Da “Le reti di Dedalus” riprendo
ampi stralci di una conversazione di Alberto Scarponi con Antonio Tabucchi,
un’intervista bellissima. Il testo risale al 1999 e fu originariamente
pubblicato su “Lettera Internazionale”. (S.L.L.)
[...] Depistante Tabucchi lo era in parecchi sensi: era un toscano quasi
strapaesano, ma raccontava del Portogallo; raccontava del Portogallo, ma
parlava di noi italiani; parlava di noi, ma cercava di vedere (più che sentire
o capire) la vita tutta. Poi, ammmirava notoriamente Pessoa, ma gli piaceva
Gadda, che però letterariamente non seguiva. Notissimo come scrittore di
racconti e romanzi (chi non ha letto Sostiene Pereira o, prima ancora, Piazza d’Italia?), trascorreva le sue giornate in disparte tra il paese quasi natale
(«quasi», perché Tabucchi era nato a Pisa, e ci teneva), tra Vecchiano, Firenze
e Siena, nella cui università insegnava letteratura portoghese. Filologo
romanzo, dunque, che andava percorrendo da sempre una pacata carriera
universitaria, era però anche inquieto uomo di lettere che ansiosamente
guardava al ‘Parlamento degli scrittori’, allora esistente a Strasburgo e
Parigi, perché «la parola letteraria», come mi diceva, libera e perturbante
doveva avere una sede istituzionale da cui esercitare funzioni d'intervento
nella vita dei popoli e delle persone.
Effettivamente privo di pista, io a questo punto cercai un terreno
solido e, avendo in mente che poteva confidarmi il titolo di un nuovo romanzo o
almeno di un racconto, gli chiesi che cosa avesse scritto di recente.
Tabucchi tranquillo rovesciò l’ovvia aspettativa così:
Ho fatto una specie di
vagabondaggio riflessivo intorno a un mio libro, Requiem, scritto in portoghese nel 1991 e questa riflessione è ora
uscita sulla Nouvelle Revue Française. L’alloglossia
in letteratura… ho riflettuto su questo tema muovendo dalla mia esperienza
con quel libro. Che ha avuto origine da un sogno in cui avevo ascoltato una
voce che parlava in portoghese. Così mi sono domandato che cos’è «la voce» e,
cercando, ho incontrato un libro straordinario, La vive voix di Fónagy. Ivan Fónagy per esempio parla della «mimica
glottale»: dice che il suono della voce è un gesto nello spazio, un gesto
fonico, che dunque ha suoi modi d’essere diversificati a seconda delle lingue e
delle persone, un po’ come la langue e la parole di Saussure: cioè, per
emettere un messaggio di tenerezza o di ira o di disapprovazione la voce umana
ha una tonalità che appartiene solo a quella voce, una sorta di impronta fonica
invece che digitale, e inoltre ogni lingua ha un suo diverso tono. Quindi un
messaggio di tenerezza in portoghese avrà una curva tonale diversa da un simile
messaggio in giapponese, in ungherese, in italiano; inoltre il parlante avrà la
sua curva tonale personale.
Dunque in letteratura accanto al gioco semantico dei vari significati
di una parola e di una frase ci sono i giochi fonici, i giochi del
significante, che includono per così dire i movimenti corporei della voce?
Sì, ma comunque, il mio è stato
un libero vagabondaggio a esplorare terreni ignoti. Per esempio, sono arrivato
anche nei pressi del Circolo di Praga dove il russo Kartsevskij aveva detto che
qualsiasi messaggio vocale ha un ritmo biologico, ha cioè una nascita, una
crescita, una permanenza e poi un processo di esaurimento, fino alla morte,
perché è cadenzato sul respiro e il respiro è un ciclo biologico.
Si possono costruire molti castelli teorici, vagabondando a questo
modo. Ma la scelta di scrivere Requiem
in portoghese ha a che vedere con la sua esperienza di vita?
Certamente, ha a che vedere con
l’esperienza vissuta, ma soprattutto italiana. Sì, la mia famiglia per metà è
portoghese, lo è mia moglie, quindi la mia vita è intrecciata con il Portogallo,
tuttavia io parlo il porgoghese da alloglotta, non da bilingue, l’ho imparato
da grande, avevo oltre vent’anni…
Già, ma perché ha imparato il portoghese?
