5.11.13

Sanguineti. Tutto il mondo rotondo in undici “Ballate” (Mario Lunetta)

Dalla rivista on line del Sindacato Nazionale Scrittori riprendo ampi stralci di una convincente lettura critica delle Ballate di Edoardo Sanguineti, riproposte di recente in volume autonomo da un editore aquilano. (S.L.L.)

A riprova quasi scientifica del fatto che ogni avanguardia degna del nome (frontalità antisistema, e per conseguenza rifiuto di accettare regole & regolamenti ufficializzati in potere artistico-letterario) ha sempre distinto anche in poesia fra Tradizione fervida (da cui succhiare sangue ancora vivo) e Convenzione esangue (assolutamente impraticabile), ecco la felice riproposizione di 11 Ballate di Edoardo Sanguineti (Tracce, Pescara 2013, pp. 40) nella collana “Segni del suono” diretta da Anna Maria Giancarli, che intende comporre un omaggio postumo all’Aquila dell’autore di Laborintus. Una sorta di doppio omaggio, quindi: quello di Sanguineti, che s’era impegnato a dedicare una serie di testi (da pubblicare nella medesima collana) alla città devastata dal terremoto del 6 aprile 2009, e quello della città che, su impulso della curatrice, tributa un segno forte di riconoscenza collettiva a uno dei massimi poeti dell’avanguardia italiana di secondo Novecento, che all’Aquila era stato più volte protagonista in manifestazioni di musica e poesia.
Dal 1961 al 1989 si snoda la vibrante scansione ritmica di questi testi che hanno già visto la luce all’interno di diverse raccolte, ma che, stretti in un “libretto da ballo” di straordinaria perspicuità, esaltano con impareggiabile energia ideolinguistica, a ridosso di un presente che ben poco ha di ballabile e troppo di atrocemente sussultorio, un genere di poesia che nell’impasto vivamente contraddittorio di modi popolareschi e di innesti colti, parte dal Medioevo di François Villon, anarchico dissacratore del benpensantismo borghese, per arrivare al Novecento del comunista Bertolt Brecht. Sanguineti abita nelle sue case testuali come un animale nella propria tana, con assoluta fiducia, sicurezza e lucidità, ma il suo non è mai un monologo: la pronuncia di queste poesie prevede un destinatario corale capace di risposte collettive, in sintonia con l’interrogatività  degli enunciati del poeta e la sua perentorietà intransigente, che pure, come per esempio nella splendida Ballata delle donne (1985), si carica di tenerezza solidale.
Da quel flessibilissimo maestro di retorica straniante che è, Sanguineti lavora in queste Ballate prevalentemente su un pedale basso, giocando su una serie serrata di semplificazioni che contengono tuttavia al loro interno, senza indulgenze e senza pietà, un invito inesausto alla complessità. “Credo – scrive Niva Lorenzini nell’eccellente postfazione al volume – che di lì si debba partire, dalla scelta, cioè, di un genere di poesia di origine popolare, irriverente e direttamente comunicativo, incline allo sviluppo narrativo che veicola temi resi orecchiabili dalla cadenza ritmica fondata sulle iterazioni, le ripetizioni di versi clausola, versi ritornello, e sul gioco delle rime, sulla malia del suono, coinvolgente e dissacrante, carezzevole e corrosivo, spietato e dolcissimo”.
[…]
Qui l’ideologia non è passione, come in Pasolini: è linguaggio. E i temi fondamentali, travestiti o meno, ruotano tutti con forza di lingua in un ballo dei passi impeccabili, dei passi falsi e dei passi perduti. Sanguineti non sgarra: anche qui, con la lingua che morde come un serpente e scatta come una molla, siamo nel dominio della poesia politica, dove l’aggettivo vuole avere l’energia intrattabile del sostantivo. Il lavoro, connesso alla lotta di classe. Il cambiamento dei rapporti sociali, che determinano anche la crescita in positivo delle relazioni interpersonali. Così, siamo alla Ballata per gli anni