In una lettera del maggio 1982
Rossana Rossanda, scrivendo a Gabriel Garcia Marquez, propose alcune
valutazioni e rivolse alcune domande allo scrittore latino-americano sull’ultimo
suo romanzo, la Cronaca di una morte
annunciata. I temi dell’interrogazione rossandiana sono soprattutto il
rapporto tra fatalità e responsabilità e del ruolo femminile, ma a tutto è
sotteso un dilemmatico ragionare sulla rivoluzione, sulla involuzione dei “socialismi
reali”, sul che fare. Marquez un paio di mesi dopo rispose, glissando sui temi
generali e riferendosi quasi esclusivamente al suo romanzo, alle scelte che
aveva fato, al rapporto tra letteratura e realtà. Ma, se ben si legge tra le
righe, lo schermirsi dello scrittore rispetto alle intenzioni metaforiche che a
torto molti lettori tendono ad attribuirgli non gli impedire di dare, per via
indiretta, qualche risposta importante. I due testi furono pubblicati sul “manifesto”
nel luglio, qualche mese prima che a Gabriel Garcia Marquez venisse assegnato
il premio Nobel. (S.L.L.)
Il tema è la responsabilità ed è
un tema degli anni '70
di Rossana Rossanda
Gabriel, ho letto la Crònica come nessun altro dei tuoi
libri, fuorché i Cento anni. E più
leggevo, più la differenza fra quei cento anni densissimi — ogni pagina dieci
storie, dieci vite, dieci morti — e questa giornata rarefatta mi colpiva come
una differenza non di stile, ma di visione del mondo. Differentemente da quanto
è scritto sul risvolto di copertina, in Crònica
il protagonista indiscusso non è il tema della fatalità ma quello della
responsabilità. In Cento anni la
fatalità legava la sorte degli uomini quasi alla corsa della natura; Macondo
non riusciva a essere storia. Chi voleva farne intellezione o storia, o
impazziva come Arcadio o perdeva tutte le sue guerre, come Aureliano Buendia.
Il decadimento era ineluttabile e si consuma appunto quando fra un uomo e una
donna non c'è più che il sesso, cioè la natura, e tutto quel che era stato
sognato e pensato si perde, anche la memoria, e si disfa la casa di Ursula. Non
è cosi?
In Crònica l'impossibilità di fermare quello che tutti sanno e non
vogliono, la morte di Santiago Nasar, è un destino? Non mi pare. Essa non è
obbligatoria. Il destino inganna duramente solo la madre di Santiago, facendole
sbarrare la porta che lo salverebbe; tutte le altre volte, lascia agli uomini
la possibilità di giocare le loro carte. E arde per tutto il libro un giudizio
morale non detto sull'inerzia, l'accidia, la fuga di chi le sue carte non le
gioca. Non è così?
La responsabilità del silenzio è
ancora più forte in quanto in Cento anni
gli antichi costumi o favole erano ancora «un valore». Qui non lo sono più.
Sono non più che la ripetizione d'un rito cui nessuno crede. Nessuno crede alla
verginità e all'onore. La vita di Santiago, dei due fratelli, di Angela, di
Bayardo è giocata per niente. Il silenzio è soltanto una resa senza combattere.
Se non lo sapessimo, tu che scrivi e noi che leggiamo, Bayardo non tornerebbe
venti anni dopo da Angela: non perché ha letto le sue lettere, ma perché al
tempo — solo al tempo — è stato lasciato di finire quel che già era finito,
l'onore come sostitutivo dell'identità. Non è cosi?
Il problema di queste ore che
sono la Crònica è che, se non ci
fosse il mito cui nessuno più crede, non ci sarebbero regole di comportamento.
Questa regola morta impone comportamenti al vivi. Impone dei dilemmi: parlare o
tacere? Specie le donne decidono di parlare, ma sono donne e quel che dicono
non conta. I due poveri fratelli urlano addirittura, ma non possono liberarsi da
soli: li prenderebbero per vili. Chi li potrebbe liberare – Aponte, i
funzionari – tace per inerzia, per incertezza, non per destino. Non è così?
