Émile Zola pubblicò il suo ultimo
romanzo, Travail, nel 1901 poco prima
della sua morte, avvenuta nel 1902. Il romanzo, poco conosciuto
anche in Francia è attraversato dalle
“utopie sociali” di cui Zola si era nutrito durante il suo esilio forzato in
Inghilterra, leggendo e studiando autori come Fourier, Saint-Simon e Comte.
Il romanzo, in cui si coniugano
in ambiente utopico socialismo e positivismo, ruota attorno al personaggio di
un ingegnere, Luc Froment, chiamato dall’amico Martial Jordan, uno scienziato che
studia il migliore impiego dell’energia elettrica per ridurre la fatica del
lavoro, a far ritorno nella città natale, Beauclair, ove dominano l’ingiustizia
sociale e un capitalismo senza scrupoli, rappresentati da un’acciaieria che gli
operai chiamano l’Abîme, l’abisso, in
cui logica del profitto e dello sfruttamento sta devastando sia la comunità che
l’ambiente.
I due amici Froment e Jordan
recuperano una miniera abbandonata, la Crêcherie, vicino alla quale sorge
presto una fabbrica in cui si realizza a poco a poco l’utopia della «Città
felice».
Travail narra la rinascita della cittadina e dei suoi abitanti
attraverso l’applicazione della zoliana «religione dell’umanità» in cui trovano
posto il progresso scientifico e tecnologico, il rispetto dell’ambiente, l’equa
distribuzione del lavoro e dei profitti, secondo il principio del «diventare
padroni della vita per dirigerla».
Del romanzo riprendo qui la parte
finale, pubblicata qualche anno fa da "Lettera Internazionale" (forse 2006, ma non c’è data nel mio
ritaglio). (S.L.L.)
Fin da subito, si era presentata come una lezione, come un’esperienza decisiva che a poco a poco avrebbe convinto tutti. Chi avrebbe potuto infatti negare la forza di una simile alleanza tra capitale, lavoro e intelligenza, quando i suoi benefici diventavano di anno in anno più evidenti e gli operai della Crêcherie guadagnavano già il doppio dei loro compagni di altre fabbriche? Chi avrebbe potuto rifiutarsi di riconoscere che il lavoro di otto, di sei, di tre ore, il lavoro diventato attraente per la varietà stessa dei compiti svolti nelle officine luminose e allegre, dotate di macchine che anche un bambino avrebbe saputo utilizzare, fosse il fondamento stesso della società futura, quando si vedevano, in questo cammino verso la libertà e verso la giustizia totali, i salariati miserabili di ieri rinascere, tornare esseri umani, sani, intelligenti, allegri e miti?
Chi avrebbe potuto rifiutarsi di
dedurre da tutto ciò l’opportunità della cooperazione, che sopprimeva gli
intermediari parassiti – quel commercio in cui tanta ricchezza e tanta forza vanno
perdute –, quando i Magazzini Generali funzionavano senza problemi decuplicando
il benessere degli affamati di un tempo e colmandoli di tutti i piaceri fino a
quel momento riservati soltanto ai ricchi? Chi avrebbe potuto mettere in dubbio
i prodigi della solidarietà, che rende la vita agevole e ne fa una continua festa
per tutti i viventi, davanti alle allegre riunioni della Casa Comune destinata
a diventare un giorno il Palazzo reale del popolo, con le sue biblioteche, i
suoi musei, le sue sale per spettacoli, i suoi giardini, i
suoi giochi e i suoi divertimenti? Chi infine avrebbe potuto contestare la
necessità di rinnovare l’istruzione e l’educazione non fondandole più sul
presupposto della pigrizia dell’uomo, ma sul suo inestinguibile bisogno di
sapere, rendendo lo studio gradevole e capace di sviluppare in ognuno la sua
energia individuale, riunendo fin dall’infanzia i due sessi destinati a vivere
fianco a fianco, quando le Scuole là erano così prospere, libere finalmente dai
troppi libri, capaci di mescolare le lezioni alle ricreazioni e alle prime
nozioni di tirocinio professionale e di aiutare ogni nuova generazione ad
avvicinarsi alla Città ideale verso la quale l’umanità è in marcia da tanti
secoli?
Così, l’esempio straordinario che
la Crêcherie dava quotidianamente, alla luce del sole, diventava contagioso.
Non si trattava più di teorie, si trattava di un fatto, di qualcosa che
accadeva là, sotto gli occhi di tutti, di una fioritura superba e incessante.
E, naturalmente, l’idea dell’associazione conquistava uno dopo l’altro gli
uomini e i territori circostanti, nuovi operai si presentavano in massa,
attirati dai benefici e dal benessere; nuove costruzioni spuntavano ovunque aggiungendosi
di continuo alle prime. In tre anni, la popolazione della Crêcherie era
raddoppiata e l’aumento era diventato sempre più rapido. Era la Città sognata,
la Città del lavoro riorganizzato, reso alla sua nobiltà, la Città futura della
felicità conquistata che spuntava naturalmente dalla terra intorno alla
fabbrica, anch’essa ampliata, che si stava trasformando nella metropoli: cuore
pulsante, fonte di vita, dispensatore e regolatore dell’esistenza sociale.
