È un sentimento di libertà conquistata
quello che accompagna l’uomo ogni volta che può rivolgere ad altro suo simile,
vivo e operante, la parola: ‘maestro’.
Questo sentimento è la tonalità d’impianto
che attraversa la raccolta postuma degli Scritti
civili di Massimo Mila (a cura di Alberto Cavaglion, Il Saggiatore, pp. 384,
€ 22,00): la testimonianza di un uomo libero non soltanto per l’autonomia di
giudizio, la coerenza, il rifiuto della retorica in essi profusi; ma, ancor
prima, per l’indipendenza con la quale l’autore riconosce e racconta i suoi
maggiori e, insieme, il proprio apprendistato.
Quanti conoscono il Mila più
noto, lo studioso di fatti musicali, troveranno in queste pagine la radice che
alimentava quegli studi speciali; inoltre la presente ristampa offre alcuni
scritti sparsi, nella sezione ‘Musica e Cultura’, che mancavano nella prima edizione
del libro (Einaudi, 1992).
Quali furono allora i maestri di Mila?
In ordine non casuale si possono restringere a quattro: Augusto Monti, Croce,
l’esperienza partigiana con i suoi compagni di lotta e la prigionia.
Dal primo di questi, dall’amato
professore del D’Azeglio, Mila impara la necessità di «stare nei termini delle
questioni, senza cedere alla comodità di spiegazioni dall’esterno», impara il
rifiuto della complicazione e dello scrivere oscuro, fa sua la polemica contro
il ‘letterato’, ovvero contro «gli esteti puri che proprio sul loro terreno
facevan di solito cilecca e rivelavano i loro limiti poetici, estetici», poiché
privi «di interessi umani, e magari politici e sociali».
Nel 1929, al primo anno della
Facoltà di Lettere e Filosofia di Torino, si unisce alla scoperta dell’Estetica di Croce anche quella del
carcere e per ragioni non troppo distanti: Mila sottoscrive una lettera di
solidarietà al filosofo in seguito al suo noto e isolato discorso contro i Patti
Lateranensi.
L’iniziazione è oramai avvenuta e
dopo un mese e mezzo di carcere Mila è in un certo senso già antifascista
seppure lo stile con il quale racconta queste prime esperienze inclini
piuttosto al picaresco. Come avventurosa e perfino sportiva è la prima
collaborazione a Giustizia e Libertà: «portavo pacchi, diffondevo manifestini, attraversavo
la frontiera a piedi, in sci e in treno tutte le volte che Ginzburg me
l’ordinava».
Nel 1935 un nuovo arresto, questa
volta a seguito della delazione di Pitigrilli all’Ovra, Mila viene condannato a
sette anni di carcere. Alla vita, alle abitudini dei reclusi antifascisti sono
dedicate tante pagine di questi scritti: Mila racconta soprattutto le
esperienze altrui, come quelle di Ernesto Rossi e Riccardo Bauer, mentre alla personale
aneddotica carceraria quasi non concede spazio. Se si va oltre il racconto
però, si può intuire come il IV braccio di Regina Coeli trasfiguri nel corso
degli anni in un luogo della mente, in uno spazio immaginario dove tornare per poter
distillare la realtà e i problemi che essa pone, proprio come nei primi anni
quaranta «ci fu un solo osservatorio in Italia dal quale la vista non fu mai
ottenebrata: la prigione».
Accanto ai ritratti e alle
memorie, il libro raccoglie anche scritti e polemiche apparsi sul quotidiano di
Giustizia e Libertà dal ’45 al ’50. Non si può che provare stupore per la loro
attualità allorché si segua Mila nel racconto degli effetti della dittatura
sugli italiani o piuttosto nella denuncia della «ricostruzione del fascismo
amorosamente coltivata da questo governo (il quinto governo De Gasperi, ndr) e
per tutti gli aspetti ormai completa nella connivenza di tre ingredienti
sostanziali: il grande capitale, l’alta burocrazia e la chiesa».
In queste pagine c’è già la
consapevolezza di come la monumentalizzazione del ricordo sia uno dei migliori
strumenti di rimozione e allora l’autore sente il bisogno di pensare la scelta antifascista
«non commisurando immediatamente il risultato ultimo, la causa finale, quello
che sarebbe venuto chissà quando (…), ma cercando la spiegazione di ogni
singolo fatto nel fatto precedente, una spiegazione immanente e non
finalistica». E non parla forse di noi Mila allorché recensendo le memorie
carcerarie di Michele Giua, di cui era stato in quel frangente compagno,
ricorda: «il tormento di dover contemplare quotidianamente, ed esperimentare a
proprie spese, quello che Goethe definiva il più triste di tutti gli spettacoli
per la mente dell’uomo: l’assurdo incarnato»?
Tanto Mila non cede alla retorica
monumentale quanto rifiuta ogni tentativo (ad esempio nella polemica con
Togliatti) di assoggettare l’arte e la cultura all’impegno direttamente
politico e sociale. Se da un lato infatti all’arte bisogna affidarsi per
«riparare le devastazioni morali che abbiamo sofferto in questi anni»,
dall’altro esse devono restare «esclusivamente, liberamente se stesse:
intisichiscono quando non sono sorrette da una intensa partecipazione umana
agli interessi politici e civili del loro tempo», ma questo deve essere «il
punto di partenza, un impulso motore, non uno scopo».
Seguendo i motivi della libertà di
pensiero e dell’autonomia dell’arte, si può dire che gli Scritti civili (non tanto per la sezione ‘Musica e Cultura’ ma
piuttosto nel loro insieme) sono un’introduzione a tutta l’opera saggistica di Mila.
Basterebbe soltanto provare a leggere quella meravigliosa testimonianza che si
intitola Umanità di Rosselli. È il
racconto di come l’autore, sotto l’auspicio di Ginzburg, si reca a Parigi per
incontrare la prima volta i vertici di Giustizia e Libertà: Garosci, Tarchiani,
Lussu e in particolare Carlo Rosselli; ma accanto a questi uomini la musica
assurge nella storia quasi al ruolo di sesto personaggio. Davanti al sogno di
Parigi, Mila abbandona presto il rammarico per non poter conoscere Stravinskij,
che a Torino avrebbe diretto la Sinfonia
dei Salmi (era l’epoca delle dichiarazioni di ammirazione del compositore
verso Mussolini!), ma all’arrivo scopre che Rosselli è all’Opéra ad ascoltare il
Boris Godunov con il mitico Šaljapin.
«Me n’andai a zonzo per Parigi sfolgorante di luci …»: così comincia la nobile
vicenda di uno studioso della musica…
alias 26 novembre 2011
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