Giovanni Faldella (1846 – 1928) di Saluggia, nel vercellese, avvocato
figlio di medico, nella sua vita abbastanza lunga riuscì per qualche tempo deputato,
ma la fama sua è soprattutto letteraria: uno scapigliato di provincia, la cui
ribellione consiste assai più nello sperimentalismo linguistico che nei modi di
vita.
Gianfranco Contini gli riconosce, rispetto ai suoi amici letterari, il
Boito, il Camerana, il Giacosa, il quasi coetaneo e quasi compaesano Cagna, una
solidità narrativa, che mi pare evidente anche in questo bozzetto che viene
dalle Figurine pubblicate prima nella
“Rivista minima” e poi in volume nel 1875.
Lo riprendo dal benemerito sito “liber liber”, che a sua volta utilizza
l’edizione Bompiani del 1942. (S.L.L.)
Al prof. Giuseppe Cesare Molineri. — Sono magre queste galline, e poco accomodate alla tua amplitudine; ma le mando a te, perché mi facesti l'onore di introdurle al mercato dandole come tema di composizione italiana ai tuoi scolaretti di una volta.
«Il vero galateo non istà mica
nel sedere sull'orlo di una scranna tenendo la persona impettita e formando
degli angoli retti in modo da sembrare una sedia sovrapposta a un'altra sedia: non
istà nel torcersi, nel musare, nello scappellarsi e nel figurare una cartolina
di visita ambulante, ecc. No. Il vero galateo è puramente e semplicemente la
moneta spicciola di quel biglietto da lire mille che è la Bontà. E siccome
tutti gli uomini possono pretenderla a galantuomini, cosí trovo che è una vera
birboneria il chiamare villani gli screanzati.»
In questa sentenza è solito a
tuonare nella retrobottega dello speziale il cavaliere Cristoforo Verbena,
professore di ginnasio giubilato, il piú grande inzuppatore che si conosca nel
villaggio di Paperaglia, come quegli che non potendo piú insegnare umanità agli
scolaretti si sfoga spietatamente a dar lezioni ogni giorno alla serva, allo
spaccalegna, al medico, al curato, insomma a
tutti i cattivelli che cascano
sotto la sua eloquenza.
Egli ha riempito un intero
canterano di scartafacci scombiccherati da lui e che contengono diverse opere
eruditissime e profondissime, fra cui I Paradossi Perpetui, una Maccheronea
Classica, e poi un lavoro importantissimo sul Latino di Sacristia. Intorno
a questi zibaldoni da qualche tempo i topi hanno posto un assedio regolare per
giunger a leggerli, e non ci sono ancora riusciti, perché il professore li
sbaraglia periodicamente sprangando quattro calci al giorno contro il cassettone.
Il Professore non ha fatto stampare
mai un rigo di suo per quel miscuglio di orgoglio e di viltà che ingombra
l'animo di coloro, i quali non hanno peranco rotto il ghiaccio con il pubblico.
E sí che gli batte il cuore ben forte, quando vede comparire il suo nome a
caratteri di Guttemberg sulla fascia di una gazzetta o nella lista dei giurati.
Egli ha fiducia che lo stamperanno e lo loderanno i posteri. Pover a lui! I
posteri sotto le forme di nipoti o di cancellieri di pretura nel compilare l'inventario
di una eredità abbruciano le scritture letterarie o filosofiche come carte di
niun valore e conservano soltanto gli istrumenti notarili e i contratti di
locazione debitamente bollati e registrati.
Tornando all'aforisma del
professore Cristoforo Verbena, ecco il fatterello, con cui egli lo ha chiosato
e autenticato nel suo libro dei Paradossi
perpetui, che mi lasciò scartabellare.
* * *
In una borgata delle Langhe, dove
andò a marito una delle molte serve del Professore, c'è una via, che il Sindaco
conte Simonella intitolò a se stesso, sicuro di immortalarsi facendosi scarabocchiare
in nero di fumo sui canti; ed in questa via ci sono due case vicine senza intercapedini,
epperciò formano una casa sola, detta la Casa Lunga, la quale presenta il
fianco alla strada e volta la faccia e l'aja al sole di mezzogiorno.
