Dalla rivista on line del
Sindacato Nazionale Scrittori riprendo ampi stralci di una convincente lettura
critica delle Ballate di Edoardo Sanguineti,
riproposte di recente in volume autonomo da un editore aquilano. (S.L.L.)
A riprova quasi scientifica del
fatto che ogni avanguardia degna del nome (frontalità antisistema, e per
conseguenza rifiuto di accettare regole & regolamenti ufficializzati in
potere artistico-letterario) ha sempre distinto anche in poesia fra Tradizione
fervida (da cui succhiare sangue ancora vivo) e Convenzione esangue
(assolutamente impraticabile), ecco la felice riproposizione di 11 Ballate di Edoardo Sanguineti (Tracce,
Pescara 2013, pp. 40) nella collana “Segni del suono” diretta da Anna Maria
Giancarli, che intende comporre un omaggio postumo all’Aquila dell’autore di Laborintus. Una sorta di doppio omaggio,
quindi: quello di Sanguineti, che s’era impegnato a dedicare una serie di testi
(da pubblicare nella medesima collana) alla città devastata dal terremoto del 6
aprile 2009, e quello della città che, su impulso della curatrice, tributa un
segno forte di riconoscenza collettiva a uno dei massimi poeti dell’avanguardia
italiana di secondo Novecento, che all’Aquila era stato più volte protagonista
in manifestazioni di musica e poesia.
Dal 1961 al 1989 si snoda la
vibrante scansione ritmica di questi testi che hanno già visto la luce
all’interno di diverse raccolte, ma che, stretti in un “libretto da ballo” di
straordinaria perspicuità, esaltano con impareggiabile energia ideolinguistica,
a ridosso di un presente che ben poco ha di ballabile e troppo di atrocemente
sussultorio, un genere di poesia che nell’impasto vivamente contraddittorio di
modi popolareschi e di innesti colti, parte dal Medioevo di François Villon,
anarchico dissacratore del benpensantismo borghese, per arrivare al Novecento
del comunista Bertolt Brecht. Sanguineti abita nelle sue case testuali come un
animale nella propria tana, con assoluta fiducia, sicurezza e lucidità, ma il
suo non è mai un monologo: la pronuncia di queste poesie prevede un
destinatario corale capace di risposte collettive, in sintonia con
l’interrogatività degli enunciati del
poeta e la sua perentorietà intransigente, che pure, come per esempio nella splendida
Ballata delle donne (1985), si carica
di tenerezza solidale.
Da quel flessibilissimo maestro
di retorica straniante che è, Sanguineti lavora in queste Ballate prevalentemente su un pedale basso, giocando su una serie
serrata di semplificazioni che contengono tuttavia al loro interno, senza
indulgenze e senza pietà, un invito inesausto alla complessità. “Credo – scrive
Niva Lorenzini nell’eccellente postfazione al volume – che di lì si debba
partire, dalla scelta, cioè, di un genere di poesia di origine popolare,
irriverente e direttamente comunicativo, incline allo sviluppo narrativo che
veicola temi resi orecchiabili dalla cadenza ritmica fondata sulle iterazioni,
le ripetizioni di versi clausola, versi ritornello, e sul gioco delle rime,
sulla malia del suono, coinvolgente e dissacrante, carezzevole e corrosivo,
spietato e dolcissimo”.
[…]
Qui l’ideologia non è passione,
come in Pasolini: è linguaggio. E i temi fondamentali, travestiti o meno,
ruotano tutti con forza di lingua in un ballo dei passi impeccabili, dei passi
falsi e dei passi perduti. Sanguineti non sgarra: anche qui, con la lingua che
morde come un serpente e scatta come una molla, siamo nel dominio della poesia
politica, dove l’aggettivo vuole avere l’energia intrattabile del sostantivo.
Il lavoro, connesso alla lotta di classe. Il cambiamento dei rapporti sociali,
che determinano anche la crescita in positivo delle relazioni interpersonali.
