wolfe, un cervello di prim’ordine e un palato ancora superiore iniettati in un settimo di tonnellata di muscoli e, prevalentemente, di grasso.
Pensare Stout separato da Wolfe è impresa ardua. È vero: nel suoi romanzi non sempre Wolfe fa da padrone. Talvolta i protagonisti si chiamano Tecumseh Fox, Alphabet Hicks, Teodolina Bonner e, persino, Ferguson Cramer (già, in Fili rossi, proprio l’ispettore Cramer risolve da solo un caso di qualche difficoltà). Ma, pur non disconoscendoli, è a Wolfe e alla sua folta truppa di comprimari che Stout ha dedicato le maggiori e, senza dubbio, le migliori energie.
Diversi nel fìsico, nelle relazioni private, nell'intraprendenza sociale, Stout e Wolfe sono simili nell’amore per la cucina e la botanica, nell’odio per la televisione e i maneggioni della politica, nella passione per la polemica e il duello In punta d’apostrofo. Dove, poi, si sovrappongono addirittura è nel considerare il lavoro un male necessario per assicurarsi beni, servizi e opportunità altrimenti inaccessibili. Chi abbia qualche conoscenza delle storie di Nero Wolfe, sa che uno dei doveri per i quali Archie Goodwin, il suo portaborse, è pagato, consiste nello stimolare il suo principale, neghittoso e sfuggente, ad accettare incarichi di lavoro. Stout non paga un buttafuori, ma dichiara con rritante candore: “In tutta la mia carriera di scrittore ho iniziato ogni romanzo il 10 o il 12 di gennaio e l’ho finito in 39 o 40 giorni. Il resto dell’anno leggevo, discutevo, giocavo a scacchi e facevo un sacco di altre cose». Ai geni si perdona anche l’improntitudine, così come a Wolfe e alle sue storie si perdona l’uniformità degli schemi e l'insignificanza delle trame.
Tino Buazzelli nei panni di Nero Wolfe
Dove sono allora i suoi meriti, dov’è allora il suo fascino? Non vorremmo peccare di presunzione, ma una storia di Wolfe è simile alla replica di un testo del teatro No giapponese; che importa conoscerne sviluppi ed esiti quando il suo pregio, ciò per cui si baratta parte del proprio tempo e del proprio denaro, è il modo in cui è interpretato, la trasgressione regolata e appena percettibile di un passaggio, di una consuetudine, di una norma d’usucapione? Così è Nero Wolfe, attore imprevedibile della stessa performance per oltre quaranta romanzi, consumato guitto che dichiara di seguire stili e regole solide e invarianti, per violarle appena in modi e momenti inattesi, generatori di tensione ora drammatica ora, assai più spesso, sapidamente e irrefrenabilmente comica.
Merito di un narratore di solido mestiere, campione d'ortografia in gioventù e di sintassi in età più avanzata, capace di crearsi un personaggio, una maschera e uno stile inimitabili. Tanto inimitabili che qualcuno, come accade al grandi del giallo (Sherlock Holmes e James Bond, ad esempio), ha provato invece ad imitarli. Il Giallo Mondadori n. 1957, uscito in estate, s’intitola va Nero Wolfe: delitto in mi minore. Non era un palinsesto sbucciato, né un Inedito raccolto in bottiglia al largo di Miami Beach. Era un apprezzabile tentativo di tale Robert Goldsborough di ridare voce a Rex Todhunter Stout. Ne seguiranno altri.

L'Unità, 30 novembre 1986

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