È stato casuale, come spesso
nella vita. Le racconto: nel 1964 trascorsi circa un anno a Parigi, perché, non
avendo intenzione di iscrivermi all’università, ero molto indeciso su cosa fare
nella vita…
Beh, mi pare assai positivo che un giovane, nel decidere di essere
indeciso, decida di andare Parigi.
Sì, a Parigi. Dove, per
sopravvivere, finii alla città universitaria, ma a lavare i piatti. Così
ottenni una stanza e solo allora mi iscrissi come auditeur libre… che per me costituiva in sostanza una carta di
credito da usare nella corrispondenza con la famiglia. «Che fai a Parigi?»
«L’auditeur libre alla Sorbonne». Dava un tono alla cosa. Anche se poi in
realtà seguivo qualche lezione di filosofia…
Di chi?
Di Jankélévitch. Ma non lo sapevo
che era importante. Mi piaceva la filosofia e seguivo le lezioni di filosofia.
Tutto qui. Ma poi, essendo auditeur libre, facevo quello che volevo, quindi seguivo
anche lezioni di critica e di storia dell’arte. Dopo quasi un anno di questa
vita indecisa, pensai di tornarmene a casa, dove orientativamente mi sarei
iscritto all’università e probabilmente a Lettere. Andai dunque a prendere il
treno alla Gare de Lion e lungo la strada mi fermai a comprare qualcosa da
leggere per il viaggio: mi capitò tra le mani un libretto che, intanto, costava
poco, e questo era già un buon motivo per acquistarlo, ma inoltre aveva un titolo
bizzarro, Bureau de tabac. Un
poemetto in francese con testo originale a fronte in tema di tabaccheria era
decisamente attraente, quantunque l’autore, Ferdinando Pessoa, mi fosse del
tutto sconosciuto. Quindi lo comprai e lo lessi. Arrivato a casa, effettivamente
mi iscrissi a Lettere e, poiché mi interessavano le cose soprattutto francesi,
ma anche spagnole, decisi per Filologia romanza. Lì vidi che c’era anche un
insegnamento di portoghese e lo scelsi. Poi la vita ha fatto il resto.
Quel libro è stato come un segno del destino.
Certo. Tuttavia... un libro può portarti in un paese, però non è
sufficiente per fartici restare. Ci vogliono le persone.
Allora possiamo sfatare la leggenda metropolitana, se esiste, che lei
in realtà sia un portoghese sotto la parvenza di scrittore italiano.
No, no. Io sono nato a Pisa, dove
del tutto normalmente ho fatto l’università laureandomi in Lettere, con una
tesi in quella zona di studi di Filogia romanza che possiamo chiamare
lusitanistica. Successivamente ho avuto una borsa di studio di specializzazione
della Scuola Normale di Pisa e, nella più piena normalità, ho seguito la
carriera universitaria.
Ora insegna a Siena?
Sì, a Siena. Come scrittore ho
esordito tardi, prima ho pubblicato i miei studi di filologo romanzo, cosa che
continuo a fare anche adesso: è il mio lavoro universitario… Solo nel 1975 è
uscito il mio primo libro di narrativa, quando avevo già 32 anni.
È stato Piazza d’Italia?
Sì. Ma ero già «assistente
stabilizzato» e professore incaricato…
Di quale materia?
Sempre di Letteratura portoghese.
E diventare scrittore non rientrava nei miei piani. Infatti scrissi Piazza
d’Italia, nel 1973, un po’ per me, per divertirmi… Era d’estate, stava per
nascere mia figlia, non dovevamo allontanarci, faceva un caldo diabolico, e io,
in casa, in attesa dell’evento, mi sono tenuto compagnia scrivendo.
Sembra un libro che si rifaccia a una tradizione orale. Si trattava di
storie che lei aveva già sentito raccontare?
In effetti è una storia immersa
in mie memorie infantili. Piazza d’Italia
è un collettore di racconti ascoltati nel mio paese, nel paese dove sono
cresciuto… In realtà, io sono nato a Pisa, ma sono cresciuto a Vecchiano, dove
ho passato l’infanzia nella casa del mio nonno paterno. Per questo in quel libro
c’è un’eco dell’oralità paesana e della sua epica locale: le vicende della
prima guerra mondiale che sentivo ricordare, le storie del periodo successivo
che ascoltavo da mio nonno antifascista, in più c’era poi l’atmosfera di quella
zona costiera della Toscana che ha profonde tradizioni mazziniane e anarchiche.