Nella Casa Lunga vivono due
famiglie di contadini benestanti, cosidetti particolari nei villaggi
piemontesi, incapaci di far del male ad una mosca o di frodare un soldo a
chicchessia, foss'anche esattore. Eppure fra queste due famiglie crepitava
un'izza secolare, che non si poteva ammutolire né con merende nel prato, né con
inviti a nozze o a battesimi, o al pranzo del maiale, un'izza da guelfi e
ghibellini, da classici e romantici; e tutto ciò per questioni di galline, le
quali non sono già affarucoli da due man di nòccioli, ma formano il piú bel
capitale e la poesia piú cara delle campagnuole massaje. Per loro sono
addirittura crisi ministeriali e trattazioni diplomatiche il porre la tacchina
in cova, il levare la pipita ai galletti, lo strapazzare la chioccia che non
governa a dovere i pulcini e altrettali ciùffole. Figuratevi come dovevano
tipizzarsi le femmine di quelle due case, che
tenevano l'aja in comune e si
trovavano ad avere il loro serenissimo pollame sempre confuso in un buglione.
Fossero venuti gli zingari o fosse calato il nibbio a ghermire una capponessa,
niuna di loro
voleva sopportarne in pace il
manco; ci era subito di sotto una maccatella della vicina, onde si mandavano e
si rimandavano delle parole e delle accuse atroci che levavano il pezzo: si
rifiutavano persino il prestito del mortaio, il pepe e il fuoco, come nelle
scomuniche maggiori.
Si era tentato di spegnere quelle
guerre contrassegnando i polli con calze e trappole di coloritura diversa; ma i
polli le bezzicavano, le stracciavano, le sparpagliavano e ritornava il caosse di
prima. Finalmente, come Dio volle, il mestolo di una di quelle due case capitò
nelle mani di Menica, che era una bellissima e bravissima nuora bionda. Fu
dessa che scoperse l'America, cioè suggerì che l'una famiglia allevasse
soltanto polli bianchi e l'altra tenesse solamente dei polli neri: così
sparirebbe via ogni pericolo di garbugli gallinacei. Si mise in pratica la
pensata della Menica ed in effetto comparve l'arcobaleno fra le due case.
La Menica era un Dio in terra o,
come si dice adesso, una specialità nello sperare le uova e conoscere se
erano gallate, e, quel che conta di piú, a forzare le galline a farne eziandio
d'inverno per amore di certo mangime caldo, di cui essa sola aveva la ricetta.
Portava una passione straordinaria al suo pollame che era il nero e soprattutto
ad una pollastrella battezzata la Nana per antonomasia. Quando
ministrava il becchime di vagliatura sull'uscio di casa faceva sempre che la Nana
ne inghebbiasse di piú che le altre, le quali teneva crudelmente indietro con
una frasca sbraitando rabbiosetta: Sciò! sciò!
Alla vigilia della festa del
paese venne a casa in permesso il figliuolo del notaio, che era un bell'ufficialetto
dei Bersaglieri. Accadde che egli inciampò la Menica per via, e come porta
l'usanza, fu lesto a rincantucciarla e a bisbigliarle un mare di galanterie e
di dichiarazioni amorose. La Menica lo ascoltò quieta ed estatica, cosicché il
mal bersagliere credeva fermamente di averla conquistata, ed invece essa aveva
pensato in tutto quel mezzo tempo a nient'altro che alla sua Nana; tanto era
vero che di lí a poco scoteva di soprassalto dalla sua testa le fantasticherie,
piantava in asso l'ufficialetto, e trottava difilata nella sua corte. Quivi
buttò subito attorno i suoi occhioni da Lucia Mondella per scoprirvi la Nana...
E la Nana non c'era piú. La chiamò, la cercò in casa, nell'orto, nel pollajo,
nella stalla, sul fenile, dappertutto...
«Nana! Nana bella!... Nana
d'oro...»
Frugò nei cestini, brancicò le
pagliuzze, i guardanidi, sollevò degli assi e dei mattoni, alle volte non vi
fosse accovacciata sotto; scostò le casse, cacciò le mani in certi buchi che
non avrebbero capito un pipistrello, altro che una gallina. Rimuginò persino
dentro il saccone sperando di trovarla fra le fogliacce. Dolorosa e pensativa
tornava a ripetere un altro giro per il cortile (era l'ottavo), quando passando
davanti l'uscio della vicina Tonia scoperse due penne nere. Quelle penne furono
per lei dapprima un sospetto e poscia una rivelazione.