Le officine, i grandi capannoni
dove avveniva la produzione, si ingrandivano, coprivano ormai ettari interi;
mentre le piccole case, luminose e gaie in mezzo al verde dei loro giardini, si
moltiplicavano, via via che aumentava il personale, il numero dei lavoratori e degli
impiegati di ogni tipo. E a poco a poco, a causa di questo flusso debordante,
le nuove costruzioni avanzavano verso l’Abîme, minacciavano di conquistare le
vecchie acciaierie, di sommergerle. All’inizio, tra le due fabbriche c’erano
stati ampi spazi vuoti, i terreni incolti che Jordan possedeva ai piedi dei
Monts Bleuses. Poi, alle poche abitazioni sorte nei pressi della Crêcherie, se
ne erano aggiunte altre, e altre ancora, una fila di case che invadeva tutto come
una marea montante e che ormai era solo a due o trecento metri dall’Abîme. Ben
presto, quando la marea si sarebbe infranta contro di esso, lo avrebbe forse
travolto sostituendovi la propria trionfante fioritura di salute e di gioia…
Anche la vecchia Beauclair era minacciata, perché una punta della città si
protendeva già verso di essa e stava per spazzare via quella borgata operaia
nera e puzzolente, nido di dolore e di peste, dove il salariato agonizzava sotto
i soffitti cadenti.
Avolte Luc, il costruttore, il
fondatore della città, la guardava crescere, la sua Città nascente che aveva
visto in sogno la sera in cui aveva deciso di avviare la sua opera; ed essa si
realizzava e partiva alla conquista del passato, facendo emergere dal suolo la
Beauclair di domani, la felice dimora di un’umanità felice. Tutta Beauclair
sarebbe stata conquistata, tra i due promontori dei Monts Bleuses, tutto
l’estuario delle gole di Brias si sarebbe coperto di case di colore chiaro, immerse
tra gli alberi, che avrebbero raggiunto gli sterminati campi fertili della
Roumagne.
E anche se ci sarebbero voluti
ancora anni e anni, già scorgeva con i suoi occhi di veggente la Città felice
che lui aveva voluto e che era in cammino. Durante le lunghe ore di felice
contemplazione davanti alla sua città prospera, Luc spesso riviveva il passato.
E rivedeva da dove era partito, dalla lettura, ormai così lontana, di un libretto
modesto dove era riassunta la dottrina di Fourier. Ricordava la notte insonne
durante la quale, infervorato dalla sua missione ancora oscura, cervello e
cuore pronti a ricevere il buon seme, si era messo a leggere perché non riusciva
a prendere sonno. Era stato allora che i colpi di genio di Fourier, le passioni
umane rimesse in auge, utilizzate, accettate come le forze stesse della vita,
il lavoro liberato dalla sua prigione, nobilitato, reso attraente, diventato il
nuovo codice sociale, la libertà e la giustizia a poco a poco conquistate
pacificamente grazie all’associazione tra capitale, lavoro e intelligenza,
questi colpi di genio che lo avevano investito mentre si trovava in uno stato
di sovreccitazione intellettuale e morale, lo avevano bruscamente illuminato,
esaltato, spinto a gettarsi nell’azione fin dal giorno successivo. Era a
Fourier che doveva il fatto di avere osato, di aver tentato l’esperienza della
Crêcherie. La prima Casa comune, con la sua scuola; le prime officine, così
pulite e allegre, con la loro divisione del lavoro; la prima Città operaia, con
le sue facciate bianche e ridenti in mezzo al verde, erano nate dall’idea
fourierista che sonnecchiava come il buon seme nel campo durante l’inverno, un
seme sempre pronto a germogliare e a fiorire.
Una religione dell’umanità, come
il cattolicesimo, ci avrebbe forse messo secoli a prendere solidamente piede.