È, insomma, l’epica che fa parte delle radici, come si chiamano queste cose.
Ma, come ha detto, questo scrivere non era esplicitamente destinato al
vasto pubblico, era per sé e forse per gli amici.
Infatti arrivò ad essere
pubblicato a causa di un amico. L’avevo fatto e lasciato lì, senza altri
pensieri. Poi un giorno venne a pranzo un amico, Nanni Filippini…
Il cui nome pubblico era Enrico, se non vado errato.
Sì, lavorò alla Feltrinelli e
successivamente alla Bompiani, prima di trasferirsi a Roma come giornalista del
quotidiano “la Repubblica”. Nanni fu a pranzo da noi e tra una chiacchiera e
l'altra venne a sapere del libro. Decise di portarselo via per leggerlo. Poi un
giorno mi telefonò: «Sai, quel tuo libro ha vinto un premio. Ce l’ho mandato
io». Era un premio intitolato L’inedito. «Per cui lo pubblichiamo.» Lui in quel
momento stava da Bompiani, ma già voleva abbandonare tutto e fare un’altra
cosa. “La Repubblica” è stata fondata nel 1974 e Nanni andò a Roma nel 1975. Me
lo ricordo bene, perché il suo primo servizio fu un reportage sui fatti portoghesi di quell’anno e io gli diedi una
serie di indirizzi di amici e intellettuali per avere informazioni e
orientamenti, anzi anche alcuni piccoli ritrattini di scrittori portoghesi
amici, che ora sono morti, come anche Nanni.
Com’era Enrico Filippini?
Un uomo pieno di vitalità,
d’inquietudini, di cultura. Forse per questo ha scritto meno di quanto avrebbe
potuto. Ma, per esempio, fu lui a introdurre Günter Grass in Italia, di cui
tradusse due grandi romanzi: Gatto e topo
e Anni di cani. Anche se, di fatto,
amava di più tradurre filosofia.
Torniamo a Piazza d’Italia.
Ogni libro è un’avventura
diversa. Penso però che in Piazza
d’Italia ci siano, magari in nuce,
temi e aspetti che mi hanno poi sempre accompagnato. Prima di tutto, vi
è una certa pressione verso la realtà effettuale, un aspetto che ritornerà
successivamente con evidenza, che so, in Pereira e Damasceno Monteiro. Inoltre,
c’è l'uomo come creatura desiderante, come essere che vive di aspirazioni e
sogni, anche se in quel caso i protagonisti dei sogni appartengono a quelle che
una volta si chiamavano le classi umili. Più tardi nella mia narrativa appaiono
personaggi delle classi colte, con un orizzonte intellettuale meno semplice, ma
la struttura di base è quella. Un tema che ritorna è, già lì, quello del
«doppio» fra persone. Ma soprattutto, forse, c’è la struttura formale, tutta
una serie di accurati artifici celati nella voluta immediatezza della
scrittura.
Di che cosa si tratta?
Quella struttura narrativa è
anche il risultato di un montaggio di tipo cinematografico eseguito seguendo in
parte le indicazioni di Eizenštejn appunto nelle lezioni di montaggio, che
allora studiai appositamente. Per esempio, tutte la serie di sinestesie che
Eizenštejn indica…
Pensava al cinema?
Non al cinema nel senso dello
schermo, ma nel senso narratologico. Naturalmente molti miei accostamenti sono
del tutto arbitrari, ma in parte ho seguito proprio quelle indicazioni. Pensavo
al metodo della moviola. Il libro in origine non era come appare oggi, aveva
una logica narrativa molto più tradizionale, poi lo stesi tutto sui pavimenti,
lo tagliai, lo disposi a quadretti e gli diedi, da una parte, la struttura del
montaggio cinematografico e, dall’altra parte, il ritmo del cantastorie
popolare che espone le sue vignette sulla piazza. Perché pensavo a una
narrazione molto attaccata alla realtà culturale del «paese», un paese
inventato naturalmente. Sebbene, poi, il racconto non si restringa a quel
piccolo mondo.
