Districarsi tra le regole di
etichettatura dell'olio d'oliva è un'autentica impresa. Al consumatore medio
basti sapere che le informazioni obbligatorie (vedi immagine) da sole non determinano
un acquisto del tutto consapevole.
Le denominazioni di vendita più
comuni sono tre: olio extravergine d'oliva, olio vergine d'oliva e olio d'oliva.
La distinzione tra i primi due è principalmente data dal grado di acidità:
entrambi si ottengono dalla spremitura delle olive, ma mentre l'extravergine ha
un grado massimo di acidità di 0,8%, il vergine sale fino al 2%. Di per sé
questo non è un parametro di qualità assoluta, ma già ci dice che l'olio
semplicemente «vergine» non è un granché. Attenzione poi: l'olio d'oliva si
ottiene miscelando oli vergini e oli raffinati, cioè oli non commestibili che
diventano tali dopo un procedimento chimico.
Per avere un prodotto di qualità
dobbiamo orientarci su un extravergine, ma anche questo non basta. Se l'obbligo
di dichiarare l'origine può dirci che le olive sono italiane, non siamo sicuri
della regione: un olio ligure fatto con olive coratine pugliesi non è il
massimo, ma l'etichetta non è tenuta a dichiararlo.
Per valorizzare le differenze tra
i nostri territori è allora meglio orientarsi su prodotti a denominazione di origine
protetta, che prevedono solo cultivar locali. Dop e Igp sono una garanzia:
costeranno un po' di più perché è giusto (per un olio di qualità non si possono
spendere meno di 7-8 euro al litro): diversamente o ci perde l'olivicultore, o
non è l'olio buono che vorremmo.
Le Dop e Igp inoltre prevedono la
dicitura dell'annata di raccolta. Sugli extravergini non è obbligatoria e
bisogna soltanto scrivere le date di imbottigliamento e della scadenza: ciò non
evita che si vendano oli che hanno «riposato» in vasca anche quattro o cinque
anni prima di essere imbottigliati.
“La Stampa”, 5 luglio 2012
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