Nel gennaio 1981, per il 60°
anniversario del Pci, Enrico Berlinguer rilasciò una lunga intervista alla redazione di “Critica marxista”, che aveva come
oggetto principale la “diversità” comunista, denunciata come “fattore k” dagli avversari,
che ne ricavavano l’aprioristica esclusione dal governo, e orgogliosamente
rivendicata dal segretario del partito, anche e soprattutto dopo lo strappo con
l’Urss. Ne riprendo qualche brano. (S.L.L.)
D. - Il tema
della «diversità» comunista è tornato di attualità nei dibattiti, nei discorsi,
negli scritti per il sessantesimo anniversario della fondazione del nostro
partito. Tu stesso hai parlato, in più occasioni, di una «originalità», di una
«peculiarità», di una «alterità» e persino di una «anomalia» del nostro
partito.
R. - Ho già avuto modo di dire che
anche noi, anche il Pci è figlio della rivoluzione russa del 1917, ma un figlio
ormai adulto e autonomo. Se ci si giudica in base a ciò che effettivamente
facciamo, pensiamo ed affermiamo in ogni sede e circostanza, con fermezza, con
serenità e senza alcuna iattanza in Italia e fuori, credo che la nostra piena
indipendenza si sia dimostrata effettiva al punto tale che per tutti dovrebbe
ormai essere fuori discussione. E non credo nemmeno che valga la pena ricordare
che da tempo abbiamo criticato ogni interpretazione totalizzante del ruolo del
partito. La verità è che ciò che ci si rimprovera oggi, come sempre, è che un
partito del movimento operaio qual è il Pci non ha rinunciato a perseguire
l'obiettivo e a lottare per un mutamento radicale della società. Si vorrebbero
partiti di sinistra che di fatto si accontentano di limitare la loro azione a
introdurre qualche correzione marginale all'assetto sociale esistente, senza
porre mai in discussione e prospettare una sistemazione profondamente diversa
dei rapporti che stanno alla base della struttura economica e sociale attuale.
La principale diversità del nostro partito rispetto agli altri partiti
italiani, oltre ai requisiti morali e ai titoli politici che noi possediamo e
che gli altri stanno sempre più perdendo (e che tu hai opportunamente
ricordato), sta proprio in ciò: che noi comunisti non rinunciamo a lavorare e a
combattere per un cambiamento della classe dirigente e per una radicale trasformazione
degli attuali rapporti tra le classi e tra gli uomini, nella direzione indicata
da due antiche e sempre vere espressioni di Marx: non rinunciamo a costruire
una «società di liberi e uguali», non rinunciamo a guidare la lotta degli
uomini e delle donne per la «produzione delle condizioni della loro vita».
L'obiezione che ci viene fatta è che questo nostro finalismo sarebbe un modo di
voler imporre alla storia una destinazione. No, questo è il modo in cui noi
stiamo nella storia, è la tensione e la passione con cui noi agiamo in essa, è
la speranza indomabile che ci anima in quanto rivoluzionari. Consapevoli che,
invece di avere uno sviluppo dell'umanità, si possa andare anche verso una
nuova barbarie (come dice il Marx del Manifesto, verso la «comune rovina delle classi in lotta), noi ci battiamo
perché questo esito catastrofico sia evitato all'umanità, e chiamiamo a
combattere per conseguire un fine di felicità, di serenità, di giustizia, di
libertà. […]
L'«assalto al cielo» — questa
bellissima immagine di Marx — non è per noi comunisti italiani un progetto di
irrazionalistica scalata all'assoluto. Da storistici, quale era lo stesso Marx
(e i nostri Labriola, Gramsci,
Togliatti), non ci muoviamo sul piano di un esaurimento della storia: tendiamo
invece tutte le energie di cui siamo e saremo capaci per rendere concreto e attuale
ciò che è maturo dentro la storia, ce ne facciamo «levatrici», favorendo con il
lavoro e con la lotta la processuale fuoriuscita
della società dall'assetto capitalistico che, per dirla con le parole del
vecchio Engels, ormai veramente “merita di morire”.
D. - Qual è la radice della nostra «anomalia»? In che cosa consiste e come
si manifesta la nostra autonomia?
R. - Oggi, lo sforzo della classe
operaia (e del partito) per affermare la propria autonomia ideale e politica
rispetto alla società capitalistica nasce dalla ripulsa dei «valori» dominanti.
Per esempio, uno dei valori costitutivi e fondanti delle società capitalistiche
è l'individualismo, la contrapposizione fra gli individui, la lotta di ciascuno
contro tutti gli altri, di ciascun gruppo o corporazione chiusa in se stessa
contro tutte le altre. La classe operaia, e noi comunisti, tendiamo ad
affermare invece il valore della solidarietà di classe e della solidarietà di
tutti gli oppressi e gli sfruttati. Con ciò è chiaro che noi apriamo una lotta,
perché siamo convinti della necessità, della possibilità e della utilità
generale di costruire rapporti nella società e nello Stato fondati sul
ribaltamento di quel valore, di quella idea base del capitalismo che è appunto
l'individualismo.
Ma l'affermazione e la
dichiarazione non bastano: bisogna calare questo valore della solidarietà
dentro una politica di trasformazione, altrimenti tale valore rivoluzionario si
trasforma in quel banale e qualunquistico detto, secondo il quale «stiamo tutti
nella stessa barca».
La difficoltà in cui si sono
imbattuti i partiti socialdemocratici sta proprio in ciò: che la loro politica,
illudendosi di essere «realistica e concreta», nei fatti è diventata spesso
adeguamento alla realtà così come essa è, e ha portato alla messa in parentesi
dell'impegno al cambiamento dell'assetto dato, li ha portati cioè
all'offuscamento e alla perdita della propria autonomia ideale e politica dal
capitalismo. La nostra «diversità» rispetto alla socialdemocrazia sta nel fatto
che a quell'impegno trasformatore e a quella autonomia ideale e politica noi
comunisti non rinunceremo mai.
Quando, per esempio, noi vedemmo che la nostra partecipazione ad una maggioranza di governo non serviva, per altrui volontà, ad avviare un processo di cambiamenti reali, anche se soltanto parziali, del modo di governare lo Stato e di far vivere la gente, non esitammo ad abbandonare quella maggioranza che funzionava ormai in modo antitetico all'obiettivo per cui era nata e cioè far vivere una solidarietà che servisse a far rinascere a rigenerare l'Italia.
Quando, per esempio, noi vedemmo che la nostra partecipazione ad una maggioranza di governo non serviva, per altrui volontà, ad avviare un processo di cambiamenti reali, anche se soltanto parziali, del modo di governare lo Stato e di far vivere la gente, non esitammo ad abbandonare quella maggioranza che funzionava ormai in modo antitetico all'obiettivo per cui era nata e cioè far vivere una solidarietà che servisse a far rinascere a rigenerare l'Italia.
Ora in Berlinguer, attualità e futuro, supplemento a "l'Unità", 11 giugno 1989
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