Infatti c’è anche l’altrove: i viaggi, l’Argentina, l’America. Alcuni
personaggi aprono…
Sì, alcune persone aprono
prospettive lontane…
Dietro quei personaggi c’erano persone reali?
No, no. Intendo semplicemente che
i personaggi, una volta inventati, divengono persone… Forse, senza volerlo, mi
riallaccio alla lunga discussione sul «personaggio» che oggi mi pare vada
riprendendo vigore. In fondo, da Pirandello a Pessoa, tutto il Novecento non ha
fatto altro che pensare al «personaggio». La scuola formalista, gli
strutturalisti si sono rotti il capo su questo tema e la discussione pare
interminabile, perché oggi ricomincia. Per esempio Calvino in Se una notte d’inverno un viaggiatore ha
cercato di sottrarre il personaggio all’autore, ma adesso i giovani critici
dicono che forse l’autore vi è più presente di quanto non sembri. Il
personaggio è sempre molto pesante per l’autore. Mi viene in mente un mio
amico, Cardoso Pires, che verso l’inizio degli anni Ottanta aveva scritto un
libro in cui agiva un personaggio non troppo simpatico, così un critico gli
osservò: «Lei qualche volta ha personaggi che non tratta con troppa simpatia».
Cardoso Pires rispose: «Questo è un fenomeno abbastanza comune. Il problema per
me nasce quando sono io che non resto simpatico a qualche mio personaggio». Che
era un modo, folgorante, di rimettere in questione tutto.
Parlavamo degli emigranti di Piazza d’Italia.
In Piazza d’Italia ci sono alcuni
personaggi che nutrono già uno spirito nomade. Uno dei Garibaldi, quello con
cui si apre il racconto, è particolarmente incline al viaggio, all’evasione. È
ovviamente spinto a partire da ragioni economiche, e andrà a far parte di
quelle masse di persone che emigravano come forza-lavoro pura, come bestie da
soma, verso contesti economici diversi, ma mostra di avere una insofferenza
congenita per la piccolezza del mondo paesano, oltre che per la oppressività
dello Stato fascista.
In effetti è un personaggio dove risalta fortemente il temperamento
anarchico. Un temperamento cui lei sembra guardare con simpatia. Ma nel 1975,
anno di pubblicazione di Piazza d’Italia, esplode in Portogallo la «rivoluzione dei garofani», dove lei
simpatizza invece per lo Stato,
democratico ma sempre Stato. Come mai?
La rivoluzione portoghese fu
opera dei capitani di aprile e sostanzialmente venne ispirata da Ernesto Melo
Antunes, che è morto quest’anno…
E Saramago?
Mah, Saramago non ebbe altra
funzione che quella di giornalista. Era «direttore aggiunto» in uno dei più
importanti quotidiani di Lisbona, il Diario de Noticias… Per capirci: il
partito comunista nel momento più caldo impose questi «direttori aggiunti» la
cui funzione era semplicemente di controllare il funzionamento del giornale. E
questo fu nella seconda fase della rivoluzione, quando alcune sue parti
oscillarono verso posizioni radicalizzate e il partito comunista tentò di
prendere il potere, anche occupando taluni snodi dell’apparato militare, della
società civile e dell’informazione. D’altronde, era del tutto esplicito che
Álvaro Cunhal, il segretario del partito comunista che veniva da Praga, e con
lui tutto il partito avevano posizioni sovietiche, tanto che veniva condannata
e criticata aspramente l’idea berlingueriana dell’«eurocomunismo», un’idea –
come si sa – assai invisa a Mosca. Melo Antunes invece, di cui ero amico, guidò
la rivoluzione verso la democrazia, nel senso che, dopo un paio d’anni di
potere militare, così oscillante come ho accennato, restituì il potere alle
istituzioni politiche civili, cioè a un parlamento dove erano rappresentati
tutti i partiti.
Queste, ed evidentemente altre vicende, su cui non occorre soffermarsi
ora, appartengono comunque alla storia portoghese e non alla sua storia
personale.
