Mentre cercavo altro, ho trovato su un vecchio numero di "Belfagor", la rivista fondata da Luigi Russo, i ricordi giovanili di Cesare Musatti, considerato il padre della psicanalisi in Italia. Comunicano l'immagine di un'antica città, di un milieu intellettuale, di un'inquietudine, sullo sfondo della Grande Guerra. Ne riprendo una parte, la cui lettura suggerisco. (S.L.L.)
Quando una persona molto anziana
ritorna in un luogo dove ha vissuto in gioventù, gli sembra che tutto avrebbe
dovuto rimanere come prima, che la gente debba essere la stessa, e che quindi
il raccontare storie del passato sia semplicemente un ripetere cose risapute da
ognuna delle persone attuali.
Mi rendo conto che non è cosi. I
padovani del tempo in cui abitavo nella loro città non esistono più. Salvo
qualche rara eccezione, come quella capitatami qualche mese fa, quando
trovandomi a Padova per poche ore e avendo preso un taxi, mi sentii chiamare
per nome dal vecchio taxista, che non solo aveva riconosciuto me, ma che mi
parlò di Marchesi e di Meneghetti, esaltandone le figure. Cosicché alla
stazione dove mi portò ci siamo abbracciati, e lui neppure voleva che gli
pagassi la corsa. Eppure son passati quarantasette anni, mezzo secolo dunque,
da che ho lasciato la città. Sono tuttavia eccezioni, commoventi assai, e che
fanno pensare: «Non sono ancora un trapassato redivivo che viene
improvvisamente a trovarsi in un luogo ed in un tempo che non sono più suoi».
Anche se la città è cambiata, e pure imbruttita, lasciatemi dire, e se la vita
che vi si svolge è sotto molti aspetti mutata.
A Padova, da Venezia dove abitava
la mia famiglia, sono venuto nel 1915, appena scoppiata la guerra. Avevo finito
il Liceo in primavera, e in autunno venni a studiare matematica. Due formalità
erano obbligatorie: il papiro che sanzionava l'essere matricola, e la visita a
colui che era il vero padrone dell'Università, il bidello capo, Gamba. Era
questi un uomo anziano, che dava del tu non solo a tutti noi, ma anche ai
Professori suoi coetanei, come il senatore Tamassia, e che contava molto di più
del Rettore Magnifico. Quest'ultimo era il reggente accademico dell'Università.
Ma per quanto riguardava la vita spicciola degli studenti, chi comandava era
Gamba.
Il mondo studentesco, pur avendo
carattere regionale, comprendeva elementi provenienti da una fascia ristretta
di popolazione. Era la borghesia veneta (prevalentemente la borghesia dei
professionisti) che forniva per la maggior parte (e salvo i figli dei contadini
un poco arricchitisi, e che avevano studiato nei seminari e nelle altre scuole
religiose) le successive annate di studenti. Questi erano dunque figli degli
avvocati, dei medici, degli ingegneri, dei professori, dei farmacisti della
regione. E in genere seguivano la professione paterna. Cosicché Gamba mi
chiese: « Ma allora ti, Musatti, ti xe fio de Elia, e cugin de Alberto. E come
mai no te studi lege? ». Dovetti giustificarmi. Come pure dovetti darne
spiegazione quando dalla matematica pura passai, provocando in lui un sorriso
di compassione, in filosofia: « Roba da preti », diceva lui.
In facoltà di Scienze, biennio
preparatorio per poi optare o per ingegneria o per matematica pura, io mi
trovavo bene. Avevo professori di grande valore: Ricci Curbastro, che faceva
analisi prima, Severi che faceva geometria descrittiva, ed altri. Io andavo a
lezione, avendo già letto per conto mio le dispense. E quindi sapevo rispondere
quando venivo interrogato. Ed ero considerato un asso. Pure qualche cosa non
andava: una certa aridità dei corsi di matematica, un disinteresse per certi
argomenti dei quali fin dal liceo mi ero occupato. Il problema dei principii, e
la dimensione storica degli studi matematici. Una matematica come iscritta ab aeterno nel mondo della natura, e non
una conquista progressiva, ed una costruzione dell'uomo. Cominciò cosi a
nascere in me una nostalgia per l'aspetto storico del pensiero.
C'era poi anche un fattore umano;
voglio essere del tutto sincero: nel biennio preparatorio di matematica, salvo
quattro suore inviate d'autorità dal Vescovo che aveva bisogno di insegnanti di
matematica da inserire negli Istituti tenuti da religiosi, non c'erano donne.
