9.11.13

La buona fede di Silone: "Addio Pci, grazie a Dio" (Giovanni De Luna)

La scoperta e la pubblicazione una quindicina di anni fa dei documenti sul “tradimento” di Silone hanno alimentato lunghe controversie tra gli storici, anche se i più oramai circoscrivono a un paio d’anni (1928-1930) l’attività di informatore della polizia fascista da parte dello scrittore e la collegano alla preoccupazione per la sorte del fratello, militante del Pci, incarcerato e torturato in diverse carceri italiane (tra cui Perugia), fino alla morte nella prigione di Procida. Nel 2007 lo storico Giovanni De Luna volle fare il punto sulla controversia, tentando una lettura diversa di tutta la questione. La sua lettura, seppure non banale, soffre di una malattia endemica della cultura italiana, il benaltrismo. (S.L.L.)
Ignazio Silone
Uno dei più grandi scrittori del Novecento italiano è stato una spia, ha tradito i suoi compagni, ha vissuto la sua giovinezza all’insegna della doppiezza, del camuffamento opportunistico, sprofondato nello squallore di un’esistenza oscuramente torbida. Secondo Dario Biocca, il più strenuo dei suoi accusatori, Silone collaborò con la polizia fascista ininterrottamente a partire dal 1919, quando aveva appena compiuto 19 anni. Sul fronte opposto Giuseppe Tamburrano ha giudicato false o inattendibili le prove documentarie citate da Biocca, ridimensionando a «leggerezza» i rapporti di Silone con l’OVRA, circoscrivendoli al biennio 1928-1930.
Sostanzialmente i fatti sono questi. Silone era allora saldamente inserito ai vertici del Partito comunista italiano. Dopo un attentato terroristico, nel 1928, suo fratello Romolo fu arrestato con imputazioni gravissime che comportavano la pena di morte. Per salvarlo, lo scrittore si mise in contatto con una sua vecchia conoscenza, l’ispettore di polizia Guido Bellone, promettendo e inviando una serie di informazioni sulle strutture clandestine del Pci. Romolo scampò alla pena di morte ma fu condannato dal Tribunale speciale a 12 anni di reclusione; morì nel 1932, nel carcere di Procida, a soli 28 anni per le conseguenze delle torture subite. A quel punto, però, la «collaborazione» era finita; una sua lettera a Bellone del 13 aprile 1930 può ritenersi conclusiva della vicenda. Silone smise di fare l’informatore. Il 4 luglio 1931 fu espulso dal Pci e smise anche di fare il comunista. Nel 1933 pubblicò, in tedesco, il suo capolavoro, il romanzo Fontamara. Dalle spoglie della spia e del militante era nato il talento di un grande narratore.
Veramente credo che questa nuda sequenza cronologica ci consenta di spostare la nostra attenzione verso uno scenario molto più vasto di quello evocato dalle carte di polizia e dall’infido mondo degli informatori; è quello che Sergio Soave, con una definizione di straordinaria efficacia, ha chiamato «la notte di Silone», quel buio periodo di due anni nei quali il rapporto con Bellone fu solo uno degli elementi che caratterizzarono «lo sbandamento emotivo, ideologico, politico» vissuto dallo scrittore. Le sue mosse si fecero incerte e contraddittorie: intrecciò buoni rapporti con Salvemini rompendo con il settarismo comunista, ma tramava con Tresso contro Togliatti e scavalcava a sinistra Longo e Secchia, in un percorso accidentato attraversato da angosce esistenziali e dubbi politici. Se si vuole capire la complessità del Silone di quei due anni non bisogna guardare alla «spia» ma al «militante» che sta per lasciare il Pci e ha imboccato la strada verso l’«uscita di sicurezza» che porterà alla sua espulsione dal partito.