Certo. In realtà io sono una persona
scettica che guarda con grande curiosità a quello che càpita nel mondo. Ma,
quanto al mio atteggiamento di simpatia verso questa o quella cultura politica,
vorrei evitare un corto circuito sbagliato: una cosa è l’anarchismo toscano
fine Ottocento, che è un fenomeno storico ben preciso verso cui, per certi
motivi, si può anche nutrire simpatia; un’altra cosa è l’estremismo di
sinistra, incluso lo stalinismo dei comunisti portoghesi, come si è manifestato
negli sviluppi della «rivoluzione dei garofani» in Portogallo. Chi come me
aveva riflettuto sullo stalinismo nella guerra di Spagna, aveva letto Orwell, e
ora, di fronte al plateale stalinismo di Cunhal, vedeva l’atteggiamento
orripilato degli scrittori e artisti portoghesi, di suoi amici poeti, come per
esempio Alexander O’Neill, che erano stati antifascisti davvero, non per far
colore politico, ma per cultura, chi come me si trovava in queste condizioni
aveva poco da scegliere.
Possiamo dire che in lei si presentano così due radici, una toscana e
una portoghese?
Sì, possiamo dirlo. Il Portogallo
è anche il mio paese, io gli voglio bene al Portogallo. Infatti, quando ho
scritto Requiem in portoghese, mi
sono reso conto di avere anche un’altra anima. Noi non abbiamo una sola anima,
ne abbiamo varie.
Le persone sono costituite da confederazioni di anime, sosteneva
Pereira.
Certo, è così. E quando si scrive
in un’altra lingua la situazione appare chiarissima. Per esempio, si può
dimenticare in una lingua e ricordare in un’altra. La frase non è mia, l’ho trovata
in un trattato di psicolinguistica. La lingua è la vita: le persone che abbiamo
conosciuto, le esperienze che abbiamo avuto, le nostre memorie, insomma quello
che gli psicoanalisti chiamano il nostro vissuto.
Articolando ulteriormente l’idea, potremmo anche arrivare a concludere
che ogni narrazione di un narratore sia una sua anima. Parliamo allora di
quella che per lei ha avuto più successo, del romanzo Sostiene Pereira appena ricordato appunto per l’opinione del
protagonista secondo cui in ciascuno di noi c’è una pluralità di anime.
Con Pereira ho inteso disegnare
un personaggio comune, contrassegnato soprattutto, come per l’appunto è comune,
da uno scarso coraggio nelle scelte. In fondo sono pochissime le persone che
riescono a scegliere alla prima mossa. E devo dire che gli indecisi mi sono più
simpatici, come credo lo siano a tutti. E però Pereira è più radicale: non
vuole scegliere. Ecco, volevo creare un personaggio che avesse una grande
ostilità nei confronti della scelta. E Pereira è così. Lo è per suoi motivi
esistenziali: non è più giovane, è cardiopatico, è solo, è attaccato al
passato, non ha elaborato il lutto per la morte della moglie.
Sembra però una persona che abbia questa volontà di non scelta ab
origine, infatti usa il ricordo della moglie come una tecnica di isolamento dal
mondo.
Sì il suo mondo è come chiuso
dentro una palla di vetro.
E in quale senso potrebbe essere una delle anime di Tabucchi?
Adesso non saprei. Io in molte
cose l’ho immaginato assai diverso da me, per esempio nella sua sensibilità
religiosa. Forse sono stato arrogante, io che non ho nulla a che fare con il
cattolicesimo; ma mi piaceva tentare di descrivere la sensibilità di un
cattolico, e di un certo cattolico. E qui torniamo al rapporto fra autore e personaggio,
perché l’autore inventa anche personaggi che gli permettono di scandagliare
l’anima altrui, di capire ciò che egli non è, ma poi il personaggio cresce un
po’ da solo, anche dentro di lui, e
talvolta diventa l’autore stesso, magari solo per il tempo in cui sta scrivendo
quel libro.
Forse si può usare la categoria del «come se». Il personaggio è per
l’autore sempre un «come se».
Sì, il personaggio è l’autore
«come se», è una protesi. È l’autore che s’immagina di essere se stesso e
insieme un’altra persona. Questa finzione tutto sommato è anche un’operazione
di grande tolleranza: quando ci si sforza di essere quello che non si è, si è
portati a capire meglio gli altri, e forse alla fine anche se stessi. È una
strana ginnastica inventare personaggi.
È la strana ginnastica di Pessoa, che inventa di continuo personaggi
con cui si identifica o da cui si fa sostituire. Ma, parlando di lei, sappiamo
che Pessoa è intervenuto sul suo destino a Parigi nel 1964 sotto forma di
libretto casualmente incontrato nei pressi della Gare de Lion. Dopo, questo
poeta ha continuato ad agire per lei?
