La scoperta e la pubblicazione
una quindicina di anni fa dei documenti sul “tradimento” di Silone hanno
alimentato lunghe controversie tra gli storici, anche se i più oramai
circoscrivono a un paio d’anni (1928-1930) l’attività di informatore della
polizia fascista da parte dello scrittore e la collegano alla preoccupazione
per la sorte del fratello, militante del Pci, incarcerato e torturato in
diverse carceri italiane (tra cui Perugia), fino alla morte nella prigione di
Procida. Nel 2007 lo storico Giovanni De Luna volle fare il punto sulla
controversia, tentando una lettura diversa di tutta la questione. La sua
lettura, seppure non banale, soffre di una malattia endemica della cultura italiana,
il benaltrismo. (S.L.L.)
Ignazio Silone |
Uno dei più grandi scrittori del
Novecento italiano è stato una spia, ha tradito i suoi compagni, ha vissuto la
sua giovinezza all’insegna della doppiezza, del camuffamento opportunistico,
sprofondato nello squallore di un’esistenza oscuramente torbida. Secondo Dario
Biocca, il più strenuo dei suoi accusatori, Silone collaborò con la polizia
fascista ininterrottamente a partire dal 1919, quando aveva appena compiuto 19
anni. Sul fronte opposto Giuseppe Tamburrano ha giudicato false o inattendibili
le prove documentarie citate da Biocca, ridimensionando a «leggerezza» i
rapporti di Silone con l’OVRA, circoscrivendoli al biennio 1928-1930.
Sostanzialmente i fatti sono
questi. Silone era allora saldamente inserito ai vertici del Partito comunista
italiano. Dopo un attentato terroristico, nel 1928, suo fratello Romolo fu
arrestato con imputazioni gravissime che comportavano la pena di morte. Per
salvarlo, lo scrittore si mise in contatto con una sua vecchia conoscenza, l’ispettore
di polizia Guido Bellone, promettendo e inviando una serie di informazioni
sulle strutture clandestine del Pci. Romolo scampò alla pena di morte ma fu
condannato dal Tribunale speciale a 12 anni di reclusione; morì nel 1932, nel
carcere di Procida, a soli 28 anni per le conseguenze delle torture subite. A
quel punto, però, la «collaborazione» era finita; una sua lettera a Bellone del
13 aprile 1930 può ritenersi conclusiva della vicenda. Silone smise di fare
l’informatore. Il 4 luglio 1931 fu espulso dal Pci e smise anche di fare il
comunista. Nel 1933 pubblicò, in tedesco, il suo capolavoro, il romanzo Fontamara. Dalle spoglie della spia e
del militante era nato il talento di un grande narratore.
Veramente credo che questa nuda
sequenza cronologica ci consenta di spostare la nostra attenzione verso uno
scenario molto più vasto di quello evocato dalle carte di polizia e dall’infido
mondo degli informatori; è quello che Sergio Soave, con una definizione di
straordinaria efficacia, ha chiamato «la notte di Silone», quel buio periodo di
due anni nei quali il rapporto con Bellone fu solo uno degli elementi che
caratterizzarono «lo sbandamento emotivo, ideologico, politico» vissuto dallo
scrittore. Le sue mosse si fecero incerte e contraddittorie: intrecciò buoni
rapporti con Salvemini rompendo con il settarismo comunista, ma tramava con
Tresso contro Togliatti e scavalcava a sinistra Longo e Secchia, in un percorso
accidentato attraversato da angosce esistenziali e dubbi politici. Se si vuole
capire la complessità del Silone di quei due anni non bisogna guardare alla
«spia» ma al «militante» che sta per lasciare il Pci e ha imboccato la strada
verso l’«uscita di sicurezza» che porterà alla sua espulsione dal partito.