Ottanta (1979), che nella sua fiducia esortativa non prevedeva certo, nel momento della sua nascita, di assistere nel nostro paese all’inizio del ciclo vendicativamente reazionario (ancor oggi attivo) di quello che non si può che chiamare craxi-berlusconismo: “Il ’79 è finito, finito, / è vecchio, morto e seppellito: “ (…) “finito finito è il ’79, / ci avrai bisogno di cose tue nuove:” (…) “quando ti guardi a questo tuo mondo, / pensati intanto che l’hai da cambiare, / se tutto il mondo ti è mondo rotondo, / nel  verso giusto è da farlo girare: / chi lo trasforma ha da andarci forte, / e chi sta fermo ci ha le gambe corte:” (…) “ci sono nati già gli anni ’80, / non c’è gallina che non lo biscanta: // ma quando ti metti che canti e ricanti, / guardaci bene con chi fai coro, / che le parole non ti vanno avanti, / se non te le spingi con il tuo lavoro:”
Del 1982 è la Ballata della guerra, sicuramente la più nota delle undici composizioni sorelle.
[…] Nel decisivo saggio dedicato a L’Incendiario di Palazzeschi compreso nel volume che si intitola perfidamente La missione del critico (Marietti, 1987), Sanguineti scrive che nel gran libro ardente  dell’autore di Perelà “c’è una poetica illustrata in modi molto nitidi, che fonda, sul terreno d’obbligo di quello che ormai si classifica pacificamente come l’atteggiamento crepuscolare, e che ha appunto il suo centro nel rifiuto della poesia (segnatamente, s’intende, della Poesia con l’iniziale maiuscola), nel rigetto di uno statuto poetico, l’opzione caratterizzante per i toni di ‘follìa’, ’malinconìa’, ‘nostalgìa’, cui si limitano la penna, la tavolozza, la tastiera dell’anima, con tanto di lente dinanzi al cuore. Infine, c’è il poeta come ‘saltimbanco’ (sempre dell’anima)”.
Chiamando in causa Baudelaire, che teorizza e incarna la figura del poeta come “clown tragico”, Sanguineti ci dà una mano chiaramente mancina a leggere in modo strabico le sue Ballate, corredando la lettura di una musica atonale e antimelodica. Se la maestria è quella del jongleur apparentemente girovago, la fermezza assiologica è quella del supremo tecnico della verbalità, che elabora una sua sintassi “maccheronica” capace di spegnere sul nascere qualsiasi fiammella del pathos, senza peraltro attenuare  […] l’energia appassionata dei testi, che è energia politica militante, energia intellettuale, energia umana di presenza solidale.
Si sa in quanto grande misura Sanguineti fosse convinto che anche la poesia è lavoro: quindi consapevolezza del proprio sapere artigiano, non certo sacra folgorazione o mistero orfico. Il tema del lavoro è quindi per lui sempre connesso con la coscienza dell’uomo, nel fluire della storia e nell’istantaneità dell’oggi. È un diritto e un risultato, quando sia libero da coazioni e da sfruttamento, come ribadisce quel pamphlet spigoloso e invitante che è Come si diventa materialisti storici? (2006). Così, anche il poièin non è un evocare, ma un fare che comprende gioco, confronto col reale, tragedia, dentro una visione critica di ciò che è e di ciò che potrebbe essere, senza mai mettere fra parentesi la violenza della natura e le contraddizioni del vivere associato: leopardianamente, direi: sul filo di un Leopardi confrontato con la costellazione che ha al proprio centro Marx per diramarsi in Gramsci, Benjamin, Brecht. Si legge quindi sulla cadenza dell’endecasillabo variamente rimato in toni e sottotoni popolareschi, nella Ballata del lavoro (1982): “questa è una scala che sale a spirale, / e che qui ci significa la vita: / quando ci sali ti è già incominciata, / quando finisci non ti è mai finita: / e prima i padri, e poi salgono i figli, / che così vanno le generazioni: / questa scala significa la storia, / che chi è passato resta per memoria: // se te la guardi come fosse ruota, / vedi che gira come la fortuna, / che ti trascina come vecchia giostra, / e fa le fasi come fa la luna: / ma la luna sparisce e ti ritorna, / te, la tua giostra, ti fa un solo giro: / che se ti guardi la tua vita sola, / ci vedi il primo e l’ultimo respiro:”.