Ma quale evoluzione in seguito, quale continuo ampliamento, via via che l’amore
si fosse diffuso e la città fosse stata fondata! Il pensiero di Fourier,
evoluzionista, uomo metodico e pratico, adducendo l’associazione tra capitale,
lavoro e intelligenza a titolo di esperienza immediata, era sfociato dapprima
nell’organizzazione sociale dei collettivisti e in seguito nel sogno libertario
degli anarchici. Associandosi, il capitale a poco a poco sarebbe stato
ripartito e annientato, il lavoro e l’intelligenza sarebbero diventati i soli elementi
regolatori, le basi del nuovo patto. Alla fine, ci sarebbe stata la scomparsa
forzata del commercio, la lenta soppressione del denaro: il primo, un
meccanismo ingombrante e divoratore; il secondo, un valore fittizio e inutile in
una società in cui la produzione di tutti determinava una ricchezza prodigiosa,
circolante in continui scambi. Così, partita dall’esperienza di Fourier, a ogni
tappa la Città nuova si sarebbe trasformata avanzando verso una maggiore
libertà e una maggiore equità, conquistando i socialisti di sètte nemiche, i
collettivisti, gli stessi anarchici e finendo con il raccogliere tutti in un
popolo fraterno, riconciliato in un ideale comune, nel regno dei cieli sceso
infine in terra. Ed era questo spettacolo ammirevole e vittorioso quello che Luc aveva
di continuo sotto gli occhi, la Citta della felicità i cui tetti di colori
vivaci erano disseminati tra gli alberi davanti alla sua finestra.
Il percorso che la prima
generazione, imbevuta di antichi errori, guastata da ambienti iniqui, aveva
così dolorosamente avviato in mezzo a tanti ostacoli e a tanto odio, veniva
portato avanti con passo allegro dalle nuove generazioni, istruite e rimodellate dalle scuole e dalle officine, che si spingevano verso orizzonti dichiarati
fino ad allora chimerici. Grazie al continuo divenire, i figli e i figli dei
figli sembravano avere altri cuori e altri cervelli, e la fratellanza era
facile per loro in una società in cui il benessere di ciascuno era fatto del
benessere di tutti. Insieme al commercio, anche il furto era scomparso. Insieme al
denaro se n’erano andate tutte le forme di cupidigia criminale.
L’eredità non esisteva più, non
nascevano più privilegiati oziosi e non ci si scannava per un testamento.
Perché odiarsi, invidiarsi, cercare di impadronirsi dei beni altrui con l’astuzia
o con la forza, quando i beni pubblici appartenevano a tutti e ognuno nasceva,
viveva e moriva altrettanto ricco del vicino?
Il crimine si svuotava di senso,
diventava stupido; tutto il selvaggio apparato di repressione e di punizione –
le gendarmerie, i tribunali, le prigioni –, istituito per proteggere dal furto
pochi ricchi contro la rivolta della folla immensa dei miserabili, era crollato
perché inutile. Bisognava vivere tra questo popolo che ignorava l’atrocità delle
guerre e obbediva all’unica legge del lavoro in una solidarietà fatta
semplicemente di ragione e di interesse personale inteso nel suo senso
positivo, per comprendere fino a che punto le cosiddette utopie della felicità
universale diventavano possibili con un popolo salvato dalle mostruose menzogne
religiose, istruito, capace di conoscere la verità e di volere la giustizia.
Le passioni, non più combattute,
soffocate, ma al contrario coltivate come le forze stesse della vita, perdevano
la loro durezza di crimini, diventavano virtù sociali, una continua fonte di
energie individuali. La felicità legittima si trovava nello sviluppo e
nell’educazione dei cinque sensi e del senso dell’amore, perché ogni essere
umano doveva poter godere e trovare soddisfazione, senza ipocrisia, alla luce del
sole. Il lungo sforzo dell’umanità in lotta conduceva alla libera espansione
dell’individuo, a una società di completa soddisfazione, dove l’uomo godeva
appieno della propria umanità e dove la vita era degna di essere vissuta.
La Città felice si era così
realizzata nella religione della vita, la religione dell’umanità liberata dai
dogmi che trovava in se stessa la propria ragione d’essere, il proprio fine, la
propria gioia e la propria gloria. Ma Luc, soprattutto, assisteva al trionfo
del lavoro salvatore, creatore e regolatore del mondo. Fin dal primo giorno
aveva voluto la scomparsa, la morte, dell’ingiusta condizione del salariato,
fonte di miseria e di sofferenza, base marcia del vecchio edificio sociale,
ovunque pericolante. E aveva sognato un’altra cosa, la riorganizzazione del
lavoro, il nuovo patto che avrebbe permesso una giusta ripartizione delle
ricchezze. Soltanto, quante tappe era stato necessario superare prima di fare
di questo sogno una realtà, e prima di arrivare a questa Città felice che lui
aveva fondato!
Anche in questo caso, la spinta
era venuta da Fourier, con l’associazione dei lavoratori, con le officine dove
si svolgevano compiti vari, non eccessivamente pesanti, piacevoli, e dove i
gruppi che si ripartivano il lavoro prima si
separavano e poi si riunivano di nuovo, mescolandosi, in quel continuo gioco di
liberi organi che è la vita stessa. Tutta la comunità libertaria era già in germe
in Fourier perché, se egli aveva ripudiato la rivoluzione brutale, se aveva
cominciato con il far leva sui meccanismi della società esistente, il risultato
del suo sforzo, la sua speranza per il futuro, tendevano alla distruzione
proprio di quella società.
Traduzione di Monica Fiorini
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