Di fronte a questo destino non obbligatorio,
all'individuo non resta che misurare la forza di sopportarlo se ne è vittima.
Non tutti sono vittime, molti sono complici, anche Flora, o Victoria. Uno solo
è vittima assoluta, Santiago, il quale si misura col suo destino
splendidamente, fino alla battuta finale con tua zia. Però c'è un'altra
vittima, specificamente femminile, Angela: la quale anche si misura
valorosamente con il solo dovere che ha, non mentire a se stessa. Non mente,
quando indica In Santiago 11 seduttore: come oggi direbbe una femminista,
potrebbe essere lui o un altro, l'uomo è 11 suo nemico o padrone. E infatti
nessuno si chiede se sia stato lui, né ci crede. Un'altra scopre quanto «le
donne sono sole al mondo». E tu, quando lo hai scoperto? Questa è la prima volta
che lo dici. Da quando sai che è così?
Se tutto il villaggio lascia
controvoglia morire Santiago, rovinarsi Angela e i suoi fratelli, scomparire
Bayardo è perché questo mito già morto dell'onore non solo gli offre alcune
regole, ma è sostitutivo dell'identità. Non ce n'è altra. Se ci fosse stato
Aureliano Buendia, che un'altra identità (cosa a cui credere, idea, principio
di valore) l'aveva, Santiago non sarebbe morto. Ma Aureliano in Crònica è già morto. E già stato
sconfitto da tutti e dalla vita. È un libro degli anni settanta, a eroi morti.
Non è così?
Ma se io lo traduco nella vita nostra,
non trovo in questi dieci anni, oltre a chi irride il mito, molti che non osano
denunciarlo perché temono di perdere con esso quel nocciolo di verità che sta
dietro a ogni «imperativo» morale o sociale? Non tacciamo davanti agli esiti
delle rivoluzioni, cui abbiamo dedicato la vita, per paura che cada l'idea di
rivoluzione, e così la lasciamo assassinare e assassinarsi, divenuta fragile
perché simile all'avversario? Chi crede che la rivoluzione era un'utopia, può
tacere; ma chi non lo crede, non è simile a tutti coloro che tacciono davanti
alla morte annunciata ed evitabile? So quanto è difficile parlare dei
«socialismi reali», specie di Cuba, in America latina. Ma se sono per essa quel
che el honor è in Crònica, l'America latina non è perduta?
Tu che cosa credi?
Il mito è consolatorio, la verità
non sempre lo è. Rincorrere la rivoluzione quando le rivoluzioni sono brutte a
vedersi non è facile. Ma possiamo sfuggire a questo dilemma, noi che ci
crediamo ancora? O sei diventato scettico? Crònica
mi dice che no. Ed il nostro silenzio che descrivi. Que te pasò? ci possono domandare. Que me matàron, possiamo rispondere.
Ti abbraccia Rossana.
Parigi, 9 maggio 1982
Il tema è la fatalità ma non è
una metafora dell’oggi
di Gabriel García Márquez
Mai sono riuscito a capire
interiormente i critici. E neanche molti lettori che credono di vedere nei
libri certi valori che neppure si prospettano nelle intenzioni dell'autore. In Cronaca d'una morte annunciata, cosa che
mi interessò durante i trent'anni buoni nei quali non mi decidevo a scrivere,
fu il fatto fantastico che tutto il villaggio sapeva che Santiago Nasar stava
per essere ammazzato, e che era il solo a non saperlo. Era questo che mi
permetteva non solo di raccontare una storia sorprendente, ma di tentare
un'analisi in profondità della società in cui vivo. Per il resto, era un dramma
ordinario ancora oggi, e non solo in America latina ma in molti paesi del
mondo, Italia compresa.