Oggi, appare veramente difficile
far capire ai giovani la drammaticità di quella scelta, di cosa comportasse la
rottura con il partito. Nel modello cospirativo del Pci il riferimento
ossessivo alla segretezza e alla vigilanza per proteggere l’organizzazione
costituiva una prospettiva in cui la lotta contro «le spie» rappresentava una
priorità assoluta, affrontata con dura intransigenza sul piano delle direttive
dall’alto, («Non bisogna allarmarsi, bisogna continuare il lavoro come prima e
più di prima; non si deve vedere una spia in ogni angolo e andar cauti prima di
affermare che un elemento é una spia. Ma quando si é certi, la spia deve essere
resa innocua, il che in questo caso significa annientarla, ucciderla»), vissuta
come un vero e proprio incubo dalla base: «Non parlare con nessuno e fa in modo
che tutti ignorino la tua vera causa. Guàrdati da tutti. Tutti sono spie. Tutti
sono traditori, perversi», scriveva ad esempio, nel 1927, il militante Vincenzo
Mazzone, al suo compagno Peppino Celeste.
I «guasti» peggiori si
registravano quando l’incubo delle spie si intrecciava con le dispute
dottrinarie e lo scontro ideologico sulla «linea» da seguire; i comunisti erano
troppo pochi, il loro mondo troppo piccolo, perché tra i compiti della
vigilanza rivoluzionaria, la battaglia per il rispetto dell’ortodossia e le
rivalità, le inimicizie personali non si stabilisse, a volte, un intricato
viluppo. Spesso capitava che i militanti si pedinassero e si scrutassero a
vicenda, in un inestricabile groviglio in cui, a un certo punto, non si capiva
più chi era il poliziotto, chi la spia e chi il compagno. Quando Emilio Sereni
si recò in URSS, il Paese del comunismo lo accolse con polizia, interrogatori,
arresto. «Non si stupì - ha scritto sua figlia Clara -. Conosceva le tortuose
teorie di Stalin sui controrivoluzionari e concordava con lui - con il Partito -
sulla necessità di guardarsi da se stessi... Si disse che tutto questo e
l’altro che si poteva intuire era giusto, anzi necessario. Così alto era il
fine - un destino collettivo potenzialmente perfetto - che gli inciampi del
singolo cammino non potevano avere importanza».
Lo squallore della vita
quotidiana condotta in ossequio rigoroso alle regole della cospirazione («Una
vita d’inferno, non eroica, nascosti con carte false, passando da una riunione
all’altra, oppure chiusi in povere abitazioni illegali a scrivere articoli e a
studiare pile di documenti... con orari di lavoro che duravano 14 o 16 ore»)
poteva essere riassorbito e sopportato solo, come scrisse Giorgio Amendola,
«con la coscienza che gli interessi generali dovevano essere superiori agli
interessi personali».
Il settarismo, l’ostinata
chiusura verso l’esterno, il «sospetto» assunto come norma anche nei rapporti
umani e affettivi, una rappresentazione di se stessi legata all’interpretazione
totalizzante della propria militanza politica. Avevano, insomma, una fede da
testimoniare. Ma c’era ovviamente un prezzo da pagare: gli avversari erano
tutti «nemici»; i dissensi interni, le rinunce alla militanza politica, erano
eventi altamente drammatizzati. L’incubo degli «eretici» e dei «traditori»
rendeva molto improbabile che un «compagno» potesse diventare anche un amico.
Di qui le condizioni sempre drammatiche che segnavano la rottura con il
partito.
Non era solo questione di
cambiare le proprie convinzioni politiche. Si trattava di una vera e propria
scelta di vita contraria e opposta a quella fatta nel momento dell’adesione al
Pci. Con l’abiura, crollava un mondo intero, spesso anche la speranza per il
proprio riscatto individuale. Il comunista che si allontanava dal partito
poteva farlo con protervia, con dolore, con ironia, con amarezza, ma sempre e
comunque attraverso un proprio totale coinvolgimento emotivo. «Avrei potuto
difendermi, - scrisse Silone in Uscita di
sicurezza, a proposito della sua espulsione -. Avrei potuto provare la mia
buona fede. Avrei potuto dimostrare la mia non appartenenza alla frazione
trotzkista. Avrei potuto precisare... avrei potuto, ma non volli... Era meglio
finirla una volta per sempre. Non dovevo lasciarmi sfuggire quella nuova,
provvidenziale occasione, quell’”uscita di sicurezza”... Era finito. Grazie a
Dio».
In questo sospiro di sollievo c’è
il vero Silone di allora.
"La Stampa", 1 agosto 2007
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