Storia di una canzone che è anche
storia di un tempo e di un mondo. Articolo splendido, da rammentare,
incorniciare. (S.L.L.)
La nostalgia di un fuorilegge
Una delle canzoni più popolari del
repertorio patriottico a stelle e strisce fu praticamente improvvisata durante
un concerto in un club di Los Angeles, nel maggio del 1970. Mickey Newbury, che
la eseguì incollando tre brani tradizionali, aveva 30 anni. Texano, era già un
affermato e prolifico autore country
e rhythm’n’blues, sotto contratto con
le edizioni Acuff Rose di Nashville. Aveva scritto hit minori per Jerry Lee
Lewis e Ray Charles. E aveva una bella voce tenorile, forse poco giovanile per
i tempi. Però la sua immagine e le sue nuove canzoni – suonate con gli stessi
musicisti del Dylan nashvilliano - erano comunque oltre ogni immaginazione per
gli ultraconservatori della città del country.
Outlaw, li avrebbero chiamati di lì a
poco: i fuorilegge. Kriss Kristofferson, Wille Nelson, Townes Van Zandt. Newbury
stava aprendo loro la strada.
Los Angeles, pomeriggio.
Retropalco del Bitter End West. In cartellone per la serata, Mickey Newbury discute
animamente con David Steinberg, il comico ebreo canadese popolarissimo per aver
fatto impazzire i controllori dei network televisivi con certi stralunati
sermoni da finto predicatore. I due parlano del pessimo rapporto tra il country di Nashville e la controcultura
giovanile. Poi commentano le notizie secondo cui Dixie, il vecchio inno sudista suonato dalle bande scolastiche nelle
gare sportive, viene apertamente contestato dai ragazzi neri nelle scuole del
sud. Newbury non è d’accordo. «Non c’è niente che rende una canzone come questa
patrimonio esclusivo degli estremisti», sostiene. Ricorda che lo stesso
presidente Lincoln volle che Dixie
fosse eseguita sui gradini della Casa Bianca il giorno della fine della Guerra Civile.
Ha un’idea: la suonerà questa sera. Avverte il proprietario del locale, Paul
Colby, che lo invita a lasciar perdere per evitare contestazioni. «Chiama le
squadre antisommossa», taglia corto Newbury.
Da poche settimane le truppe americane
sono entrate in Cambogia. Durante le manifestazioni contro
l'invasione, alla Kent University
quattro ragazzi sono stati uccisi della polizia. Four dead in O-hi-o, il grido di dolore di Neil Young. L’appello del
presidente Nixon alla «maggioranza silenziosa» lavora sempre più ai fianchi
l’identità americana. E’ un paese diviso in due quello nel quale Newbury
inscena la sua minuscola provocazione. «Fu una di quelle serate irripetibili –
ha ricordato una volta – Tra il pubblico c’erano Joan Baez, Odetta, Cass Eliott
(dei Mama’s and Papa’s, ndr)». La moglie di Newbury aggiunge che «a un certo
punto entrò nel locale Barbara Streisand e invitò Kriss Kristofferson ad
andarsene da un’altra parte. Ma Kriss la convinse a rimanere».
Sul palco Newbury arpeggiò appena
il tema di Dixie, rallentato fino a
renderlo irriconoscibile. Poi cominciò a cantare con la voce sommessa, ma
ferma: «I wish I was in the land of cotton…». Vorrei tornare nella terra del
cotone/ le vecchie cose non si dimenticano. In sala scese immediatamente il
silenzio. Dixieland è dove sono nato/ Signore, un mattino gelido.
La canzone, in origine una
marcetta da blackface minstrel show,
era stata scritta alla metà dell’Ottocento. Dipinge la nostalgia di uno schiavo
liberato per la piantagione dov’è nato, e alla quale vorrebbe tornare. Nella
versione originale, il contrasto tra la lingua caricaturale dello schiavo e il
sentimento di nostalgia per il luogo natio, col fantasma dello schiavismo che
domina la scena, è spaventosamente crudele. Più avanti le varianti al testo
recitavano episodi della guerra di Secessione e la nostalgia si spostava verso
un mitico Sud che non prometteva nulla di buono.
Dopo le prime due strofe di
Dixie, alternando effetti di falsetto e parlato, Mickey Newbury alzò la testa. Vide
Odetta – la cantante nera, una delle icone del folk revival – in prima fila,
con gli occhi pieni di lacrime, travolta da quell’interpretazione, dalla stessa
nostalgia crudele di cui è fatta la Storia. Non ci pensò un attimo. Proseguì
senza fermarsi: «Glory Glory Halleluiah…».
Il ritornello di Battle Hymn of Republic, l’inno della Guerra Civile americana,
il canto di quelli che stavano dalla parte giusta. Solo un lampo.
Concluse la sua trilogia
americana coi versi della terza canzone, una ninnananna: «Hush little baby don’t
you cry...» Taci bambina, non piangere/ lo sai, tuo papà sta per morire/ Ma
tutti i miei Dolori, signore/ Presto finiranno. Era la ninna nanna degli
schiavi giamaicani, All my trials,
un'altra canzone che non sai se di speranza o di disperazione. Adottata dal
movimento per i diritti civili, venne cantata da Pete Seeger e Joan Baez, in
seguito da Paul Mc-Cartney, ne esiste persino una versione registrata in casa
da un giovanissimo Nick Drake con sua sorella.