Oggi, appare veramente difficile far capire ai giovani la drammaticità di quella scelta, di cosa comportasse la rottura con il partito. Nel modello cospirativo del Pci il riferimento ossessivo alla segretezza e alla vigilanza per proteggere l’organizzazione costituiva una prospettiva in cui la lotta contro «le spie» rappresentava una priorità assoluta, affrontata con dura intransigenza sul piano delle direttive dall’alto, («Non bisogna allarmarsi, bisogna continuare il lavoro come prima e più di prima; non si deve vedere una spia in ogni angolo e andar cauti prima di affermare che un elemento é una spia. Ma quando si é certi, la spia deve essere resa innocua, il che in questo caso significa annientarla, ucciderla»), vissuta come un vero e proprio incubo dalla base: «Non parlare con nessuno e fa in modo che tutti ignorino la tua vera causa. Guàrdati da tutti. Tutti sono spie. Tutti sono traditori, perversi», scriveva ad esempio, nel 1927, il militante Vincenzo Mazzone, al suo compagno Peppino Celeste.
I «guasti» peggiori si registravano quando l’incubo delle spie si intrecciava con le dispute dottrinarie e lo scontro ideologico sulla «linea» da seguire; i comunisti erano troppo pochi, il loro mondo troppo piccolo, perché tra i compiti della vigilanza rivoluzionaria, la battaglia per il rispetto dell’ortodossia e le rivalità, le inimicizie personali non si stabilisse, a volte, un intricato viluppo. Spesso capitava che i militanti si pedinassero e si scrutassero a vicenda, in un inestricabile groviglio in cui, a un certo punto, non si capiva più chi era il poliziotto, chi la spia e chi il compagno. Quando Emilio Sereni si recò in URSS, il Paese del comunismo lo accolse con polizia, interrogatori, arresto. «Non si stupì - ha scritto sua figlia Clara -. Conosceva le tortuose teorie di Stalin sui controrivoluzionari e concordava con lui - con il Partito - sulla necessità di guardarsi da se stessi... Si disse che tutto questo e l’altro che si poteva intuire era giusto, anzi necessario. Così alto era il fine - un destino collettivo potenzialmente perfetto - che gli inciampi del singolo cammino non potevano avere importanza».
Lo squallore della vita quotidiana condotta in ossequio rigoroso alle regole della cospirazione («Una vita d’inferno, non eroica, nascosti con carte false, passando da una riunione all’altra, oppure chiusi in povere abitazioni illegali a scrivere articoli e a studiare pile di documenti... con orari di lavoro che duravano 14 o 16 ore») poteva essere riassorbito e sopportato solo, come scrisse Giorgio Amendola, «con la coscienza che gli interessi generali dovevano essere superiori agli interessi personali».
Il settarismo, l’ostinata chiusura verso l’esterno, il «sospetto» assunto come norma anche nei rapporti umani e affettivi, una rappresentazione di se stessi legata all’interpretazione totalizzante della propria militanza politica. Avevano, insomma, una fede da testimoniare. Ma c’era ovviamente un prezzo da pagare: gli avversari erano tutti «nemici»; i dissensi interni, le rinunce alla militanza politica, erano eventi altamente drammatizzati. L’incubo degli «eretici» e dei «traditori» rendeva molto improbabile che un «compagno» potesse diventare anche un amico. Di qui le condizioni sempre drammatiche che segnavano la rottura con il partito.
Non era solo questione di cambiare le proprie convinzioni politiche. Si trattava di una vera e propria scelta di vita contraria e opposta a quella fatta nel momento dell’adesione al Pci. Con l’abiura, crollava un mondo intero, spesso anche la speranza per il proprio riscatto individuale. Il comunista che si allontanava dal partito poteva farlo con protervia, con dolore, con ironia, con amarezza, ma sempre e comunque attraverso un proprio totale coinvolgimento emotivo. «Avrei potuto difendermi, - scrisse Silone in Uscita di sicurezza, a proposito della sua espulsione -. Avrei potuto provare la mia buona fede. Avrei potuto dimostrare la mia non appartenenza alla frazione trotzkista. Avrei potuto precisare... avrei potuto, ma non volli... Era meglio finirla una volta per sempre. Non dovevo lasciarmi sfuggire quella nuova, provvidenziale occasione, quell’”uscita di sicurezza”... Era finito. Grazie a Dio».

In questo sospiro di sollievo c’è il vero Silone di allora.

"La Stampa", 1 agosto 2007

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