Negli ultimi anni, poi, scoprii
un elemento del dramma che senza dubbio è l'unico nuovo, e secondo me il più
originale; e cioè che i fratelli che avrebbero ammazzato Santiago Nasar non
avrebbero voluto farlo, ma si sentivano costretti da una coazione sociale. Di
più: in quell'alba sinistra avevano fatto di tutto perché qualcuno glielo
impedisse, e non ci erano riusciti. Fu questa rivelazione che mi decise infine
a scrivere il libro.
2.
In nessun momento ho considerato
la fatalità come fattore determinante del dramma, cosa che invece sembra
interessare più d'ogni altra ai critici. A mio modo di vedere qual che in
questo libro somiglia alla fatalità non è se non un elemento meccanico della
narrazione. Come in Edipo re di
Sofocle, la cui essenza non sta nella fatalità degli eventi, ma nel dramma
dell'uomo in cerca della propria identità e del proprio destino.
Cronaca d'una morte annunciata si basa su un fatto reale che
accadde in Colombia nel 1950, proprio come è raccontato nel libro. Le uniche
varianti che apportai furono superficiali, e rispondevano piuttosto a ragioni
tecniche che letterarie. Il mio lavoro è consistito nello scoprire e mettere in
luce la serie quasi infinita di coincidenze minuscole e concatenate che in una
società come la nostra resero possibile quel delitto assurdo. Tutto era
evitabile e fu la condotta sociale, non il fato, quel che impedì di evitarlo.
In questo senso hai ragione: questo non è il dramma della fatalità, ma della
responsabilità. Di più: della responsabilità collettiva. Credo, anzi, che il
libro finisca con lo screditare il mito della fatalità, dato che ne smonta
pezzo per pezzo le componenti elementari e dimostra che siamo noi gli unici
padroni del nostro destino.
Tutto questo mi pare più evidente
ogni volta che ricordo quel giorno funesto. Io non vi assistei personalmente,
però conoscevo molto bene il luogo e conoscevo molto bene i protagonisti che
erano più o meno tutti gli abitanti del villaggio. Ricordo che quando ebbi la
notizia e conobbi i particolari del delitto, la mia prima reazione fu di
rabbia, precisamente perché tutto mi sembrava evitabile. Da allora ogni
testimone con cui ho continuato a parlarne continua a chiedersi com'è successo
che egli stesso non poté impedirlo, e in tutti ho trovato un'ansia tale di
giustificare quel che fecero quel giorno che m'è parso di riconoscere in questo
un certo sentimento di colpa. E credo che quel che li paralizzò quel giorno fu
la sensazione, consapevole o no, che quel crimine rituale era un atto
moralmente legittimo.
3.
E' curioso che tu menzioni il
gesto della madre che sbarra la porta all'ultimo momento, perché in verità è
l'unico che sembra determinato dal destino; non solo nel libro ma nella realtà.
E per questa ragione sono stato in dubbio molti anni prima di utilizzarlo. Ma
il suo peso reale era troppo grande.
Mia madre, che di fatto era
comare e amica intima di Prudencia Linero, mi fece promettere che non avrei
scritto il libro finché Prudencia Linero era viva. «Morrebbe di dolore se si
vedesse in un libro nell'atto di chiudere quella porta», mi disse mia madre. Io
aspettai finché morì.
L'attesa mi servì a capire che la
madre di Santiago Nasar non era una ruota libera nell'ingranaggio sociale. Come
parevano credere coloro che dicevano che se non fosse stato per quella porta
sbarrata suo figlio non sarebbe stato assassinato. La verità è che lei sbarrò
la porta, come ebbe a spiegare molte volte prima di morire, perché mai avrebbe
creduto che due disgraziati macellai di porci si sarebbero azzardati a uccidere
un giovane ricco, di quelli che abitavano in piazza, segno di distinzione
sociale nel villaggio. Credette che sarebbero venuti a fare pubblicamente uno
scandalo, e chiuse la porta perché non lo facessero dentro casa. Ma questa verità
era debolissima nella dinamica del racconto, e perciò ricorsi a una
mistificazione poetica.