Dopo l'ultima nota della trilogia
americana tutti si alzarono in piedi ad applaudire. La provocazione di Newbury
aveva evidentemente toccato una corda profonda, la stessa che risuonava in
Woody Guthrie, quella che erediterà tempo dopo un certo Springsteen. La canzone
fu incisa dal cantante un anno dopo, col suono di un’armonica e pochi archi aggiunti
all’arpeggio di chitarra improvvisato quella sera. Venne pubblicata sull’lp Frisco Mabel joy e stette parecchie
settimane nella classifica dei dischi più venduti in America.
Fu in questo modo che arrivò alle
orecchie di Elvis Presley. Elvis, a dire il vero, interpretò una delle 400
versioni attualmente esistenti di American Trilogy. Inutile aggiungere che la
sua fu la più famosa di tutte. Nel 1970 il Re del Rock si stava incamminando sull'ultimo
tratto di strada della carriera e della sua vita. Era l'Elvis del concerto alle
Hawaii del 1973, teletrasmesso – si calcola - a un miliardo di telespettatori
in quaranta paesi. L'Elvis della grandeur faraonica, che si era fatto disegnare
simboli egizi sul costume di scena bianco, e si copriva la pancia con una
grande cintura da campione di pugilato. Grasso, drogatissimo, bulimico, maniaco
di ogni cosa. Fotografato col presidente Nixon nello Studio Ovale. Presunto collaboratore
della Cia. Una metafora dell'America. Elvis aveva bisogno di una canzone che
segnasse la sua maturità di interprete e la trovò in American Trilogy. Per la
sua versione non si avvicinò neppure al pathos trattenuto di Newbury; scelse un
delirio da tardo western in cinemascope. «I wish I was in the land of cotton», sussurrava all'inizio Presley. Poi,
per evitare eventuali infortuni vocali, passava furtivo la palla ai coristi dei
Jordanaires. «Sing it, fella», sussurrava. Nella seconda parte, quella di Glory Glory Halleluiah, entrava un
marziale, inutile, rullo di tamburo. Elvis gigioneggiava, si fermava, riprendeva
a cantare. Eppure era impossibile, nel mezzo di tutto quel kitsch da effetti
speciali, non cogliere un brivido di emozione quando, da uomo del Sud anche lui,
cresciuto proprio come Newbury ascoltando e amando la musica dei neri, cantava:
Dixieland è dove sono nato, in un gelido mattino. Per cinque anni American Trilogy fu inclusa nella
scaletta dei suoi spettacoli, fino a raggiungere lo status di Gran Finale. Fino
a una notte del 1977 a Las Vegas, quando uno strano presentimento aleggiò sopra
tutta l'esecuzione.
Elvis cantò malissimo, disturbato
soprattutto dalla cigolante discesa di uno schermo circolare sul quale qualcuno
aveva avuto la brillante idea di proiettare vecchie foto di schiavi del Sud e
scene di guerra civile americana. A Las Vegas, dove il pubblico mangiava
bistecconi fumanti e le signore si azzuffavano per raggiungere una sciarpa
lanciata dal Re, non sembrava proprio il caso. Elvis chiuse la canzone in
fretta, salutò e si chiuse in camerino a sbollire la rabbia. Ci volle tutta la
pazienza del suoi per calmarlo e riportarlo a casa. Quella notte, stroncato da
un cocktail di medicine, morì nel sonno.
Mickey Newbury è morto nel 2002.
I suoi primi 4 album, incisi tra il 1968 e il 1972, e di assoluto culto, sono
stati appena ripubblicati in cofanetto dall’etichetta indipendente americana
Drag City.
“alias – il manifesto”, 21 maggio
201
2 commenti:
Ma che stupidaggini scrivete su Elvis! 'quella notte (dopo il concerto) morì' ma come si può essere cosi male informati, elvis morì un mese e mezzo dopo il suo ultimo concerto. Le sue esecuzioni di An american Trilogy sono da sballo, ossia più che eccellenti, per non dire di una delle più belle nel concerto in mondovisione di Aloha che chiunue può ascoltare su youtube. Se la storia che viene raccontata ha la stessa veridicità di ciò che si afferma su Elvis meglio non averla scritta prchè si tratta di 'disinformazione dannosa e galoppante'
Mariagrazia, non sono così esperto delle cose di Elvis Presley da intervenire sulla polemica che lei intraprende contro il bell'articolo di Piccinini che ho ripreso da un "manifesto" di molti anni fa. Si tratta di un giornalista generalmente affidabile, ma non sono in grado di garantire la veridicità dei particolari. Saranno eventualmente dei frequentatori del blog appassionati ed esperti della materia a chiarire i dubbi. Le devo dire con franchezza, invece, che trovo poco gradevoli i suoi modi aggressivi, purtroppo in linea coi pessimi tempi che stiamo attraversando.
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