La poesia di Sergej Esenin
(leggi: Jessjénin) ha avuto una sorte singolare nel nostro paese. E' stata tra
le prime, della moderna letteratura sovietica, a venire importata, grazie
soprattutto ad un fervente eseniniano come Renato Poggioli, che tra il 1928 e
il 1940 s'ingegnò di partecipare al pubblico letterario dell'Italia fascista il
grande mito del poeta campagnolo russo; ma anche grazie alla versione di Requiem, fatta nel 1930 da Giuseppe
Ungaretti, e alla bella pagina che ne scrisse Benedetto Croce nel 1944. In
compenso, non è stata particolarmente coltivata dai traduttori (fatta eccezione
per Iginio De Luca), né ha destato particolari riflessioni o analisi critiche.
Curioso esempio, si diceva tempo fa con Giovanni Raboni, che sta a testimoniare
come la ricezione 'poetica' e quella 'culturale' d'un poeta straniero non
necessariamente coincidono, anzi son cose diverse.
Ecco in qualche misura spiegato
anche perché il primo grosso volume che compare in Italia sull'autore di Inonija, del Breviario campagnolo, dell'Uomo
nero, non è opera d'uno studioso italiano bensì d'uno scrittore polacco,
Wiktor Woroszylski (con la collaborazione di Elwira Watala: Vita di Sergej
Esenin, Vallecchi).
Teppista drogato
Personalmente, non sono mai stato
un patito di Esenin; il mio confuso disamore, che con gli anni è divenuto
sempre meno confuso, deriva dalle medesime ragioni che in altri suscitavano
entusiasmo: la poesia contadina (sì, ma d'un contadino approdato a Pietroburgo
in abiti civili, che si mascherava da mugiko per imbrogliare gli intellettuali
cittadini alla ricerca della campagna); i biondi capelli e gli occhioni azzurri
(angelici, sì, ma per circuire le sprovvedute impiegate che 'gli si
concedevano' per ritrovarsi poi madri nubili); le pose da scita, da rivoluzionario
agreste, ma in attesa di scappare a far baldoria in Europa e in America; il
teppista, il drogato, l'alcolizzato, il mettiscandali; l'anima vomitata senza
ritegno, ma bisognosa d'un pubblico che applaudisse. E soprattutto: quel
viscerale amore per la Russia, anzi la Rus', «vasta, boschiva, cerulea», che
celava nel profondo la becerità antisemita, antioccidentale, anti tutto quello
che non fosse il proprio compiaciuto orgoglio grande-russo (non starò certo a
pagare tributi al leninismo di maniera, se ricorderò qui la denuncia fatta da
Lenin dell'alterigia nazionale grande-russa: del resto, è da essa che
discendono — utilizzando non di rado Esenin — tanto il 'russismo' dei settori
più retrivi e ottusi tardo stalinisti, quanto quello, certo più sofferto, ma non
per questo meno retrivo e ottuso, dei dissidenti 'alla Solgenitsyn'). E insieme
a tutto ciò: il giovanotto che gioca a fare il 'vecchio-credente', mentre
all'osteria «sputa il corpo di Cristo»; ovvero, l'ateo, il bezbozhnik militante, che piagnucola: «Ho vergogna d'aver creduto
in dio, / ho amarezza di non credervi più». Insomma, sì, l'eseninismo.
Questa ponderosa biografia
eseniniana rappresenta e documenta da capo a fondo tutto ciò; con evidente
compartecipazione, ma senza riuscire a coinvolgere il lettore che (come nel
nostro caso) non ne fosse già attratto. Wiktor Woroszylski è uno scrittore
polacco d'un certo rilievo che, dopo aver militato per anni tra i 'duri' dell'
ortodossia politica, si ritrova oggi, poco più che cinquantenne, tra i
'clandestini'. Formatosi all' Istituto «Gorki» di Mosca (vi hanno studiato
molti dei più noti scrittori sovietici odierni), non è nuovo a ricostruzioni
biografiche; anni fa stava per essere pubblicata in Italia quella dedicata a
Majakovskij.
Documentatissima, la sua biografia
eseniniana non si lascia sfuggire uno solo dei molti aspetti del poeta, che ne
fanno davvero personaggio da romanzo: dal giovanile rapporto con Kljuev (che
nutriva per lui un'attrazione omosessuale) ai tre successivi e disastrosi
matrimoni, con Zinaida Raich — sarà poi la compagna del regista Vsevolod
Mejerchol'd —, con la celebre ballerina americana Isadora Duncan, infine con
una nipote di Tolstoj, Sofja Andreevna (poco prima di sposarla, confessò ad
amici tra i fumi dell'alcool: «Le ho sollevato un po' la gonna, e ti vedo certe
gambe pelose... Se la tenga pure Pil'njak, io non la voglio, non posso
sposarla...»; insigne esempio di romanticismo) e alle molte altre relazioni,
agli scandali per mezzo mondo, alla cupa disperazione finale, confinante con la
demenza, che lo spinse trentenne al suicidio. Quello che resta un po’ in ombra,
in questa turbolenta storia degli anni folli è la poesia di Esenin, il nesso
tra l’eccentricità del personaggio e la sua voce poetica che, come scrisse
Jurij Tynjanov, è una «banalità epica», che scivola verso «la sciattezza della
poesia generica», dando luogo a versi fatti per una lettura 'leggera', «spesso
cessando d'essere versi».
Carica libertaria
All'indomani del suicidio di
Esenin (28 dicembre 1925), si scatenò in Urss una violenta campagna contro l’eseninismo,
che tendeva a rovesciare sullo sciagurato poeta tutti i modelli di
comportamento 'antisociale' immaginabili: teppismo, ubriachezza, cinismo,
individualismo, misticismo, e — appunto — suicidio. Ne furono interpreti sia i
portavoce dell'ormai vincente linea staliniana (insomma, gli scrittori
'proletari'), sia i loro più acerrimi nemici, i 'futuristi': Aleksej Krucenych
nel solo 1926 pubblicò nove opuscoli antieseniniani (Carla Solivetti ne ha dato
una silloge, due anni fa, su “La rivista europea”, in uno dei quali proclamava
— senz'avvedersi dove avrebbe portato la via indicata — che «Esenin è richiesto
e favorito da: 1 ) banditi e prostitute; 2 ) quelli che fanno le fiche nelle
tasche... Speriamo che siano prese misure perché questa produzione velenosa (le
opere di Esenin) non venga pubblicata».
Non credo che si debba oggi
riprendere quella polemica, assai datata, sull'eseninismo; né accortamente lo
fa Woroszylski. E' anzi da tener presente che una qualche carica libertaria le
poesie di Esenin debbono ben averla, se sono lettura emblematica del 'non
integrato' sovietico; e se, come ricordava Poggioli, venivano avidamente lette,
in traduzione, dai nostri partigiani in montagna.
Tuttavia, questo non smentisce
che si tratti di «versi fatti per una lettura leggera»; e tanto meno sono una
ragione per farsi un mito di «un ragazzo di Rjazan» convintosi d'essere il
poeta più grande, cui sia (dannunzianamente) tutto concesso.
da un ritaglio senza data da "la Repubblica", probabilmente 1980
Nessun commento:
Posta un commento