1934 . L'Italia col braccio teso allo stadio Flaminio di Roma |
Negli anni ’30 l’obbligo per
squadre di calcio italiane di fare il saluto romano all'entrata in campo faceva
parte del regolamento del gioco. A teorizzarne la pratica fu Lando Ferretti,
primo presidente del Coni posto sotto diretto controllo del regime nel 1925, il
quale «annunciò appena insediato che il saluto romano sarebbe stato
obbligatorio prima dell'inizio di ogni partita». Citiamo da un recente saggio
dello storico inglese Simon Martin su Football
and fascism (Berg Publisher), che torna in un terreno solo parzialmente
frequentato dagli storici italiani (due anni fa era uscito un analogo Lo sport nella propaganda fascista, di
Andrea Bacci). Martin ricorda ancora come «la sostituzione del tradizionale hip! hip! hurrà col più romano Eja Eja Alalà dimostra come la nazionalizzazione
del gioco si estendesse anche ai giocatori».
Il punto cruciale di questo
genere di studi è da sempre questo: quanto giocatori e allenatori, ma anche
semplici tifosi, furono veramente consapevoli della politicizzazione, cui il
regime cercò di sottoporre il calcio? Il fascismo infatti pose le basi dello
spettacolo popolare che oggi ancora conosciamo, con la costruzione dei grandi
stadi e la creazione dell'apparato massmediatico. Tentò anche - lo ricorda
Martin - di piegare il calcio alle sue esigenze ideologiche. «Il programma del
regime fu simboleggiato dalla figura dell’Italiano Nuovo, le cui caratteristiche
mitiche erano evidenti nella maniera in cui i calciatori fascisti mostravano
eroismo, sacrifico e attaccamento alla causa della squadra». Si aggiungerà che
una cosa era la teoria - ben simboleggiata dalla prosa ultraretorica della “Gazzetta
dello sport” di Bruno Roghi - e una cosa era la pratica. Secondo Antonio Papa e
Guido Panico, autori di una Storia
sociale del calcio in Italia, «numerose sono state le testimonianze di
giocatori del tempo che hanno negato ogni interferenza dei dirigenti fascisti
nella loro vita sportiva (...) Agli inizi degli anni '30, quando il saluto con
il braccio teso era divenuto usuale non mancò chi si astenne dal farlo. La cosa
era attribuita dai dirigenti fascisti à purismo calcistico, senza conseguenze
politiche».
Una delle testimonianze
significative, da questo punto di vista, resta quella di Aldo Olivieri portiere
della Lucchese prima e del Torino poi, ma soprattutto estremo difensore della
Nazionale che vinse il Mondiale a Parigi nel 1938: «Quando giocavo fui punito
in un solo caso - raccontava il giocatore qualche anno fa - Entrai in campo
senza fare il saluto romano, strinsi la mano al capitano avversario e l'arbitro
me la fece pagare». Una testimonianza che apparentemente mette in discussione
la cautela con la quale gli storici hanno affrontato la fascistizzazione del
calcio italiano. Olivieri aggiunge subito che «sì, eravamo obbligati a fare il
saluto, a recitare, e io recitavo».
Proprio Oliveri si trovò a far
parte di una delle «recite» più note del nostro calcio: quella che andò in
scena allo stadio di Marsiglia in occasione della prima partita del Mondiale
1938. Per l'incontro con la Norvegia si calcola che fossero presenti 10.000
esiliati politici dall'Italia. Con conseguenze inimmaginabili, stando all'ormai
classico racconto del ct Vittorio Pozzo: «Vado in campo con la squadra,
ordinata alla militare, e mi pongo sulla destra. Al saluto ci accoglie, come
previsto, una bordata solenne e assordante di fischi, di insulti e di
improperi. (...) Ad un certo momento il gran fracasso accennò a diminuire, poi
cessò. Ordinai l'attenti. Avevamo appena messo giù la mano, che la
dimostrazione riprese violenta. Subito: Squadra attenti Saluto! E tornammo ad
alzare la mano, per confermare che non avevamo paura».
Ancora un saluto romano. Sembrerebbe
quasi una sfida tout court, verso il pubblico sugli spalti, invece che una performance da soldatini del duce. Tra
l'altro non servì a molto: l'Italia vinse stentatamente quella partita, 2-1 nei
supplementari. E fin dall'incontro successivo vennero messi fuori tre giocatori
in chiaro difetto di forma - tra cui Eraldo Monzeglio, unico azzurro fascista
dichiarato e amico personale della famiglia Mussolini. Ma la cosa più divertente
la racconta Gianni Brera nella sua Storia
del calcio italiano «Lo sa commenda perché siamo andati male? - domanda
capitan Meazza a Vittorio Pozzo - Perché ci abbiamo il sangue grosso». Don
Vittorio incupisce, stringe i denti, strizza gli occhietti maligni - «E sia, ma
niente concessioni al vizio!», si arrende il CU. «L'atto naturale!», promette
il Peppin. Nella successiva partita contro la Francia gli azzurri presero
un'altra bella razione di fischi, e giocarono così bene che non solo vinsero,
ma anche gli antifascisti si unirono agli applausi dei francesi. L'Italia si
presentò in campo con la maglia nera e l'ordine, a quanto pare, venne da Mussolini
in persona. Fece il saluto romano. Servì a qualcosa? Se solo, in questa grande
e ambigua leggenda del nostro calcio, entrasse a far parte anche la storia
della visita di Peppin Meazza nei favolosi casini della capitale francese, ci
sentiremmo tutti un po' più sollevati.
“il manifesto”, 9 gennaio 2005
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