Dal sito Le parole e le cose riprendo l’incipit del saggio di Claudio Giunta
Diventare Fantozzi compreso in una
raccolta dal titolo Una sterminata
domenica, appena uscita per Il Mulino. Giunta riesce a mettere insieme –
cosa non molto frequente – acume analitico, sguardo storico, stile brillante:
il suo Fantozzi è credibile e divertente. Negli altri undici saggi – a quanto
si legge nella nota informativa – è possibile trovare di tutto: da Comunione e
Liberazione a Luciano Moggi, da Elio e le Storie Tese a Matteo Renzi. Una buona
ragione per procurarsi il libro. (S.L.L.)
Negli ultimi quarant’anni si è
certamente potuto ridere di cose più intelligenti (anche se si è spesso riso di
cose meno intelligenti), ma se si guarda semplicemente alla quantità, al
numero, di niente e di nessuno si è riso più che di Fantozzi.
I residui di queste risate, oltre
che ben fermi nella memoria, sono tutti visibili nel linguaggio che adoperano
gli italiani nati tra gli anni Cinquanta e gli Ottanta. Quando Giorgia Meloni
(classe 1977) dice in parlamento (29 aprile 2013) che c’è «un leggerissimo
problema di copertura finanziaria», quel leggerissimo pronunciato calcando
sulla prima sillaba, lég-gerissimo, viene da Fantozzi («ho una leggerissima
sudorazione»). Quando Paola Cortellesi (classe 1973) annaspa nello sketch della
doppiatrice (Magica Trippy),
quell’annaspare – bocca spalancata, palpebre a mezz’asta – viene da Fantozzi. E
poi merdaccia, coglionazzo, vadi, venghi, dichi, fogna di Calcutta, puccettone,
sudorazione azzerata, mani due spugne, fronte imperlata di sudore, la poltrona
in pelle umana, la nuvola da impiegato, il direttore galattico, il
megadirettore naturale, il Dir. Gen. Lup. Mann. Gran Farabut: tutto questo
lessico della disperazione e del sopruso, il lessico usato e subito da chi
sopravvive non solo ai piani bassi dell’organigramma aziendale ma ai piani
bassi della vita, è diventato ormai – e stabilmente – lessico famigliare degli
italiani, quasi senza distinzioni di ceto, istruzione, provenienza geografica.
Si può infatti trovare
detestabile sia il linguaggio sia l’immaginario di Fantozzi, ma non si può non
prendere atto della loro efficacia, un’efficacia superiore a quella di
qualsiasi romanzo o saggio, e paragonabile soltanto o pochi o pochissimi
prodotti della TV o del cinema contemporaneo. La corazzata Potëmkin di
Villaggio è proverbiale come i tre anni di militare a Cuneo di Totò, ma è
ancora più interclassista e interregionale (Totò, al nord, lo vedono, rivedono
e citano a memoria soprattutto gli intellettuali); e ‘fantozziano’, ‘fare come
Fantozzi’, sono diventate espressioni d’uso comune non in quanto designano uno
stile o un modo di vedere il mondo (e insomma non merce per intellettuali come
‘felliniano’ o ‘lynchano’ o ‘kafkiano’) ma in quanto isolano, ritagliano e
battezzano un determinato pezzo di mondo: la situazione fantozziana c’era già,
solo che mancava la parola per definirla, e dunque nessuno l’aveva ancora messa
bene a fuoco. Dal 1971 la parola c’è, e questo ha fatto sì che sia diventato
impossibile tollerare senza vergogna – per sé o per altri – situazioni
fantozziane.
Che cos’è dunque, in che
consiste, una situazione fantozziana?
Da un lato, in una certa
inadeguatezza rispetto alle richieste, esplicite o implicite, dell’ambiente nel
quale ci si trova ad agire. In questo senso, Fantozzi è l’archetipo dell’uomo
medio sensuale, quello che vorrebbe starsene in casa a guardare la partita ma
viene trascinato dalla vita e dalle convenienze in posti impensati come il
cineclub (al quale Fantozzi è culturalmente inadeguato) o il campo da tennis
(al quale Fantozzi è fisicamente inadeguato) o un ricevimento elegante (al
quale Fantozzi è inadeguato per ragioni di censo e di maniere). ‘Fantozziano’
è, qui, il nome della frizione tra un uomo semplice e le infinite trappole che
la vita moderna, o la vita tout court,
semina sul suo cammino: fantozziano è il rapporto che il rag. Ugo Fantozzi ha
con il mondo, e fantozziane le punizioni che il mondo gli infligge.