Così, siamo alla Ballata per gli anni
Ottanta (1979), che nella sua fiducia esortativa non prevedeva certo, nel
momento della sua nascita, di assistere nel nostro paese all’inizio del ciclo
vendicativamente reazionario (ancor oggi attivo) di quello che non si può che
chiamare craxi-berlusconismo: “Il ’79 è finito, finito, / è vecchio, morto e
seppellito: “ (…) “finito finito è il ’79, / ci avrai bisogno di cose tue
nuove:” (…) “quando ti guardi a questo tuo mondo, / pensati intanto che l’hai
da cambiare, / se tutto il mondo ti è mondo rotondo, / nel verso giusto è da farlo girare: / chi lo
trasforma ha da andarci forte, / e chi sta fermo ci ha le gambe corte:” (…) “ci
sono nati già gli anni ’80, / non c’è gallina che non lo biscanta: // ma quando
ti metti che canti e ricanti, / guardaci bene con chi fai coro, / che le parole
non ti vanno avanti, / se non te le spingi con il tuo lavoro:”
Del 1982 è la Ballata della guerra, sicuramente la più
nota delle undici composizioni sorelle.
[…] Nel decisivo saggio dedicato
a L’Incendiario di Palazzeschi
compreso nel volume che si intitola perfidamente La missione del critico (Marietti, 1987), Sanguineti scrive che nel
gran libro ardente dell’autore di Perelà
“c’è una poetica illustrata in modi molto nitidi, che fonda, sul terreno
d’obbligo di quello che ormai si classifica pacificamente come l’atteggiamento
crepuscolare, e che ha appunto il suo centro nel rifiuto della poesia
(segnatamente, s’intende, della Poesia con l’iniziale maiuscola), nel rigetto
di uno statuto poetico, l’opzione caratterizzante per i toni di ‘follìa’,
’malinconìa’, ‘nostalgìa’, cui si limitano la penna, la tavolozza, la tastiera
dell’anima, con tanto di lente dinanzi al cuore. Infine, c’è il poeta come
‘saltimbanco’ (sempre dell’anima)”.
Chiamando in causa Baudelaire,
che teorizza e incarna la figura del poeta come “clown tragico”, Sanguineti ci
dà una mano chiaramente mancina a leggere in modo strabico le sue Ballate, corredando la lettura di una
musica atonale e antimelodica. Se la maestria è quella del jongleur apparentemente girovago, la fermezza assiologica è quella
del supremo tecnico della verbalità, che elabora una sua sintassi
“maccheronica” capace di spegnere sul nascere qualsiasi fiammella del pathos,
senza peraltro attenuare […] l’energia
appassionata dei testi, che è energia politica militante, energia
intellettuale, energia umana di presenza solidale.
Si sa in quanto grande misura
Sanguineti fosse convinto che anche la poesia è lavoro: quindi consapevolezza
del proprio sapere artigiano, non certo sacra folgorazione o mistero orfico. Il
tema del lavoro è quindi per lui sempre connesso con la coscienza dell’uomo, nel
fluire della storia e nell’istantaneità dell’oggi. È un diritto e un risultato,
quando sia libero da coazioni e da sfruttamento, come ribadisce quel pamphlet
spigoloso e invitante che è Come si
diventa materialisti storici? (2006). Così, anche il poièin non è un evocare, ma un fare che comprende gioco, confronto
col reale, tragedia, dentro una visione critica di ciò che è e di ciò che
potrebbe essere, senza mai mettere fra parentesi la violenza della natura e le
contraddizioni del vivere associato: leopardianamente, direi: sul filo di un
Leopardi confrontato con la costellazione che ha al proprio centro Marx per
diramarsi in Gramsci, Benjamin, Brecht. Si legge quindi sulla cadenza
dell’endecasillabo variamente rimato in toni e sottotoni popolareschi, nella Ballata del lavoro (1982): “questa è una
scala che sale a spirale, / e che qui ci significa la vita: / quando ci sali ti
è già incominciata, / quando finisci non ti è mai finita: / e prima i padri, e
poi salgono i figli, / che così vanno le generazioni: / questa scala significa
la storia, / che chi è passato resta per memoria: // se te la guardi come fosse
ruota, / vedi che gira come la fortuna, / che ti trascina come vecchia giostra,
/ e fa le fasi come fa la luna: / ma la luna sparisce e ti ritorna, / te, la
tua giostra, ti fa un solo giro: / che se ti guardi la tua vita sola, / ci vedi
il primo e l’ultimo respiro:”.
