8.11.13

La rivoluzione d'Ottobre e la democrazia ateniese (Luciano Canfora)

Dovrebbe essere fatta leggere nei licei la magnifica Intervista sul potere che Luciano Canfora ha affidato alla cura di Antonio Carioti, pubblicata qualche mese fa per Laterza. Un testo in cui la profondità si connette all'ampiezza dei riferimenti, senza mai nuocere alla chiarezza e all'efficacia della comunicazione, in quello che Lanfranco Binni chiama "strabismo analogico" e che risulta straordinariamente produttivo. La lezione di un grande maestro con cui si può - di volta in volta - concordare o dissentire, ma alla cui capacità di provocare, di indurre a verifiche e confronti, non si può resistere. Ne pubblico qui un brano a ulteriore ricordo della Rivoluzione russa dell'ottobre 1917, il cui anniversario è stato ieri bellamente ignorato dai più. Il suo obiettivo politico, squisitamente democratico, era "Tutto il potere ai soviet" (S.L.L.)
  D. Ma le sue convinzioni sulla persistenza delle forme politiche come si conciliano con l'adesione al movimento comunista, che si proponeva di superare la distinzione tra governanti e governati, anzi di abolire lo Stato e creare l'uomo nuovo?
R. Per la verità, uno dei modelli cui ha guardato la rivoluzione novecentesca, di fronte alla crisi del parlamentarismo, è per l'appunto la democrazia diretta. Erodoto non fu creduto quando raccontò che il notabile persiano Otanes voleva introdurre la democrazia nel suo paese. Gli Ateniesi avevano pensato che fosse un'impresa impossibile, perché si trattava di un impero troppo vasto. Il modo di superare quella difficoltà ai bolscevichi parve essere l'attribuzione di poteri a un reticolo diffuso di consigli operai e contadini, i soviet. L'esperienza della democrazia consiliare, in nome della quale venne compiuta la rivoluzione d'Ottobre, si esaurì presto; resta il fatto che nacque come tentativo di adattare al tempo presente il sistema assembleare: come dire, la «democrazia diretta» dell'antica Atene. […]

D. Lei crede quindi che si possa guardare ai classici anche come ispiratori delle ideologie più radicali?
R. Il passaggio fondamentale rimane sempre il venticinquennio inaugurato dalla rivoluzione francese, che crea l'idea dell'«uomo nuovo», ma partendo dalle repubbliche antiche. I giacobini facevano molta confusione, usavano Plutarco e Tito Livio come una sorta di Bibbia su cui giurare. Ma nella temperie infuocata della rivoluzione i classici hanno un ruolo centrale, soprattutto viene da lì l'unico linguaggio di cui essi dispongono. A loro volta i bolscevichi avrebbero tratto gran parte del loro lessico dall'esperienza  francese,  accusandosi reciprocamente di essere bonapartisti o termidoriani, ma nel 1789 quei termini non esistevano ancora. Ecco perché ritengo che trarre ispirazione da alcuni segmenti dell'esperienza antica per giungere a una visione politica avanzata non sia una forzatura arbitraria. Naturalmente i percorsi intellettuali e pratici delle persone possono essere del più vario tipo. Si può giungere a posizioni rivoluzionarie anche da un'esperienza di natura religiosa, perché no? 

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