Ecco per esempio una situazione
fantozziana archetipica in poco più di venti parole, da Le sette perle del Mediterraneo:
– Sarà la crociera del sole! – annunciò trionfalmente Filini venerdì
sera. La crociera del sole partì il giorno dell’unica inondazione di Genova in
questo millennio.
Dall’altro lato, il mondo
all’interno del quale Fantozzi agisce è il mondo di una grande azienda, perciò
‘fantozziano’ è soprattutto il rapporto che il rag. Ugo Fantozzi ha con i suoi
colleghi e con i suoi superiori. Proprio qui sta uno dei tratti più originali
di Fantozzi. Perché nei film e nei libri sul lavoro girati e scritti prima di
Fantozzi il nemico era facile da riconoscere: era il padrone, o era il
meccanismo inumano della produzione, dinanzi al quale i lavoratori erano, come
si dice, tutti nella stessa barca. Ma Fantozzi vive al crepuscolo dell’età
della produzione industriale. I suoi uffici sonnolenti, le sue gite aziendali,
i suoi impiegati che giocano a battaglia navale annunciano già l’età del
post-industriale, del terziario, e insomma di tutta la fuffa che per un certo
numero di anni ha fatto credere un po’ a tutti che fosse davvero possibile
restare la quinta o sesta potenza industriale liquidando le industrie. Fantozzi
lavora già in un’azienda-ministero che non produce nulla. E da questo pseudo-lavoro
(che cosa fa, veramente, Fantozzi?) ricava più mortificazione che stress.
Quando si pensa a libri che
parlano del mondo del lavoro si pensa a Donnarumma
all’assalto o a Memoriale, non a
Fantozzi, il che è comprensibile, è anche giusto, perché quelle di Villaggio, a
differenza di quelle di Ottieri o di Volponi, non sono rappresentazioni
realistiche, sono parodie. Nel mondo reale non ci sono direttori che si fanno
chiamare Dott. Ing. Grand. Uff. Lup. Mann. o che hanno in ufficio poltrone in
pelle umana e un acquario in cui nuotano gli ex dipendenti. Ma basta solo
citare queste trovate deliziose per capire che Villaggio ha saputo darci
qualcosa che prima non c’era: non la sottomissione e l’ossequio, che sono dei
luoghi comuni dai tempi del Travet di Bersezio; e nemmeno l’aria irrespirabile
dell’ufficio, la guerra silenziosa tra impiegati, che è già un motivo di Gogol;
ma qualcosa di simile a ciò che Bachtin ha chiamato lo ‘scoronamento
dell’eroe’. Nei libri e nei film dedicati al lavoro i padroni si possono
disprezzare o odiare come nemici, ma sono sempre nemici seri. Nei libri e nei
film di Fantozzi, invece, i padroni e i dirigenti, prima di essere padroni e
dirigenti, sono soprattutto degli imbecilli: gente ignorante, incapace,
superstiziosa, meschina, puerile, piena di tic e di manie assurde, a cui
nessuna persona sensata affiderebbe la direzione di una bocciofila, figurarsi
un’azienda.
Fissando l’attenzione sui lati
ridicoli del mondo del lavoro, Villaggio gli ha tolto un po’ di quell’aura
sacrale che lo circondava nel giornalismo e nella letteratura engagée. Ha fatto per l’ufficio qualcosa
di simile a ciò che Fellini ha fatto per la scuola in Amarcord. Sono parodie, certo, ma parodie che introducono nel
ritratto un elemento di verità. Esiste un prototipo del capitano d’industria? E
a chi assomiglia di più, al Ciro Nasàpeti delle Mosche del capitale o al Catellani di Fantozzi, il patito di biliardo che venera la vecchia madre? Al
primo, certamente. Ma i Catellani esistono. Esiste la catellanità.