4.
Una delle prime persone che lesse
il libro mi disse: «Questo non è che uno sporco affare di donne».
Un altro mi segnalò che era un
dramma di giovani, perché è vero che nessuno dei protagonisti aveva più di 25
anni, e gli parve di capire che li libro provava come fossero stati i
pregiudizi degli adulti a determinare la tragedia. In ogni caso, la convinzione
mia è che la partecipazione delle donne fu decisiva nella tragedia; e
corrisponde alla mia convinzione che il machismo è un prodotto delle società
matriarcali. Il personaggio che comanda il dramma dall'ombra, è Pura Vicario,
la madre di Angela, e non credo che lo facesse per vocazione, ma perché pensava
che la famiglia non sareb¬be sopravvissuta alla messa al bando sociale se i
suoi figli non l'avessero lavata dall'affronto. Angelo lo scoperse più tardi,
nell'albergo del porto di Riohacha, quando tornò a vedere lo sposo che l'aveva
ripudiata e scoprì che lo amava sopra ogni cosa, e capì che la madre era
l'unica responsabile della sua disgrazia.
Il personaggio di Clotilde
Armenta, che nella realtà non è esistita, lo inventai di sana pianta perché mi
occorreva come una replica alla madre di Angela Vicario. La costruii man mano
che scrivevo, e a ogni passo mi rendevo conto che la sola cosa che potesse fare
per impedire il crimine era chiedere aiuto ad altri, e quasi sempre di uomini.
Era una verità non solo dentro alla finzione narrativa, ma dentro alle
condizioni sociali del villaggio. Al culmine del dramma dovetti scoprire io
stesso, come attraverso un'illuminazione, dove si radicava l'impotenza di
Clotilde Armenta a impedire il delitto e feci che dicesse: «Miodio, come sono
sole le donne al mondo» Solo allora lo seppi, però nel saperlo mi resi conto
che lo sapevo dà molti anni e non riuscivo a spiegarlo neanche a me stesso. Per
questo ho detto qualche volta che scrivo per cercar di capire molte cose che
non capisco. Credo, infine, che ciò che più rivela l'ingiustizia e miseria di
quella società è che la donna più libera del villaggio, anzi l'unica libera, è
Maria Aleandrina Cervantes, la Puttana Grande.
5.
Le vere circostanze per cui
Bayardo tornò alla moglie ripudiata non furono quelle dette nel libro. Devo
riconoscere che in questo caso la realtà è più istruttiva. Prima di tutto, non
sono esistite le lettere. Di modo che hai ragione quando dici che non furono
queste a determinare il ritorno di Bayardo San Roman; ma «perché, al tempo è
stato lasciato di finire quel che già era finito, l'onore come sostitutivo
dell'identità». Nella realtà fu l'uomo a fare ogni tipo di manovra segreta per
essere ricevuto da Angela, e fu lei che non lo ricevette, con l'argomento che
non voleva dare alla madre un così grande dolore finché era viva.
Quel che mi interessa ora è che
questo tentativo di riconciliazione fu immediatamente noto fra i sopravvissuti
al dramma; e questi ne divulgarono la versione come se fosse un fatto compiuto
che i due vecchi sposi sarebbero tornati a riunirsi e sarebbero vissuti felici
fino alla morte. Dovettero sentire che tutti avevamo bisogno di questa
riunificazione, perché era come la fine della colpa collettiva, come se il
disastro di cui tutti eravamo colpevoli ne venisse non solo riparato ma
cancellato per sempre dalla memoria sociale. Mai ho pensato — come tu sembri
pensare — che tutto questo fosse una metafora del mondo d'oggi.
Parigi, 8 luglio 1982
“il manifesto”, 11 luglio 1982
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