Voltaire |
Nel 1759 il Candide di Voltaire affacciò il suo volto bianco sulla scena
letteraria francese, e fu subito smascherato. Dietro quel volto, in cui
chiunque poteva identificarsi, si era combattuta una dura battaglia contro
l’ottimismo, la fiducia nella bontà dell’uomo, della Provvidenza divina e della
chiesa cattolica.
Chi si riconobbe in quel Candide, desolato infine ma mai vinto,
accettò l’educato pessimismo di questo conte
philosophique, un gelido soffio che veniva dal futuro. Ma ci fu chi lo
proibì proprio per la sobrietà di quella rivolta, ostinata e cavillosa, ma
senza violenze, accuse, grida. Su due fatti storici inconfutabili si sosteneva
la tesi manicheista di Voltaire: il terremoto di Lisbona che aveva causato
migliaia di vittime e l’operato iniquo dell’Inquisizione.
Candide, l’amata Cunegonda,
l’euforico Pangloss e lo scettico Martin, il loro disgraziato seguito, come
ectoplasmi non personaggi, trascorrono tra avventure e disavventure dal Vecchio
al Nuovo Mondo, fanno una puntata nel felice Eldorado dove non riescono a
vivere, muoiono ma risorgono per arrivare a quel finale emblematico, a quel
giardino che, ormai rassegnati, dovranno coltivare col duro lavoro delle
braccia.
Ma quel giardino non sarà copia
di quello edenico, in cui si incontrano malintenzionati serpenti, e mele
avvelenate? Voltaire tace.
Da Candide nel Nuovo Mondo, in “alias domenica – il manifesto”,
15.1.2012
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