«Tonia, avreste per caso
ammazzato una mia gallina?»
«Caspita! Menica, non volete
ch'io sappia nemmanco sdifferenziare le noci dalle gallozzole e il bianco dal
nero?»
E Menica, mortificata, si sentí
calare nella gola l'usciolo della parlantina e scappò subito dentro casa.
«Sai, Gervasio, che cosa mi è
avvenuto di brutto?»
«È cascato il mondo?»
«No: m'hanno portato via la Nana,
quella magnifica pollastrona bassotta, che innamorava.»
«Uh!»
«E c'è ancora di peggio.»
«Di peggio?»
«C'è che ho trovate due penne
nere proprio sulla faccia della porta alla Tonia.»
«Oh!»
«Ed ho avuto la bravuria di
domandare alla Tonia se l'aveva pigliata essa la mia Nana.»
«Uhm!»
«Adesso, poveretta me, la Tonia
crederà che io le abbia dato una presa di ladra per le trecce. Ma non è mica
cosí, Gervasio. Ho parlato solo perché avevo la bocca. Vero come ho il
battesimo in testa. E tu, se vuoi, hai un sacco di ragioni a sgridarmi: mi
prendo troppa caldura per queste brutte gallinacce, che ora pagherei il diavolo
se me le azzoppasse tutte. Ma io le voglio bene alla Tonia. Oh, sí, le voglio
un bene dell'anima, e non la offenderei già per tutto l'oro di questo mondo.
Bravo, vai a dirglielo tu, Gervasio, che io le voglio ancora bene alla Tonia.»
«No, linguaccia! Ora che hai
fatto il male fai tu la penitenza. Mettiti le ruote; va' a levare di stia il
piú grosso cappone che ci abbiamo, quello là col ciuffo, e portalo subito a
regalare alla Tonia, ma subito.»
Dall'altra parte dell'aja,
controscena.
«Sai, Maffeo, che cosa è capitato
alla Menica?»
«Non saprei, Tonia...»
«Le manca la Nana, quella
pollastra corta e larga a modo del nostro signor cappellano, con reverenza
parlando, e senza paragoni.»
«Corbezzoli! Me ne rincresce di
buono.»
«Quello che a me mi pena di piú e
mi strimizzisce il cuore, è che abbia buscato due piume nere sull'uscio di casa
nostra. E forse crederà che gliela abbiamo finita noi.»
«Oh, no... Grande cosa due piume
nere in questo mese che le galline si spollinano e mudano...»
«Però, sai, Maffeo, se tu non
fossi una mignella, per me vorrei cavarle di testa fino all'ultimo respiro di
dubbianza... Per me vorrei, se tu fossi contento, portare alla Menica in regalo
quel bel cappone cornuto...»
* * *
Di lí a due minuti in mezzo alla
corte si affacciavano naso contro naso Menica e Tonia, tenendo ciascuna sulle
braccia e premendo al seno un bravo cappone di cui tastavano i barbigli smozzicati.
«Tonia, siccome domani è festa,
mi piacerebbe che faceste sentire ai vostri forestieri un cappone nero, che
dicono abbia la ciccia piú saporita.»
«Menica, ho pensato che per
Sant'Onofrio dovreste mettere in tavola un cappone bianco, che, come
biancheggia la carne, fa anche una figura piú linda.»
* * *
Pin! pan! pun! Un doppietto di
schioppettate da spaccare il cervello pur con il loro rintronamento. E poi
Galoppino, il cognatuccio di Menica, saltellante per l'aja, strascicando una pelliccia
di velluto nerissimo sanguinolenta: «Menica! Menica! l'ho accoppata io la faina
che teneva ancora in bocca il collo di Nana per salassarla.»
* * *
Signori e Signorine, sopra il
galateo di monsignor Giovanni Della Casa e di Melchiorre Gioia si può mettere
il galateo di Menica e di Tonia, che è il galateo dei villani, ossia del buon cuore,
secondo il professore Cristoforo Verbena.
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