A novantuno anni, il maestro
Carlo Lizzani decide di “staccare la chiave”, ponendo fine alla suo lungo e
movimentato viaggio esistenziale, gettandosi nel vuoto, da una finestra aperta
dell’appartamento in cui abitava, con la stessa inquietante lucidità giovane
dell’altro grande vecchio del cinema italiano, Mario Monicelli, morto suicida
poco meno di tre anni fa.
Ci lascia così uno dei più grandi
intellettuali italiani, narratore della politica e della storia italiane,
studioso appassionato che si è servito del cinema per conoscere e far conoscere
il suo paese, la sua storia, ed il suo mondo, attraversando il Novecento, come
scrittore di critica, attore, sceneggiatore, regista, e direttore di festival,
costantemente impegnato in molteplici attività, praticando un cinema popolare
eclettico e variegato – dal dramma storico, a quello politico, dalla commedia,
al noir, allo spaghetti western – sempre con sincera partecipazione e trasporto
viscerale.
Dalle giovanili esperienze
critiche nella redazione della storica rivista “Cinema” alla pubblicazione
della sua Storia del Cinema italiano,
passando per l’impegno nelle associazioni di categoria, alla direzione della
Mostra del Cinema di Venezia, fino all’instancabile lavoro di recupero della
memoria del cinema italiano – attraverso le immagini delle sue videomonografie
dedicate al Neorealismo – il prolifico regista romano era rimasto
straordinariamente partecipe e combattivo, anche negli anni più recenti
(nonostante l’età e le precarie condizioni di salute), in ogni sforzo di
passaggio del testimone alle nuove generazioni. Da attore a storico, da regista
a professore, Lizzani ha svolto il suo immenso ed enciclopedico lavoro, con la
volontà pedagogica di tramandare il sapere. Essendo stato, di fatto, uno dei
padri dell’istant movie e del docudrama, ha utilizzato la settima arte
per raccontare l’Italia dal suo punto punto di vista, secondo i suoi ideali ed un’invidiabile
coerenza intellettuale.
Il cineasta romano ha fatto
propri alcuni elementi della lezione di Roberto Rossellini sulle possibilità
del cinema e della televisione nell’uso pubblico della storia per interpretare,
sul momento, fenomeni di trasformazione sociale
del “Belpaese”. Ecco perché non si può non analizzare interamente il suo
intero corpus cinematografico,
televisivo e saggistico per intraprendere quel “lungo viaggio nel secolo
breve”. Ma di questo autore si devono sottolineare anche l’innata capacità di
far recitare gli attori, la sua attenzione per i temi del corpo e della
sessualità, le sue strutture narrative innovative e il suo gusto per il
metalinguaggio.
Lizzani è stato un regista
poliedrico, che all’epoca ha spiazzato la critica, ma che in virtù delle
diverse attività svolte nella sua carriera, va considerato come lo
straordinario depositario di un’esperienza enciclopedica. Come lui stesso
confessò anni fa, ha attraversato molti generi diversi, perché la sua stessa
vita è stata una mescolanza di generi, e
l’ha riprodotta con il suo cinema, senza accantonare gli aspetti che non erano
in sintonia con alcuni momenti drammatici della sua esperienza personale o di
quella collettiva.
Nato nel 1922, nel cuore del
centro storico di Roma, cominciò il suo percorso di uomo di cinema
infiltrandosi tra gli universitari del Cineguf, prima come critico, poi come
attore (è tra i protagonisti de Il sole
sorge ancora di Vergano nel 1946), quindi come sceneggiatore, collaborando
con i padri fondatori del Neorealismo Italiano, Peppe De Santis, Roberto
Rossellini e Alberto Lattuada, diventando testimone, accanto a loro, di
esperienze fondamentali come la lavorazione dei
capolavori Germania Anno Zero
e Riso amaro.
Debutta come regista nel 1950,
con Nel Mezzogiorno qualcosa è cambiato,
proseguendo nel 1951 con Achtung!