È uno strazio detto, anzi
mostrato con le parole e il passo di una cantafavola terribile, con implacabile
semplicità, ma nel gorgo di una percezione lucidissima. Filosofia in pillole?
Al contrario: pensiero adulto scarnificato e riproposto – come in un richiamo
ineludibile – attraverso la musica della conoscenza, contro lo choc di quelle
sottolingue dell’oscurità che sono gli slogan da comizio o le frasi fatte
dell’industria dello spavento. Uno strazio che contiene in sé anche un bisogno
profondo di affabilità e di tenerezza, se tre anni dopo il poeta appronta La ballata delle donne, che è uno degli
esiti più alti di quella semplicità complessa di cui si nutre l’intero iter
della ricerca sanguinetiana.
[…]
Sottolineando l’assoluta maitrise di Sanguineti sui materiali
linguistici eterocliti trattati in quello che si può chiamare il “terzo tempo”
della sua poesia, Fausto Curi (La poesia
italiana del Novecento, Laterza 1999) ne sottolinea la libertà malgrado il
“piano di stabilità” che sembra non dover più promettere folgoranti sorprese.
“Occorre d’altro canto segnalare”, aggiunge il critico, “una fittissima trama
di quei metaplasmi che il Gruppo di Liegi dichiara fondati sull’aggiunzione
ripetitiva: rime, assonanze, consonanze, allitterazioni, paronomasie,
omoteleuti. In secondo luogo, accanto al persistere della metrica libera,
l’elezione frequente di versi ‘tradizionali’ come l’endecasillabo, di forme
strofiche ‘classiche’ come il sonetto, l’ottava, la ballata, di componimenti
acrostici, di rime baciate, di rime rare, di quartine monorime ecc. Non si
tratta, si badi, di un recupero della ‘tradizione’, né di un semplice ri-uso
dei modelli. Siamo sempre all’interno di un’esperienza di tipo anarchico. Solo
che il disordine, ora, non è più perpetrato in assenza dei modelli da
profanare, come accadeva in Laborintus,
ma convocando tali modelli, esibendoli, praticandoli, così che, in
un’incessante dialettica di ordine e disordine, la profanazione sia più evidente e, per così dire, esemplare”.
Appunto: l’atto di re-indossamento che Sanguineti compie con vecchi abiti è
totalmente anti-archeologico, non ha nulla di nostalgico. Nel riuso, le forme
arcaiche vengono svuotate di ruolo, ridotte a puri sarcofaghi che però
contengono non cadaveri ma corpi vivi. È, insomma, un’operazione che ribadisce
la teorizzazione del primo tempo del poeta, impegnato a “fare dell’avanguardia
un’arte da museo”.
Ecco perché anche le Ballate vengono a risultare non una
vacanza eccentrica, ma al contrario una serie di momenti innervati su un tipo
di contaminazione altra rispetto alle fasi “epiche” (pur esse debitamente
stravolte e straniate), in una continuità il cui nòcciolo – come ho già
accennato – resta quello dell’identità ideologia e linguaggio.
A provarlo, se ce ne fosse ancora
bisogno, indicherei con convinzione la Ballata
del vento (1989), in cui la potenza e il gioco, il lazzo e il giudizio, il
desiderio e la memoria della vita bruciano al fuoco del capolavoro (“e tutti
andate, con rabbia, danzando, / in nero buco a sparirci ululando: / tu che più
lasci più angoscia prendendo, / più peggio cadi, più giù discendendo: / fatti
di fiato, fatui fuochi veri, / noi si balla, leggieri, volentieri:”). Un
capolavoro che non è noto come meriterebbe, e che andrebbe recitato e cantato
nelle piazze e nelle scuole di questo nostro paese bastonato e senza cultura,
quindi senza vita, soprattutto oggi: magari in sostituzione di quella marcetta alquanto
obbrobriosa che è l’Inno di Mameli.
da “Le reti di Dedalus”, ottobre 2013
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