È uno strazio detto, anzi mostrato con le parole e il passo di una cantafavola terribile, con implacabile semplicità, ma nel gorgo di una percezione lucidissima. Filosofia in pillole? Al contrario: pensiero adulto scarnificato e riproposto – come in un richiamo ineludibile – attraverso la musica della conoscenza, contro lo choc di quelle sottolingue dell’oscurità che sono gli slogan da comizio o le frasi fatte dell’industria dello spavento. Uno strazio che contiene in sé anche un bisogno profondo di affabilità e di tenerezza, se tre anni dopo il poeta appronta La ballata delle donne, che è uno degli esiti più alti di quella semplicità complessa di cui si nutre l’intero iter della ricerca sanguinetiana.
[…]
Sottolineando l’assoluta maitrise di Sanguineti sui materiali linguistici eterocliti trattati in quello che si può chiamare il “terzo tempo” della sua poesia, Fausto Curi (La poesia italiana del Novecento, Laterza 1999) ne sottolinea la libertà malgrado il “piano di stabilità” che sembra non dover più promettere folgoranti sorprese. “Occorre d’altro canto segnalare”, aggiunge il critico, “una fittissima trama di quei metaplasmi che il Gruppo di Liegi dichiara fondati sull’aggiunzione ripetitiva: rime, assonanze, consonanze, allitterazioni, paronomasie, omoteleuti. In secondo luogo, accanto al persistere della metrica libera, l’elezione frequente di versi ‘tradizionali’ come l’endecasillabo, di forme strofiche ‘classiche’ come il sonetto, l’ottava, la ballata, di componimenti acrostici, di rime baciate, di rime rare, di quartine monorime ecc. Non si tratta, si badi, di un recupero della ‘tradizione’, né di un semplice ri-uso dei modelli. Siamo sempre all’interno di un’esperienza di tipo anarchico. Solo che il disordine, ora, non è più perpetrato in assenza dei modelli da profanare, come accadeva in Laborintus, ma convocando tali modelli, esibendoli, praticandoli, così che, in un’incessante dialettica di ordine e disordine, la profanazione sia più  evidente e, per così dire, esemplare”. Appunto: l’atto di re-indossamento che Sanguineti compie con vecchi abiti è totalmente anti-archeologico, non ha nulla di nostalgico. Nel riuso, le forme arcaiche vengono svuotate di ruolo, ridotte a puri sarcofaghi che però contengono non cadaveri ma corpi vivi. È, insomma, un’operazione che ribadisce la teorizzazione del primo tempo del poeta, impegnato a “fare dell’avanguardia un’arte da museo”.
Ecco perché anche le Ballate vengono a risultare non una vacanza eccentrica, ma al contrario una serie di momenti innervati su un tipo di contaminazione altra rispetto alle fasi “epiche” (pur esse debitamente stravolte e straniate), in una continuità il cui nòcciolo – come ho già accennato – resta quello dell’identità ideologia e linguaggio.
A provarlo, se ce ne fosse ancora bisogno, indicherei con convinzione la Ballata del vento (1989), in cui la potenza e il gioco, il lazzo e il giudizio, il desiderio e la memoria della vita bruciano al fuoco del capolavoro (“e tutti andate, con rabbia, danzando, / in nero buco a sparirci ululando: / tu che più lasci più angoscia prendendo, / più peggio cadi, più giù discendendo: / fatti di fiato, fatui fuochi veri, / noi si balla, leggieri, volentieri:”). Un capolavoro che non è noto come meriterebbe, e che andrebbe recitato e cantato nelle piazze e nelle scuole di questo nostro paese bastonato e senza cultura, quindi senza vita, soprattutto oggi: magari in sostituzione di quella marcetta alquanto obbrobriosa che è l’Inno di Mameli.


da “Le reti di Dedalus”, ottobre 2013  

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