Soltanto maschi, e tutti giovani della mia classe di leva, 1897, quella non
ancora chiamata sotto le armi. Il '96 era partito in quei mesi. L'atmosfera era
perciò deprimente, come lo è sempre un ambiente di soli maschi. Invece in
facoltà di Lettere e Filosofia - salvo sette od otto studenti, o giovani come
me, o scartati alla visita di leva - erano tutte ragazze. Con le donne mi sono
sempre trovato bene. Continuo a trovarmi bene anche oggi. Non che facessi il
galletto. Ma la mentalità femminile mi ha sempre attratto. Non ho avuto
sorelle, ma molte cugine, e quel tipo di rapporti non sororali, ma neppure da
avventuretta, insomma - come dico - le cugine, era per me molto soddisfacente.
E poi c'era, come professore di
filosofia teoretica, Antonio Aliotta. Questi, che aveva studiato a Firenze con
De Sarlo, era uno dei pochi filosofi italiani che, diciamo cosi, sapesse di
scienza: fuori dal piatto positivismo allora in auge, specialmente a Padova,
dove viveva ancora Ardigò (che andai un giorno ad ossequiare al Pedrocchi, dove
lo si trovava regolarmente alle due e mezzo del pomeriggio). Aliotta era munito
di una certa informazione circa gli orientamenti scientifici sopra tutto
tedeschi. Citava Helmholtz, e aveva tenuto, l'anno prima che arrivassi io, un
corso di filosofia teoretica in cui si trattava della reazione idealistica
contro la scienza, corso che fu poi pubblicato e che mi attraeva molto. Aliotta
aveva anche scritto un libro sulla misura in psicologia. Più tardi io confutai
le sue idee sulla misura. Ma confutare le idee di un proprio Maestro è anche un
modo per esprimere il proprio affetto. E per Aliotta conservai sempre molto
affetto. Egli faceva lezione, e dopo aver saputo che in realtà io non ero uno
studente suo, ma studente di matematica, ogni tanto mi interpellava, e rivolgendosi
a me mi chiedeva: «Sentiamo ora che cosa ne dice il nostro matematico». Dai e
dai, fini che prima del 31 dicembre, passai dal biennio di matematica alla
facoltà di Filosofia. Direi che Aliotta ci rimase un po' male.
Diventavo infatti uno studente
come tutti gli altri. Mentre a lui garbava di più avere un giovane studente di
matematica con cui battagliare in aula.
Tra i professori della facoltà di
Lettere di cui sentii l'influenza, oltre che Aliotta come ho detto, vi erano
altri Maestri. Sopra tutto Ettore Romagnoli, col quale mi trovavo anche fuori
dell'Università, perché frequentava la casa di un mio anziano prozio, Eugenio
Musatti, libero docente in storia di Venezia, e sua moglie, la zia Giulia.
Questi tenevano salotto e, frequentando la loro casa, mi trovavo con i miei
stessi Professori. Fra i quali il grecista Romagnoli appunto. Egli era un po'
il padrone della facoltà. C'era da chiamare un nuovo titolare di letteratura
italiana, e nel clima antigermanico che si era formato in Italia dopo
l'intervento, ci voleva, non un accademico erudito, ma un poeta: per
valorizzare di fronte ai pedanti tedeschi la genialità italica. Romagnoli fini
con lo scegliere Giovanni Bertacchi. Noi, studenti maschi (che tuttavia eravamo
presenti in facoltà, come ho detto, una decina in tutto) non eravamo per nulla
soddisfatti delle sue prime lezioni, dedicate a Leopardi, perché le lezioni
avevano assunto il carattere di conferenze mondane, alle quali intervenivano
per snobismo le dame della buona società padovana. Personalmente Bertacchi però
era un uomo di alta statura morale: un fiero montanaro della Valtellina. Finimmo
poi coll'amarlo, anche se come poeta lo giudicavamo un po' noioso, e come
professore privo di una vera efficacia critica. Facemmo dunque pace, e andammo
una domenica insieme in gita a piedi sui Colli Euganei. Fu il giorno della
prima incursione aerea austriaca su Padova, e dall'alto dei Colli assistemmo
allo spettacolo pirotecnico del bombardamento e della contraerea.
Tra noi c'era Angelo Sommer,
studente anch'egli di lettere, che negli anni precedenti aveva abitato a Mestre
e che aveva fatto con me, sullo stesso banco, tutto il ginnasio liceo Marco
Foscarini di Venezia. Più tardi fummo presi da interessi diversi, ma io l'ho
sempre considerato un carissimo compagno ed amico.
