6.11.13

Vergine e riposato. L’etichettatura dell’olio (Carlo Bogliotti)

Districarsi tra le regole di etichettatura dell'olio d'oliva è un'autentica impresa. Al consumatore medio basti sapere che le informazioni obbligatorie (vedi immagine) da sole non determinano un acquisto del tutto consapevole.
Le denominazioni di vendita più comuni sono tre: olio extravergine d'oliva, olio vergine d'oliva e olio d'oliva. La distinzione tra i primi due è principalmente data dal grado di acidità: entrambi si ottengono dalla spremitura delle olive, ma mentre l'extravergine ha un grado massimo di acidità di 0,8%, il vergine sale fino al 2%. Di per sé questo non è un parametro di qualità assoluta, ma già ci dice che l'olio semplicemente «vergine» non è un granché. Attenzione poi: l'olio d'oliva si ottiene miscelando oli vergini e oli raffinati, cioè oli non commestibili che diventano tali dopo un procedimento chimico.
Per avere un prodotto di qualità dobbiamo orientarci su un extravergine, ma anche questo non basta. Se l'obbligo di dichiarare l'origine può dirci che le olive sono italiane, non siamo sicuri della regione: un olio ligure fatto con olive coratine pugliesi non è il massimo, ma l'etichetta non è tenuta a dichiararlo.
Per valorizzare le differenze tra i nostri territori è allora meglio orientarsi su prodotti a denominazione di origine protetta, che prevedono solo cultivar locali. Dop e Igp sono una garanzia: costeranno un po' di più perché è giusto (per un olio di qualità non si possono spendere meno di 7-8 euro al litro): diversamente o ci perde l'olivicultore, o non è l'olio buono che vorremmo.
Le Dop e Igp inoltre prevedono la dicitura dell'annata di raccolta. Sugli extravergini non è obbligato­ria e bisogna soltanto scrivere le date di imbottigliamento e della scadenza: ciò non evita che si vendano oli che hanno «riposato» in vasca anche quattro o cinque anni prima di essere imbottigliati.


“La Stampa”, 5 luglio 2012

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