Salvo che per fugaci apparizioni
(l’incontro col sovversivo Folagra), all’interno dell’azienda-ministero il
conflitto di classe non c’è. C’è un conflitto umano, e sempre individuale, non
con padroni ma con dirigenti che sono soprattutto capricciosi o pazzi: il patito
del ciclismo, il maniaco della nautica, lo schiavo del gioco d’azzardo. Ma il
conflitto che conta, quello che dà ai libri e ai film di Fantozzi la loro nota
caratteristica di divertimento e di angoscia, è il perenne conflitto con i
colleghi d’ufficio. Tra i propri pari – nei libri e nei film sul lavoro usciti
prima di Fantozzi – si trovava solidarietà, conforto. Ma i propri pari erano di
solito, protagonista essendo un operaio, altri operai. L’ufficio è tutta
un’altra cosa, e Villaggio dice la verità sull’ufficio, sul modo in cui
l’arrivismo, la vanità, la semplice onnipresente stupidità umana polverizzano
ogni ipotesi di solidarietà tra persone che vivono insieme per anni e, dopo
anni, si detestano (l’odioso Calboni), si tengono a distanza (con Filini: «Ma
che fa, mi dà del tu? – Ma no, batti lei: è congiuntivo!») o si usano per fare
esercizio di Schadenfreude («Quando comperava da Gino Sport faceva schifo,
tanto era indifeso contro quel diabolico cialtrone, e c’era sempre una piccola
folla di colleghi che mentre lui era nella tana del lupo si radunava fuori
dalla vetrina a godersi lo spettacolo sghignazzando e dandosi di gomito»).
Tutti orrendi, tutti colpevoli. È strano, ma è difficile pensare a qualcuno che
sia riuscito a rappresentare meglio le miserie dei colletti bianchi, cioè le
miserie della vita normale nell’Italia del post-boom, in quel momento fatato,
inspiegabile, inimmaginabile oggi, in cui tutti lavoravano ma nessuno lavorava
molto. Non che non ci sia qualcosa di fantozziano in Bianciardi, cioè di
bianciardiano in Fantozzi. Per esempio, da La
vita agra:
A me accadde, sempre dopo la fine delle vacanze (il settembre, ripeto,
è il mese tipico dei licenziamenti), d’essere messo alla scelta fra un
sottoscala e un terzo di stanzuccia, con tavolo dietro la porta, e orientato in
modo che, entrando, il vetro smerigliato andava a sbattere contro lo spigolo e
si rompeva fragorosamente, e questo diventava un altro elemento negativo, che
preludeva al licenziamento.
Il tavolo nel sottoscala, la
porta a vetri che si apre e si rompe, il commento stesso («diventava un altro
elemento negativo, che preludeva al licenziamento»): questo è già Fantozzi
senza essere ancora fantozziano. Ma Bianciardi parlava dell’Italia arrabbiata
del boom, e di una città frenetica come Milano, non dell’Italia rilassata del
post-boom, e di una città sonnolenta come Roma. Il protagonista della Vita agra vive male la città e il lavoro
soprattutto perché viene dalla provincia e gli tocca lavorare da solo, a casa,
oppresso dalle scadenze e dai debiti. Fantozzi vive modestamente, ma non ha mai
veri problemi economici: l’Italia degli anni Settanta offre anche a quelli come
lui, per la prima volta, la possibilità di comprare la casa, la macchina, di
far studiare la figlia, di andare in vacanza, di partecipare alla sbornia
consumistica e di buttare via, «sì, lo riconosco, buttar via due lire» per
un’attrezzatura da sci da campione olimpico.
Questo mondo, che per un paio di
decenni è stato il mondo di buona parte degli italiani, non si può dire naturalmente
che Villaggio lo abbia analizzato. Al contrario, lo ha semplificato al midollo
ricavandone, come fanno i grandi comici, un repertorio di personaggi e
situazioni da commedia dell’arte: il guitto Calboni, il nevrotico Filini, la
fatua Silvani, il megadirettore dispotico, e poi la gita in montagna, la dieta,
il cineforum, la vacanza al mare, eccetera. Ma proprio come accade nella
commedia dell’arte, ciò che si perde in termini di complessità e verità
psicologica si acquista in termini di forza rappresentativa: semplici come
sono, surreali come sono, col tempo questi personaggi e queste situazioni sono
diventati degli archetipi. Quanto al modo in cui lo scrittore-attore Villaggio
li ha gestiti nel corso di più di quarant’anni, bisogna distinguere.
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