Ha agito in due maniere. In primo
luogo, come grande poeta. C’è una qualità estetica dei suoi testi che lo pone a
una grande altezza letteraria, al livello poniamo di T.S. Eliot o di Eugenio
Montale. In fin dei conti, egli avrebbe potuto creare la sua impalcatura
poetica, producendo testi di scarsa qualità. In questo caso non sarebbe stato
interessante se non, poniamo, per la psicoanalisi o per altre discipline, ma
non per la storia della letteratura. In secondo luogo, Pessoa ha agito come
attore di un’avanguardia molto speciale. Non si è mosso sulla scena letteraria
producendo manifesti con l’arroganza di passare dal piano estetico al piano
pragmatico. Come i futuristi per esempio, che pretendevano di «futuristizzare»
il mondo, e infatti intendevano avere una cucina futurista, un abbigliamento
futurista, un comportamento futurista, insomma una vita futurista. L’arroganza
delle avanguardie consiste sempre in
questo passaggio dalla parola alla pratica. Lo fecero, con segno politico
opposto, anche i surrealisti, i quali allo stesso modo volevano lavarsi i denti
ecc. alla surrealista. In questo slittamento della parola verso l’azione è
presente, io credo, tutto sommato un certo disprezzo verso il linguaggio o
almeno una sua svalutazione.
Nelle avanguardie storiche sembra infatti palese la tendenza, non solo
a estetizzare l’azione, a dare valore artistico a taluni atti pratici, ma anche
a sottovalutare gli aspetti estetici del testo scritto.
Nella vita pratica,
evidentemente, una realtà concreta, come per esempio una sedia, è più
importante di un testo, perché «esiste» di più. Beh, in Pessoa niente di tutto
questo. Pessoa si apre all’avanguardia in un altro senso: intanto, se la costruisce
in termini personali, tenendo lontano la propria vita pratica dalla sua
attività intellettuale e artistica. Qui somiglia ad altri grandi del Novecento
che hanno avuto una vita quotidiana comune, magari grigia come Kafka, che era
un impiegato delle assicurazioni, come Joyce, che insegnava inglese alla
Berlitz school di Trieste, come Svevo, che vendeva vernici, o come Eliot che se
ne stava in pantofole, quando non partecipava ai cocktail dell’alta borghesia
britannica. Tutte persone che non hanno mai preteso di investire la vita
quotidiana con i modi della loro attività artistica. Nello stesso tempo Pessoa
costruisce avanguardisticamente una specie di romanzo, anzi un suo smisurato
teatro, una gran commedia con molti attori, privi però del palcoscenico, i
quali dunque recitano il proprio vissuto, il proprio ruolo, il proprio
linguaggio, la propria esistenza non in un luogo visibile, ma nel luogo
astratto che è il teatro della poesia. Un mondo fragilissimo ma consistente,
come un cristallo, che chiude questi personaggi, i vari scrittori eteronimi di
Pessoa stesso, nella sua assoluta autonomia, dove ciascuno di essi non ha
bisogno di posare i piedi su un palco per esistere e neppure ha bisogno di
partecipare a una trama comune per dire che esiste. Infatti l’operazione di
Pessoa è radicale all’estremo: pone nello spazio astratto della poesia delle
creature creanti. Un autore di norma crea un personaggio il cui compito è
semplicemente quello di vivere, non di creare. Pessoa invece, ponendo al posto
dell’autore il personaggio e al posto del personaggio l’autore, a suo modo
risolve il problema del rapporto fra i due, un problema che è come un rovello
per il Novecento, su cui questo torna di continuo a riflettere e lavorare.
Ma perché, secondo lei, il personaggio costituisce un rovello per il
Novecento?
Perché, forse, il Novecento è
molto vecchio e gli è vietata l’ingenuità. Ci sono quattromila anni di
letteratura dietro di noi e questo non possiamo ignorarlo, quindi la
riflessività dell’arte sull’arte è quasi obbligatoria. L’autore del Novecento
ha questo peso o svantaggio o malattia, lo si chiami come si vuole: gli è
vietato essere spontaneo.