Durante l'anno accademico fui per
qualche settimana a Torino, ospite di un altro compagno di liceo, e poi amico
fraterno per tutta la vita, Nino Valeri. Era anch'egli studente di lettere e divenne
negli anni successivi titolare di storia moderna nelle Università di Catania,
di Trieste e di Roma. Feci allora amicizia con un gruppo di suoi compagni
dell'Università di Torino, fra i quali Manlio Brosio e Poldo Piccardi. Mentre
io ero a Torino, mio padre e mia madre erano andati in Svizzera ad un convegno
per un tentativo di ricostituzione della Internazionale Socialista, sfasciatasi
in seguito alla guerra. Conobbero allora Lenin e Trosky, e fecero particolare
amicizia con Lunaciarski. A Torino io assistetti per la prima volta,
nell'Istituto del professor Kiesow, a lezioni di psicologia sperimentale.
L'anno accademico passò
rapidamente, e nell'estate del ‘16 fui chiamato sotto le armi. Benché avessi
lasciato gli studi matematici, fui assegnato a Roma al 13° Reggimento
artiglieria da campagna, come allievo ufficiale. Li mi accadde un fatto strano.
Il mio comandante di batteria, Norberto Fiorilli, di pochi anni più anziano di
me, era stato l'autore (con uno pseudonimo ottenuto anagrammando il proprio
nome) di un libretto su Le geometrie
non-euclidee. Questo libretto lo conoscevo e lo avevo studiato con grande
interesse, perché trattava del problema dei fondamenti della geometria, e cioè
di quello stesso problema che mi aveva portato inizialmente a studiare
matematica. Questo lo seppi solo anni dopo. Il tenente Fiorilli non lo vidi
più, dopo quel mio primo contatto. Ma benché io fossi soltanto una recluta ed
egli fosse il mio comandante di batteria, ci fu una simpatia fra noi, come se
ognuno dei due conoscesse il legame spirituale che ci univa.
Divenni aspirante ufficiale, dopo
un breve periodo di addestramento a Torino, e nell'estate del '17 fui mandato
al fronte. Presi dunque parte alla guerra: ma ebbi la fortuna di non essere
coinvolto in situazioni eccessivamente drammatiche. Alla fine del conflitto, mi
trovai a Trieste, da cui fui poi rimandato, dopo un paio di mesi, all'interno
del paese, perché lettere da me spedite all'interno dell'Italia e setacciate
dalla censura militare, risultarono sospette, per la simpatia che esprimevano
per la rivoluzione russa, per Bela Kuhn e per gli spartachisti tedeschi.
Finalmente tornai a Padova per
completare gli studi. Avrei voluto riprendere gli studi di matematica, ma
Aliotta mi consigliò di finire prima il corso di filosofia. E cosi feci,
presentando tuttavia per la tesi di laurea, un lavoro di logica della
geometria: Le geometrie non euclidee e il
problema della conoscenza. Un condensato dunque: dove entravano la mia
passione per gli studi matematici, gli insegnamenti del mio tenente Fiorilli, e
l'influenza di Aliotta. Per comporre la tesi impiegai un paio d'anni. Conobbi e
studiai Hilbert e Betrand Russell, mi avvicinai alle opere di Vailati, e
cominciai a pronunciare la parola, allora ignota nel nostro paese, epistemologia, teoria della scienza. Si,
quella era la strada che dovevo imboccare.
Senonché un giorno (io ero ancora
in divisa di ufficiale) arrivò a Padova un professore triestino, che aveva
insegnato psicologia nell'Università di Graz, e che, divenuto cittadino
italiano per l'annessione di Trieste, aveva perduto il proprio posto in
Austria. Il Ministero dell'Istruzione italiano lo mandò a Padova ad insegnare
psicologia. Ed egli fu nominato, senza concorso per meriti eccezionali,
professore ordinario di psicologia nella nostra Università. Alla sua prima
lezione eravamo due soli allievi presenti. Ma io fui affascinato dall'uomo.
Sentivo parlare di problemi e di tecniche scientifiche in facoltà di filosofia,
non da lontano come in seconda istanza, cosi come mi era accaduto con Aliotta,
ma in modo diretto. Vittorio Benussi era uno scienziato esatto, uno
sperimentalista, ancorché in un campo particolare, diverso da quello della
matematica e della fisica. Uscii da quell'aula dopo aver sentito la sua
lezione, nello squallido ambiente di due unici studenti. E dissi a me stesso: «
Io sarò l'assistente di questo uomo ». Cosi fu.
Mi laureai in filosofia nel '22,
con la tesi di cui ho detto, e fui nominato nel '23 assistente volontario del
Laboratorio di psicologia sperimentale…
da Il mio mondo giovanile nell’antica Padova, in “Belfagor”, A.XLI n.1
gennaio 1986
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