Antonio Canova, Ercole e Lica, |
Seneca, in quanto sceglieva di
scrivere tragedie, s'inseriva nella tradizione di un genere letterario diverso
da quello delle opere filosofiche e, pur innovando, non compiva certo
l'operazione meccanica di mettere in versi la propria filosofia, trascurando
tutto il patrimonio di rappresentazione di passioni, e di stile poetico, che
gli veniva non solo da Euripide, ma da secoli di tragedia greca e romana (e
anche da poeti non di tragedie, come Virgilio e l'Ovidio delle Metamorfosi, continuamente da lui
imitati). Ciò si può dire anche prescindendo dai passi, non molti e non molto
utili, in cui Seneca parla della poesia nelle opere filosofiche (non si riesce,
in complesso, a ricavare da questi passi una « estetica di Seneca » che aiuti
granché a capire le sue tragedie), e anche rassegnandoci a sapere troppo poco
sia sui modelli delle tragedie latine dell'età repubblicana, sia su quelli, a
noi ancor più ignoti, dell'età imperiale.
Una cosa almeno rimane certa:
quella tendenza alla Pathetisierung (pateticità,
nsll) che, in maggior misura che nella tragedia greca, è stata osservata nella
tragedia romana fin da Ennio (cfr. W. Roeser, Ennius, Euripides uni Homer, Wùrzburg 1939: ricordo questo lavoro,
a preferenza di altri posteriori anch'essi pregevoli, perché lo vedo troppo
poco citato) e si manifestò ancor più forte in Accio (cfr. adesso Rita
Degl'Innocenti Pierini, Studi su Accio,
Firenze 1980) e molto probabilmente continuò nei tragici della prima età
imperiale come Vario, vien fatta propria da Seneca. Il passaggio dalla tragedia
rappresentata in teatro alla tragedia letta o recitata non segnò una frattura
in questa tendenza, anzi dovette potenziarla, perché quella parte di pathos che
nella tragedia rappresentata era espressa con mezzi scenici, «visivi» (e nella
tragedia greca, e in certa misura forse anche nella romana arcaica, con mezzi
musicali), ora rimaneva affidata esclusivamente alla parola. Inoltre la
tragedia recitata era diventata sempre più affine alle declamazioni retoriche:
Seneca padre fu un modello non trascurabile per le tragedie del figlio. Tutto
ciò dimostra quanto sia fuorviante cercar d'interpretare una tragedia di Seneca
prendendo come solo termine di confronto le opere filosofiche di Seneca stesso
o, peggio ancora, una generica e indifferenziata «filosofia stoica».
Da Un nuovo commento all’“Hercules furens” in “Atene e Roma”, Anno
XXVI, fasc.3-4, 1981
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