Ma perché questa autoriflessività si appunta proprio sul personaggio?
Perché, io credo, la riflessione
sull’arte converge con l’altra riflessione sull’io, sull’identità, che viene
dalla psicoanalisi. Il Novecento fra l’altro si apre con Freud e noi siamo
ancora qui a chiederci se chi scrive siamo noi, se il personaggio è lui o sono
io. Del resto, in termini sociali il problema dell’identità è proprio il nucleo
della Modernità: significa chiedersi che cosa si è, sapere chi è l’altro,
sentire di appartenere antropologicamente a una cultura, concepire la propria
civiltà.
Pessoa dunque ci porta a queste altezze…
E tuttavia non lo si può
proseguire. Ci sono degli autori che costituiscono un punto di arrivo oltre il
quale non si può andare. Ti offrono il motivo di una riflessione culminante e
inevitabile, con loro però la strada finisce: dopo Borges c’è solo
l’epigonismo, dopo Pessoa la proliferazione infinita dei personaggi-autori,
dopo Beckett il silenzio, l’acte sans
parole, e anche oltre Kafka non si può andare. Oltre quel tipo di scelta
radicale bisogna cambiare strada, occorre riaprire la partita.
Ma Pessoa non ha a che fare con il Portogallo?
No. Pessoa è un marziano, un
marziano paracadutato in Portogallo, dove anzi ha scelto lui di atterrare
dall’astronave. È stata poi la grande anima collettiva portoghese che si è
impadronita del suo grande poeta, ma lui non esprime il Portogallo, salvo in un
piccolo poemetto intitolato Messaggi. Viene da un altro brodo di cultura,
quello inglese, anche se tenta in qualche modo di riappropriarsi dell’anima
portoghese, ma con operazioni intellettuali che rimangono intellettuali.
Lei come scrittore che cosa ha raccolto di Pessoa, ne è stato
influenzato?
Sì. Allo stesso modo in cui
Pessoa era stato influenzato, secondo una sua frase, «da tutti gli autori
letti». Vengo influenzato dalle mie letture. Però non saprei dire dove e come.
Io, lo confesso, in questo sono una spugna.
Ci sono degli autori che ama particolarmente?
Ma, non so… forse Gadda, da cui
come scrittore sono lontano, poi Svevo cui invece sono forse più vicino, poi
Stevenson, oppure Flaubert… Ma, in realtà, più che di scrittori io parlerei di
libri. Singoli libri di singoli scrittori.
Sono dunque i libri che fanno la vita di uno scrittore, quelli che
legge oltre a quelli che scrive. Come si combinano le cose che lei scrive con
la sua vita?
Questo proprio non lo so. In ogni
caso, io non direi mai come il personaggio di Calvino in Se una notte d’inverno un viaggiatore: «Come scriverei bene se non
esistessi». Per me, più si esiste e meglio si scrive. Dice Pessoa: «ci manca
sempre un bicchiere, una brezza, una frase e la vita ci manca quanto più la si
vive e quanto più la si inventa». È un ricarica continua. Un autore destituito
della sua esistenza non riesco a concepirlo [….]
Non vede nessun gruppo o movimento cui appartenere come scrittore?
Forse un coagulo interessante
esiste, ma non è italiano, è internazionale. Si tratta del «Parlamento degli scrittori» che ha sede a Strasburgo ed
è interessante perché il suo terreno è la difesa della parola letteraria. Nel
mondo spesso la parola letteraria dà più fastidio, specialmente ai regimi
totalitari, dei pronunciamenti politici.
E quanto ai regimi democratici?
La parola letteraria, che opera
in profondo, è sempre altra cosa dal potere e poiché la democrazia, pur essendo
una buona organizzazione del potere, non è mai perfetta, ma solo perfettibile,
non è male che esista un osservatore esterno del suo funzionamento come è la
parola letteraria, perciò questa sua funzione di sorveglianza va salvaguardata
con grande cura. Funzione di salvaguardia e di disturbo. Non per nulla Les fleurs du mal e Madame Bovary vennero mandati sotto processo nell’Ottocento quando
circolava indisturbata una quantità di libretti pornografici. Chi parla in
profondo dà fastidio al potere. Non dimentichiamoci che Socrate è stato mandato
a morte dalla democrazia ateniese.”
“Le reti di Dedalus”, 2013
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