Dovrebbe essere fatta leggere nei licei la magnifica Intervista sul potere che Luciano Canfora ha affidato alla cura di Antonio Carioti, pubblicata qualche mese fa per Laterza. Un testo in cui la profondità si connette all'ampiezza dei riferimenti, senza mai nuocere alla chiarezza e all'efficacia della comunicazione, in quello che Lanfranco Binni chiama "strabismo analogico" e che risulta straordinariamente produttivo. La lezione di un grande maestro con cui si può - di volta in volta - concordare o dissentire, ma alla cui capacità di provocare, di indurre a verifiche e confronti, non si può resistere. Ne pubblico qui un brano a ulteriore ricordo della Rivoluzione russa dell'ottobre 1917, il cui anniversario è stato ieri bellamente ignorato dai più. Il suo obiettivo politico, squisitamente democratico, era "Tutto il potere ai soviet" (S.L.L.)
D. Ma le sue convinzioni sulla persistenza delle forme politiche come
si conciliano con l'adesione al movimento comunista, che si proponeva di
superare la distinzione tra governanti e governati, anzi di abolire lo Stato e
creare l'uomo nuovo?
R. Per la verità, uno dei modelli
cui ha guardato la rivoluzione novecentesca, di fronte alla crisi del
parlamentarismo, è per l'appunto la democrazia diretta. Erodoto non fu creduto
quando raccontò che il notabile persiano Otanes voleva introdurre la democrazia
nel suo paese. Gli Ateniesi avevano pensato che fosse un'impresa impossibile,
perché si trattava di un impero troppo vasto. Il modo di superare quella
difficoltà ai bolscevichi parve essere l'attribuzione di poteri a un reticolo
diffuso di consigli operai e contadini, i soviet.
L'esperienza della democrazia consiliare, in nome della quale venne compiuta la
rivoluzione d'Ottobre, si esaurì presto; resta il fatto che nacque come
tentativo di adattare al tempo presente il sistema assembleare: come dire, la
«democrazia diretta» dell'antica Atene. […]
D. Lei crede quindi che si possa guardare ai classici anche come
ispiratori delle ideologie più radicali?
R. Il passaggio fondamentale
rimane sempre il venticinquennio inaugurato dalla rivoluzione francese, che
crea l'idea dell'«uomo nuovo», ma partendo dalle repubbliche antiche. I
giacobini facevano molta confusione, usavano Plutarco e Tito Livio come una
sorta di Bibbia su cui giurare. Ma nella temperie infuocata della rivoluzione i
classici hanno un ruolo centrale, soprattutto viene da lì l'unico linguaggio di
cui essi dispongono. A loro volta i bolscevichi avrebbero tratto gran parte del
loro lessico dall'esperienza
francese, accusandosi reciprocamente
di essere bonapartisti o termidoriani, ma nel 1789 quei termini non esistevano
ancora. Ecco perché ritengo che trarre ispirazione da alcuni segmenti
dell'esperienza antica per giungere a una visione politica avanzata non sia una
forzatura arbitraria. Naturalmente i percorsi intellettuali e pratici delle
persone possono essere del più vario tipo. Si può giungere a posizioni
rivoluzionarie anche da un'esperienza di natura religiosa, perché no?
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