Banditi!, produzione di evidente matrice neorealistica, per il suo chiaro
intento politico, dallo stile secco e antiretorico. Riproporrà il tema della
Resistenza e dell’antifascismo anche in Cronache
di poveri amanti (1954), celeberrima trascrizione del romanzo di Vasco
Pratolini, ma la componente storico-politica rimarrà in generale una delle
costanti della sua produzione. Infatti, affascinato dal romanzo della storia e
dalla contemporaneità della cronaca, alterna film che scavano nell’animo di
personaggi che hanno segnato il passato e, inevitabilmente anche il presente,
tra i quali vanno ricordati: Il gobbo
(1960), sulle vicende di un piccolo gangster di una borgata romana, come
riflessione sugli effetti del conflitto mondiale appena finito – con la
partecipazione di Pier Paolo Pasolini (la cui esperienza sul set gli risultò
utile per la realizzazione dell’opera prima Accattone);
L’oro di Roma (1961), sentita
narrazione di un episodio avvenuto durante l’occupazione nazista; Il processo di Verona del 1963, sulla
fine del fascismo (dove l’analisi storica sconfina nel dramma familiare).
Successivamente, realizzerà una
serie di film-spunti di riflessione sociale, partendo dai fatti di una cronaca
sempre più pervasa da un malessere diffuso, tra i quali: Svegliati e uccidi (Lutring) (1966), sulla vicenda del “solista del
mitra”; Banditi a Milano del 1968,
sulla banda Cavallero e la malavita milanese; Barbagia, La società del malessere (1969) sulle gesta di Graziano
Mesina; o San Babila ore 20: un delitto
inutile (1976); tutte pellicole che adottano le caratteristiche estetiche
del noir, con una solida caratterizzazione dei personaggi, antieroi per
eccellenza, all’interno delle metropoli italiane che si trasformavano in luoghi
di violenza sociale o politica.
Non meno importanti da
considerare sono i documentari che hanno puntellato la sua carriera, sin dagli
esordi come Viaggio al sud (1949) e Modena, città dell’Emilia Rossa,
passando per La Muraglia Cinese
(1958) – lavorazione epica nella Cina maoista degli anni ’50, che costituì un
interessante esperimento per il cinema italiano, pur con i suoi limiti dettati
dall’ideologia, risultando essere il primo lungometraggio realizzato nella Cina
di Mao da un regista occidentale – fino ad arrivare al lavoro collettivo Un mondo diverso è possibile, girato a
Genova nei giorni del G8.
Carlo Lizzani è sempre stato alla
ricerca di un cinema popolare immediatamente percepibile. La sua funzione non
fu soltanto quella di regista di legato ad eventi di cronaca, ma anche quella
di attento osservatore del costume e dei fenomeni sociali in evoluzione: ne è
una prova La vita agra (1964,) dal
romanzo di Luciano Bianciardi, che rappresenta un’amara e lucida meditazione su
quell’Italia in pieno boom economico, minata alle radici da un giovane
intellettuale insignificante.
Nelle vesti di saggista di cinema
ha realizzato tre edizioni di una Storia
del Cinema italiano. Da cultore della settima arte, dal 1979 al 1982, ha
diretto la Mostra del Cinema di Venezia, riportandola ai livelli dei grandi
festival internazionali, dopo otto anni di pausa forzata.
Nel 1998 Lizzani ha pubblicato la
raccolta di suoi scritti di diverso genere Attraverso
il Novecento, in cui vengono narrati aneddoti sul mondo del cinema
neorealista italiano, volendo riorganizzare la sua filmografia, secondo una
sorta di ideale storia d’Italia in cui tutti i momenti salienti sono stati
raccontati da lui.
Tra le sue ultime produzioni per
il cinema si ricordano Cattiva
(1991), ambientato nella Svizzera di inizio secolo, e Celluloide (1995) dedicato alle vicende relative alla lavorazione
del film Roma Città Aperta, ed al
rapporto tra Rossellini e Sergio Amidei. Negli ultimi anni, Lizzani ha lavorato
soprattutto per la televisione, con serie storiche di grande successo come Nucleo Zero, sul terrorismo (ispirato
dal romanzo di Luce D’Eramo), Maria Josè, l’ultima regina (2002) o Le cinque giornate di Milano (2004).
Lizzani ha sempre svolto, accanto
alla sua originale attività artistica, una funzione di stimolo e di riflessione
continua sulla diffusione del cinema, credendo alle sue molteplici possibilità,
dando spazio alle nuove generazioni della critica italiana, e favorendo quelle
visioni che indagavano su nuovi e interessanti fenomeni culturali e artistici.
“Le Reti di Dedalus”, 2013
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